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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero
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La cura come storiografia critica

In questo scritto cercheremo di relazionare in modo diretto l’idea della rappresentazione critica attraverso il lavoro curatoriale partendo da un’iniziale riflessione. Nel discorso filologico inerente la rappresentazione artistica  occorre sottolineare la continua caduta di senso della critica nei confronti della storiografia (1). Dal suo apparire nella modernità la critica ha attraversato il percorso della storia in sua funzione esplicativa in quanto relativa all’aspetto politico educativo nell’Illuminismo, ha condiviso poi il percorso della metodologia fattuale dell’artista attraverso la riedizione del significato di verità della percezione, trascendendone il senso prima affiancando un generico realismo e poi traslandolo in immaginazione con Baudelaire. Questa immaginazione che emerge come contrasto all’evidenza dell’incapacità delle regole geometriche di competere con la tecnica pura della fotografia trasforma l’operato artistico in una sorta di autarchia segnica, quella del decadentismo simbolista con un carico di significati antistorici. Questo momento è sincronico all’ascesa di un sistema basato su un criterio di sostegno all’arte e all’operare degli artisti che possiamo riconoscere come elemento anticipatorio del lavoro curatoriale. In questo primo momento del percorso curatoriale, l'autore critico è strumentale all’evidenza fattuale dell’opera, così come nell’azione di Fénéon, o è storicamente predisposto all’indagine storico critica, come si evince dall’attenzione posta da Fry all’idea di una rappresentazione delle proprie idee attraverso il contenitore mostra (2). Tutto ciò avviene in quel ventennio che accompagna la fine del XIX secolo e l’inizio del secolo successivo, proprio nel momento in cui le tendenze formaliste in ambito storiografico risultavano dominanti. A ridosso di questo periodo storico l’indagine sull’arte si segmenta in tre differenti posizioni: quella della storia formalista, quella della critica solidale e quella della cura espositiva. Nella fase iniziale la rappresentazione in forma di mostra appare sottoposta alla necessaria formulazione storicista o all’effettiva compartecipazione attiva della figura storica del curatore. Tuttavia sebbene la formalizzazione del processo curatoriale mantiene una precisa identità storicista la sua particolarità sarà sempre più connessa con l’aspetto critico nei suoi modelli applicativi.  Rivolgendo lo sguardo alle dinamiche storiche risulta evidente che gli aspetti filologici di questo processo attuativo sono pressoché identici alle dinamiche storico critiche di quegli stessi anni e l’aspetto compilativo, formalista, dell’agire curatoriale, almeno sino alle grandi mostre degli anni Quaranta, risulta preminente (3). Se isoliamo i casi introiettati nell’orbita avanguardista sino ai primi anni Venti del Surrealismo, il tenore e la modalità attuativa del sistema espositivo corrispondono  esattamente all’applicazione del sistema formalista dell’interpretazione, quindi si è di fronte ad una coniugazione della fenomenologia visiva, dell’identità e delle conseguenze di similitudini.
In quegli anni l’aspetto maggiormente evidente non era tanto nella ricerca di modalità differenti da questa pratica storicista, nelle sue declinazioni stilistiche, ma era incentrato sull’acquisizione di conoscenze e metodologie installative delle opere. L’aspetto riflesso di un puro visibilismo applicativo risulta evidente nelle scelte e nelle modalità esecutive delle relative rappresentazioni critiche ma le azioni attraverso cui queste scelte si mostrano assumono connotazioni particolari, si regolamentano attraverso codici di lettura devoluti dalla storia della letteratura artistica e in particolare dalla ricollocazione argomentata delle conoscenze in ambito architettonico. Se l’identità del White Cube assegna nella sua logica allusiva uno spazio perfetto per la rilevanza del segno esposto, nella sottrazione di elementi maturati nel costruttivismo, la logica espositiva è tutta concentrata sul metodo e sulle regole, e in particolar modo sui codici architettonici di Vitruvio. Osservando per esempio le attività di Barr per il MoMa risulta evidente che l’organizzazione dello spazio, la posizione delle opere, gli allineamenti, sono concepiti seguendo queste regole che determinano quell’asciutto chiarore identificativo, della cui tradizione risentono ancora adesso molti degli allestimenti museali (4).
In questo periodo che si concluderà soltanto con l’avvio della Documenta di Kassel, la concezione della cura è distinta dalla relazione critica, ed è ancora molto aderente al sistema di indagine storica. Anche le mostre prodotte in ambito surrealista, al di là delle opere presentate, risultano inerenti questo sistema: ovvero quello di riunire e partecipare uno specifico momento dell’azione artistica, formalmente unificato dall’adesione programmatica ed esistenziale (5). Un caso emblematico è quello di Entartete Kunst (6). Questa mostra che all’epoca riscosse un enorme successo, viene realizzata attraverso una specifica modalità stilistico formale tale da riassumere i tratti caratteristici di quel sistema di messa in parentesi di un determinato percorso. Tralasciando il basilare scopo di ludibrio pubblico e la sua nefanda negatività, questo esercizio selettivo è palesemente emblematico di una tecnica di coercizione e filiazione formale adibita allo scopo dimostrativo, in quel caso della supposta corruzione mentale degli artisti contemporanei non affini ai dettami del totalitarismo nazista.
A partire dal 1955 con la nascita di on Documenta avviene il passaggio ad un sistema ulteriore. In questo caso si tratta dell’ultimo momento in cui la storiografia legifera sull’indagine espositiva ed è anche il momento in cui la critica della rappresentazione storica assume una sua specificità   che sarà poi l’aspetto più rilevante degli anni successivi. Documenta riassume un tratto determinante: l’impianto storico critico è strumentale al fine di rivalutare alcuni decenni della modernità che dopo essere stati cancellati ritornavano di fondamentale importanza. Usare le strategie installative già convalidate nel nascente sistema museale americano, superare la scansione nazionalista dei padiglioni veneziani alla Biennale, implementare un nesso contestuale attraverso la sede espositiva e i suoi segni apparenti derivati dal recente passato, ne sono ulteriori caratteri dominanti. Il tutto assume un successivo scarto innovativo nella prospettiva di guadagnare il territorio di un recente passato, convalidarlo per raggiungere la perfetta sincronia col proprio tempo storico. Così la Documenta sarebbe divenuta la rappresentazione testimoniale del suo tempo (7).

La cura processuale

Prenderemo adesso in esame l’evento maggiormente significativo di un trapasso definitivo dalle tecniche di rappresentazione curatoriale in funzione stilistico compilativa, assoggettate al dominio della storiografia critica e traslate invece nel territorio pragmatico delle scelte. Partiamo quindi dal periodo appena successivo all’ascesa della Pop art e coevo agli eventi Fluxus. Risultava evidente che simili connotazioni nell’ambito produttivo dell’opera d’arte avessero un ineluttabile legame con una determinata storia delle avanguardie e un’ulteriore connotazione sperimentale. Tuttavia nel caso di Fluxus questo tratto era particolarmente rilevabile anche per le modalità attraverso cui gli eventi andavano realizzati, ovvero in un clima di autarchia gestionale; anche se parzialmente coinvolto nell’organizzazione non possiamo accettare l’ipotesi che in Maciunas si densificasse l’aspetto artistico-critico dell’organizzatore autore come era avvenuto con Marinetti, Tzara, Breton, quindi anche allusivamente del curatore in senso lato (8). La refrattarietà dei singoli protagonisti di Fluxus rispetto all’attribuzione di questo ruolo si palesa nella constatazione che ciascuno di loro senta di essere stato protagonista indipendente all’interno di una situazione. Questo ci ricorda anche l’aspetto maggiormente teorico che negli stessi anni si prospettava attraverso l’Internazionale Situazionista che si produceva in azioni programmatiche di situazioni. Per quanto riguarda la Pop art, il suo legame con l’idea del ready-made avanguardista è basilare, tuttavia la sua azione non contemplava alcuna rottura col sistema dell’arte, semmai sembrava adeguarsi alle tattiche della produzione e dello storicismo formalista piuttosto che non alla disambiguazione di queste all’interno del sistema espositivo (9).
La processualità nell’arte implicava invece un’aderenza esistenziale, tale che potesse connettersi con un substrato filosofico ed estetico che riassorbiva alcune metodologie interpretative, in qualche modo dimostrando una superficie trasparente dell’opera protesa ad una filologia storico critica di impianto analitico; a ritroso, gli elementi caratterizzanti della processualità andavano dal contesto dell’azione fattuale nella verticale dell’esistenzialismo e della fenomenologia e nell’iconologia fino al paesaggio della memoria storica di Warburg. Così facendo l’azione processuale corrispondeva ad una decisiva genetica del segno attraverso la prassi dell’azione, al di là dello stilema, della forma, del singolo espediente. Il modello comportamentale del critico militante evolve con un ulteriore strappo dalla coesistenza storicista, quella che descriveva i percorsi che un eventuale curatore avrebbe svolto e su cui lo storico critico avrebbe dissertato. Il curatore diviene partecipe e assemblatore dell’evento poiché fiancheggiando la posizione della processualità assorbe e ricostruisce in sé quella dello storico esistenzialista, del critico fenomenologico e dell’autore compositore. Szeemann curando la sua celebre mostra When Attitudes Become Form (1969) partecipa in prima persona a questo strappo, trasla l’azione partecipata del critico ad azione medializzata della cura. Dalla trascrizione storico critica si passa alla coercizione esistenziale fenomenica, olistica e ontica, proprio mentre lo strumento della critica militante tracimava nella dissoluzione descrittiva, nella sua inessenzialità formativa. Dalla processualità in poi, ogni azione artistica, ogni passaggio da un movimento ad un altro, da situazioni e comportamenti ha usato il linguaggio curatoriale come trascrizione documentale, trasferendo così la modalità delle scelte critiche in atti di scelta pratica, espositiva, corredandone l’aspetto con modalità di scrittura affinate al complesso segnico di cui era l’anticipo. La cura processuale è quindi da questo punto di osservazione il primo momento di cura critica, lì dove l’azione performativa della scelta dell’opera è la sublimazione dell’ipotesi interpretativa della critica; ma in misura maggiore  del linguaggio della critica quello della cura partecipa al contesto dell’arte, ne tange le prospettive e ne cauterizza le ferite inferte alla neonata disciplina dalle accuse di assenza significativa storico critica. Per aver sottratto questo ruolo di gestione del contemporaneo allo storicismo critico la cura viene collocata negli inferi che saranno quelli postmoderni (10).

La cura postmoderna

Gli anni della processualità curatoriale determinano la lettura epistemologica dell’opera d’arte, conseguenza della crisi dell’interpretazione, contro cui la critica, militante o storicista aveva dibattuto alla ricerca di un possibile ruolo, lì dove nel sistema che andava formandosi, la sua autorità era scivolata verso la cronistoria. L’eclettismo critico che si evidenzia alla fine degli anni Settanta, fra iconologia, dialettica, pragmatica esistenziale, segnala  l’irrilevanza del discorso critico, la sua inessenzialità sia accademica, poiché le istanze del contemporaneo non ne sono parte storicizzabile, sia nel sistema dell’arte sempre più compromesso dalla rinascente virulenza del liberismo economico. Su questa base la metodologia curatoriale degli anni postmoderni si ratifica nella convinzione che il discorso critico per riunire alcuni significati e poterli somministrare pubblicamente non possa più fare a meno della complicità espositiva, sottraendo quindi il percorso espositivo al semplice dominio dell’esperienza generata dal collettivo insito nella processualità. Questa domanda di libertà essenziale alla critica si rivolge quindi allo spazio espositivo e assume il gesto della scelta processuale ma lo rivolge al singolo impegno dell’individuo curatoriale, scindendolo dall’agire sincronico del gruppo. A Jean-Christophe Ammann, Pierre Restany, Catherine Millet, che vedono nel sistema critico uno strumento convalidato attraverso l’esperienza della messa in mostra si oppone l’individualismo artistico e il conseguente prodursi di una cura votata alla separazione, alla specificità del singolo, riflessa nella distanza degli spazi attribuiti e al ritrarsi dell’esplicazione della scelta. La cura postmoderna tentenna quindi tra il  sovraccarico di linguaggio, consapevole della sua inessenzialità, e la  sintomatica assenza dello spazio critico, lì dove alla costruzione di senso si sostituisce la costruzione di percorsi figurati, allo stesso modo in cui i neoismi postmoderni segnalavano il frantumarsi dell’utopia ideologica del progresso infinito e la resistenza dell’artista nel suo loculo facilmente amministrato. La cura manageriale diviene quindi lo strumento postmoderno per manifestare tendenze e mercato, emerso come elemento basilare della continuità formale dell’arte, nello stesso momento in cui attraverso le opere prodotte le voci della critica ne giudicavano l’esistenza in forma di residuo, scarto figurativo (11).
Tutto ciò accade nel processo di enfatizzazione del sistema espositivo che vede la sua espressione più eclatante nel continuo proliferare delle grandi manifestazioni internazionali. La cura postmoderna ha quindi due caratteri specifici, quello di professionalizzare la figura del curatore e quello di trascendere il principio secondo cui una mostra curata fosse un insieme di vari progetti differenti ad opera di singoli o gruppi preferendo l'aspetto complessivo, univoco dell'insieme al fine di sincronizzarsi con il sistema socio-politico (12). I presupposti di una ricollocazione tematica dell'insieme mostra non erano però una realizzazione tipicamente inerente agli anni postmoderni, poiché anche la Documenta 5 del 1972 aveva introdotto l'idea di un'unità tematica, Questioning Reality-Image Worlds Today (13), conferendo all'aspetto complessivo della mostra un'unicità significativa attraverso l'idea di riassemblare lavori e percorsi individuali estremamente differenti. La logica apparente era molto simile ad eventi relativamente recenti, come ad esempio Information di Kynastone McShine (14). Ma Information era una mostra tematica, concepita attraverso un'analisi storico critico stilistica in cui si evidenziava un elemento circostanziato del presente contemporaneo, mentre la Documenta 5 di Szeemann coinvolgeva il concetto di realtà del vivere surclassando qualsiasi apparente morfema comune. Su queste basi, sul finire degli anni Settanta le ipotesi curatoriali verteranno  sul l dualismo dell'aspetto unificante tra un'idea del caos e un’idea oppositivamente radicale fondata sull'individualismo. Questa dicotomia fra aggregazione e dispersione si ravvisa in particolar modo nelle divergenti tendenze fra il radicalismo empirico di talune emergenze collettive, come nel caso di The Time Square Show (1980) curata da Colab, e la quasi simultanea New Spirit in Painting (1981) presso la Royal Academy of Arts di Londra. Il clima di restaurazione di epoca postmoderna sceglie invariabilmente l'idea istituzionale di raccontare l'arte al presente attraverso la scissione e la sottomissione agli standard di una metodologia stilistica, mentre  all'opposto il radicalismo delle emergenze nelle pratiche artistiche si espone in forma di caotica moltitudine,di disordine e di non rifinito. Sebbene ci siano stati momenti di alterazione di questo fenomeno, il caso emblematico è quello di Les Immatériaux (1985) di Lyotard, lo stilema postmoderno si ratifica nell'ambito di una sterilizzazione espositiva a cui è assoggettato l'insieme compulsivo e frenetico del sistema dell'arte e che culmina con Chambres D'Amis del 1986 di Jan Hoet che ibrida al suo interno alcune delle tendenze interlocutorie che saranno emblematiche negli anni successivi; in primo luogo l'aspetto propriamente sociale del concetto "mostra". Realizzata in quegli anni in cui iniziava a diffondersi massivamente l'uso del digitale, le cui reti erano ancora private  contestuali a  aziende o comparti – quali quello bancario e turistico – Chambres sembra evocare l'aspetto di quel nuovo territorio della socialità rivoluzionato da Internet, ovvero il capovolgimento del privato in sociale, o persino la cannibalizzazione sistematica della soggettività individuale da parte del sociale che presto sarebbe diventato quel mostro occhiuto della nuova colonizzazione dei dati di cui siamo, nostro malgrado, artefici e vittime. La mostra riprendeva il concetto di quella realtà contemporanea che Szeemann aveva raccontato nella sua d5 riportando l'azione artistica al centro della vita sociale, invadendo gli spazi interstiziali del vivere collettivo. Ma in Chambres, nel suo purismo postmoderno, enfatizzato e sterilizzato, l'arte diventa il centro dell'azione invasiva del collettivo sociale all'interno del privato, attraverso la dinamica evolutiva del colonialismo – esplorare, espandere, sfruttare, sterminare -, e in cui l'opera, residuale divinatorio reso in forma di prodotto merce ideale, assume il ruolo della "paccottiglia" da scambiare con i nativi – gli abbacinati dal potere divinatorio di oggetti merce – in cambio della privatizzazione e sfruttamento del loro spazio vitale. L'evidenza del rapporto non conflittuale fra luogo espositivo e opera consiste nel potere esercitato dalla merce divinatoria che in quegli anni rappresentava il fulcro speculativo di quel mercato ideale che ratificava in valore economico la qualità attraverso le quotazioni d'asta. Il peso di questa invasività priva di criterio esplicativo, se non di quello di una evidenza economico mercantile dell'oggetto definito arte, si ripresenta persino all'interno di quelle situazioni che maggiormente avrebbero dovuto optare per un rifiuto della narrazione colonialista; istanza implicita nel liberismo di un capitalismo senza freni che proprio in quegli anni conosceva il suo riconoscimento come perfezione della fase conclusiva del postfordismo, e in cui il simbolo arte era un esclusivo oggetto di lusso e di allusiva speculazione; paradossalmente. anche la Tercera Bienal de La Habana (1989) insiste nel rinnovare il rapporto con quell'Occidente che in altro modo si contesta senza peraltro disconoscerlo (15).
Il clima postmoderno implica la netta separazione fra la fase progettuale della mostra e la sua interpretazione, la cui realizzazione avviene di norma in esecuzione conclusiva, spesso in chiave apolitica: tuttavia alcuni eventi rappresentativi di quegli anni si annunciano emblematici del rapporto esclusivo fra arte contemporanea e sistema politico economico nel frattempo instauratosi. Freeze (1988) ne è un esempio eclatante (16). La mostra curata e realizzata da Damien Hirst con il sostegno del potente collezionista Charles Saatchi, ospitata in un edificio amministrativo abbandonato, il PLA Building, nei Docklands di Londra, diviene celebre per aver riadattato lo spazio in disuso in una sorta di White cube, ad opera degli stessi artisti, e per aver mostrato il frutto del lavoro di quella generazione che era stata costruita professionalmente attraverso le dinamiche del British Council per l'arte contemporanea. Da Freeze si succederanno le molte mostre sugli YBAs prontamente collezionati da Saatchi e rilanciati in ambito internazionale. L'arte britannica che aveva vissuto una fase di stanca sino alla prima metà degli anni Ottanta ad eccezione di personalità forti riunite sotto la vaga etichetta di New British Sculpture, tra cui Tony Cragg, Anish Kapoor, Julian Opie, Rachel Whiteread conosce la sua nuova fase manageriale. La particolarità della costruzione dell'evento mostra Freeze risulta interessante poiché si propone in maniera conseguente al sistema di produzione di merci; si costruisce attraverso un rapporto d'impresa professionalizzante, didatticamente idoneo ad affrontare il sistema dell'arte; si autoproduce costruendo la propria credibilità attraverso un'immagine volutamente affine al sistema espositivo di quegli anni; propone l'arte come prodotto adeguato al ruolo identitario di merce divinatoria del mercato e usa strategie di visibilità, marketing e divulgazione affinando le proprie tecniche documentative con grafica alla moda. Quella divaricazione fra sistema espositivo istituzionale e modello di radicalismo oppositivo inizia a riassumersi in una unicità identitaria in cui l'aspetto curatoriale è vettore primario, come nel caso di Hirst, in cui le proprietà linguistiche dell'azione artistica si ricodificano in forma di organizzazione creativa-produttiva dove l'agente curatoriale inizia a svestire l'aura del manager organizzatore e assume le sembianze di quella figura ibridata fra critica e arte che corrisponde a quella del curator internazionale. Se prima si parlava dell'arte di cui era interessato il "conservatore", anche attraverso l'aspetto meno obsoleto dell'organizzatore di mostre in forma storico stilistica adesso si parla di curatore come ideatore di un contesto significativo del contemporaneo. Spesso sarà una figura compromessa nei differenti ruoli di artista, critico e curatore. Le prima avvisaglie di questo spostamento verso una maggiore identificazione critica dell'agire curatoriale si possono intuire in Magiciens de la Terre (1989) di Jean-Hubert Martin in cui l'aspetto del "magico" cui prima era associato il valore del "primitivo" è riassorbito all'interno delle dinamiche conservative del contemporaneo spazio vuoto del White cube riadattandone le visibilità alle prassi consolidate nell'azione curatoriale attraverso gli allineamenti, l'euritmia, la simmetria ed il decoro di memoria vitruviana. China Avant-garde (1989) sarà il segno di questo definitivo miscelarsi delle culture di una supposta alterità all'interno di un complesso sistema codificato dal modello occidentale.
In questi frangenti emerge l'identità di ciò che chiamiamo la cura critica, sebbene l'idea appartenga al decennio degli anni Settanta, quantomeno evocata dalla lungimiranza di Ammann quando dice che "[…] una delle più grandi finalità dei critici d'arte e degli uomini di museo consista nel rendere all'opera la possibilità di creare un impatto: dandole lo spazio di cui ha bisogno. Per questo mi sembra che sia importante, non solo parlare del messaggio (contenuto dell'opera) ma anche delle condizioni nelle quali viene esposta. E cioè analizzarla dal punto di vista del funzionamento, dall'architettura e dal punto di vista politico e sociale"  (17). L'idea che probabilmente in quegli anni sembrava fuorviante, poiché l'interesse era prettamente proiettato sull'agire individuale dell'artista, risulta vicino invece al lavoro realizzato dal duo Collins & Milazzo, i quali parlano della cura come un alter ego della critica. Ma anche di un linguaggio che riesca a dialogare criticamente col "parlare d'arte", ovvero che riassume nel "criterio" le modalità interiori dei singoli frammenti dell'esposizione ma ne coniuga l'insieme in un percorso significativo fatto di scelte (critiche) e di valori (artistici) (18).
Nei primi anni Novanta queste idee risultano afferenti alle indagini conoscitive sulle modalità espositive e questo si declina nella nascita delle numerose scuole curatoriali, il Bard College, il Goldsmiths, il Banff, l'Ecole di Genève in cui le idee della rastremazione della critica in modulazione curatoriale risultano la chiave fondamentale. Curare una mostra diventa quindi il modello imprescindibile per la presentazione dell'arte.

La cura neo-pragmatica

Alla fine degli anni Ottanta Collins & Milazzo elaboravano una teoria della post-appropriazione in termini di hyperframe contestuale all'esperienza installativa curatoriale; in Francia, lì dove queste idee derivate dalla decostruzione riuscivano maggiormente comprensibili, si parla di derive espositive, di frammentazione del discorso artistico alla luce delle innovazioni introdotte dall'agire curatoriale e della necessità di ricomporle attraverso l'interpretazione (19). Si tratta nei suoi primi esordi di una effettiva correlazione fra agire artistico e agire critico di cui possiamo dire siano stati protagonisti Liam Gillick, Hans Ulrich Obrist, Nicolas Bourriaud, Frank Perrin, Ormelle Laturque, attraverso le modalità espositive prodotte da esperienze individuali e istituzionali in quel bagliore francofono che ha rotto le tenebre di un'Europa immersa ancora nei traumi della processualità, i cui maestri apparivano come demiurghi ostili al cambiamento. In questa generazione giovane in quegli anni c'era la curiosità di indagare, senza ottemperare al dogma postmoderno, quelle operatività artistiche che avevano attraversato i decenni precedenti e spesso cadute in un oblio profondo. L'interesse in operazioni maturate all'interno della realtà delle istituzioni date in gestione a questa giovane generazione produceva percorsi interpretativi che si affinavano al radicalismo di decenni passati e al momentaneo sradicamento dal sistema conformale dell'arte di quegli anni, e in cui l'aspetto esplorativo, consensuale fra artisti e critici, si radicava nella progettazione di eventi e mostre che saranno poi l'oggetto esiziale del dibattito artistico. Fra questi, in particolare, il ruolo dei media, anche per tramite della sperimentazione tecnica di quegli anni in cui si producevano alcune operazioni definite col termine "postproduction" da Bourriaud (20). L'esperienza mediale non si limitava però esclusivamente ai muovi media ma coinvolgeva buona parte delle attività artistiche, nella consapevolezza che il presente fosse caratterizzato dall'ibridazione dei linguaggi e da ciò che da lì a poco avrebbe definito la globalizzazione artistica. La cura degli anni della globalizzazione è una cura critica, poiché perviene a risultati solo attraverso la realizzazione fattuale di ciò che si è pensato, la traduzione in azione di quanto si è teorizzato, nella consapevolezza che il sistema della critica come giudizio fosse stato surclassato dal modello della cura come criterio, termine assai più adeguato a identificare il linguaggio del parlare d'arte di quegli anni. Piuttosto che una critica artefice di un giudizio si parlerà di un criterio di scelte attraverso la cura per evidenziare e sottolineare alcuni percorsi del contemporaneo in cui la realtà si rispecchiava. Poiché per corrispondere a questo criterio il linguaggio storico critico non era sufficiente e i modelli interpretativi si dipanano in ambiti interdisciplinari nell'estensione intermodale di linguaggi di un'alterità che viene definita con maggiore precisione attraverso le visual cultures.
La globalizzazione degli anni Novanta ha implementato alcuni caratteri che possiamo individuare in poche basilari connotazioni: la virulenta rivoluzione digitale, l'avanzare di tematiche di un'alterità conoscitiva e la necessità di adeguarsi ad una tempistica creativa sempre più accelerata. Se coniughiamo queste tendenze, fortemente radicali nel contesto dell'azione artistica, alla simmetrica caduta di senso del linguaggio testuale, possiamo comprendere il perché della ricomposizione di questo in forma di produzione mediata fra specificità critica e modalità curatoriale attraverso una molteplicità di riferimenti e di linguaggi maggiormente affini alle relative pratiche artistiche. Il significato della cura critica è esattamente in questa mediazione e riassemblaggio dell'indagine sul criterio genetico e sulla ricodifica in linguaggio coordinato fra materia e testualità. Se l'indagine storico critica verteva sull'acquisizione dei significati dedotti attraverso le istanze del passato  ricomposte attraverso il linguaggio della critica in unità di senso, quello della cura critica osserva le complessità attraverso le scelte oggettuali che ritiene emblematiche per dipanare il senso del contemporaneo. In questo passaggio, che è manifestazione della parificazione del significato della cura con quello della critica, in quanto selezione di opere per dimostrare una voluta implicazione teorica del linguaggio artistico, la scelta e l'evidenza dei criteri adeguati all'interpretazione si riposizionano in modalità pragmatica e intermodale, assorbono una visione orizzontale delle coeve ricerche nei campi dell'agire artistico e delle variegate pratiche spesso inconciliabili con i sistemi metodologici e interpretativi della storia dell'arte (21). Questa contrazione dei due elementi fino ad allora riconoscibili e sincronici solo in parallelo, provoca nel contesto artistico l'ascesa e la polarizzazione del potere delle scelte nelle azioni della cura e di conseguenza del curatore. Se gli anni postmoderni sono stati dunque gli anni del discredito e della sfiducia nel metodo introiettivo della critica, gli anni immediatamente seguenti hanno proiettato il curatore agli apici del sistema dell'arte. Tuttavia questa figura era frutto di una ibridazione conseguente ad una richiesta necessaria, ovvero quella di produrre degli agglomerati di senso che potessero sprigionare il loro coefficiente significativo adeguato a comprendere e spiegare una forma di evidenza fattuale estranea ad una tradizione logica. Anche nel caso dell'appropriazione, termine che risultava caratteristico per alcune rappresentazioni artistiche marcatamente postmoderne, la globalizzazione ne considerava la tecnica in una alterità spesso incomprensibile nei suoi aspetti immediati. La semplice constatazione del "già fatto" implicava per lo sguardo storico critico una mancanza di qualità, o in termini prettamente formali, una maniera. La post-appropriazione indicava invece l'azione artistica in riferimento ad un movimento sottrattivo di alcuni tratti della realtà non tautologica. Per comprendere questo processo l'azione curatoriale si è interallacciata metodologicamente con lo stesso movimento sottrattivo dell'artista, ne ha assunto l'assioma per valutarne non tanto la tecnica, che in termini storici supponeva banalmente il modo duchampiano, ma la sua qualità dialogica, in quanto sistema d'indagine e svelamento della realtà offuscata dall'ombra complessa della globalizzazione. Se consideriamo l'impetuoso diffondersi già in quegli anni di corsi mirati a professionalizzare la figura del curatore ci accorgeremo che il dato tecnico è quasi sempre propedeutico all'insegnamento, mentre la sua pragmatica sottrattiva è nella successiva teorizzazione metodologica (22).
Tutto ciò avviene parallelamente alla percezione di quanto l'arte, la sua eclatante presenza, persino la sua mondanità, fosse un perfetto veicolo di diplomazia culturale e di competizione politica per l'affermazione della qualità di un sistema culturale, promozione e supremazia di un modello politico. La superfetazione delle grandi mostre internazionali appartiene a questo processo di ratifica di uno statuto socio culturale che le grandi nazioni e i contesti geopolitici hanno usato per qualificarsi nell'ambito di un sistema culturale che viene riconosciuto come apice e dimostrazione qualitativa della sua struttura in forma politica. Se le prime grandi Biennali corrispondevano ad un bisogno di competizione di cui quella di Venezia era l'esempio fondativo, quelle più recenti nascono col preciso intento di proporre un'idea di nazione ospitante aperta e attenta alle dinamiche culturali del liberismo contemporaneo. Per far questo la figura del curatore è l'anello centrale, colui che corrisponde in forma di stesura critica e di formatività allo spettacolo dell'arte come veicolo di lungimiranza culturale. Dagli anni Novanta in poi questo fenomeno si è ingigantito e sempre in una prospettiva socio-politica in cui è centrale il ruolo assunto del curatore, organizzatore tematico, critico, non iperspecializzato in alcun campo, attivo in modalità estranea alle strutture accademicamente composte (23). Questo spiega anche il fastidio che la figura del curatore ha sempre istillato all'interno delle scuole istituzionali e universitarie poiché non radicalizzato e non conformale alle prassi culturali precedenti (24). La sua ascesa è anche nella discutibile posizione di esercitare il potere attraverso le sue scelte strumentali ad un mercato dell'arte che sostiene la sua traiettoria pubblica. Senza questo sistema anche la figura del curatore delle grandi istituzioni temporanee, in fondo un free-lance d'alto profilo, non avrebbe la possibilità di esistere. Tuttavia il suo sistema di elaborazione, anche come prodotto intensivamente veicolato dalle pressioni del potere, assimila in sé il senso di una critica che si realizza attraverso la fattiva presenza delle opere (25).
L'identità iniziale di questa attitudine si può valutare attraverso la coesistenza di una pratica critica legata alla tradizione della militanza. Se il critico militante dei decenni precedenti usava la pratica curatoriale come luogo terminale di una ricerca affrontata sul campo del contemporaneo, quella del curatore, presente nel sistema dell'arte dagli anni Novanta in poi, si propone in una militanza critico progettuale, eliminando lo scarto e la discrepanza fra linguaggio testimoniale e azione curatoriale. All'inizio degli anni Novanta la procedura consona a questo atteggiamento che rivolta le tempistiche producendo le sue scritture critiche attraverso lo specifico dell'azione curatoriale è sincronica a quello delle tecniche storico critiche  e  l'azione mediale delle nuove tecnologie di comunicazione produce una rastremazione facendole coincidere al momento espositivo. Con la compiuta globalizzazione questa tendenza assume i tratti di una complessa ibridazione dei ruoli, sia attraverso lo scambio fra critica e cura, e anche fra artista e critico e fra artista e curatore. Poiché l'azione curatoriale assorbe alcuni dettami tecnici che sono propri dell'agire artistico, come nel caso degli allestimenti complessi e con un alto contenuto tecnologico, questo percorso di osmosi fra le differenti azioni nell'ambito del sistema fa sì che la pratica artistica divenga un coefficiente essenziale nel lavoro curatoriale e attraverso questa si elabori quella svolta discorsiva in cui simposi, tavole rotonde, conferenze, sul fare della messa in mostra della cura diventano il luogo elettivo di concentrazione di uno spazio critico (26). Come ulteriore frutto della globalizzazione il pensiero del lavoro curatoriale identificato nel paradigma del contemporaneo critico è stato centrale nelle ipotesi dei "mondi agonistici" extra-occidentali, in cui la permanenza di modalità tradizionali poteva essere facilmente aggirata poiché non consustanziale alla propria storia. Come scrive Geeta Kapur, questa attualità dell'agire agonistico, in particolare attraverso la sperimentazione avviata dalla Biennale dell'Avana fin dalla sua prima edizione del 1984, ha caratterizzato buona parte del lavoro di curatori e istituzioni situati in quell'altrove dell'Occidente e che adesso, provincializzando l'Europa, hanno trovato una nuova identità culturale (27).
In questo coacervo di tendenze variegate sostenute da una tecnologia che ne osmotizza alcuni tratti, il linguaggio curatoriale si è dovuto sincronizzare con quello artistico. La figura del curatore, anche sedimentata all'interno delle istituzioni più rappresentative, per mantenere la sua posizione ha quindi dovuto disimparare l'idea d'essere un aggregatore di istanze inconciliabili o quanto meno incasellate nell'ambito di uno stilema. Il suo ruolo è sempre più nel compito di associare il proprio pensiero alle pratiche contemporanee affiancandole attraverso una simmetria critico curatoriale che utilizza la condivisione e l'esperienza dell'artista condividendone un percorso leggibile. L'assunzione di svariate tecniche di rappresentazione da parte degli artisti contemporanei, il mixaggio di appropriazioni e memorie, coesistono nel sistema curatoriale attraverso una tecnica parimenti coordinata su cui i vari elementi sottratti dal reale non sono solamente oggetti, postproduzioni, ma anche azioni, scene, incontri, dibattiti o semplicemente esperienze di un vissuto reale di cui sono alterati i termini di normalità attraverso un'allusiva cornice teorica. In questo fermento di modulazioni artistiche è del tutto improbabile che attraverso l'ottica puramente rappresentativa dell'immagine si riesca a codificare il senso dell'azione produttiva dell'arte. L'appartenenza e la condivisione di determinate logiche creative dell'arte contemporanea sono infatti definite dall'ambito concettuale attraverso cui queste si realizzano e il lavoro curatoriale è propriamente uno dei momenti in cui alcune tendenze e specifiche riescono a identificarsi. Frutto di questa dimensione critico curatoriale è quella di trovare nel linguaggio il luogo essenziale del significato di un contesto e di una particolare dimensione. Proprio per questo alla proposta del movimento artistico si è sostituita quella della pluralità linguistica su uno specifico intento, dalla decolonialità alla dimensione politica su generi e cultura, dalle pratiche su ecologia e dimensione sociale della sostenibilità fino agli orizzonti oscuri di profezie sull'estinzione di ogni forma d'umanità. Poiché le pratiche artistiche coinvolgono la pluralità delle tecniche e dei territori anche quelle del curatore ne condividono dunque  le scelte. La sua scrittura è una forma d'ibridazione indimostrabile attraverso le categorie del raziocinio moderno, poiché il suo specifico è quello di immergersi nell'evidenza di quelle forme sottrattive che come si è sottolineato mediano, svelano, testimoniano, territori del sapere che non hanno validità secondo la logica delle scienze dimostrabili (28). L'orizzontalità della cura critica verte sulla sua esperienza nel sistema di rappresentazione del contemporaneo, assorbe le istanze attitudinali delle pratiche artistiche e le condivide nella messa in evidenza prima attraverso la scena pubblica e poi nella successiva dipanazione teorica. I suoi riferimenti non sono nella storia dell'arte poiché l'azione di coinvolgimento con le problematiche inerenti il contemporaneo, dai riferimenti allo status quo della politica e alle ragioni enigmatiche che questo produce, ne obbligano il pensiero su un'alterità dalla storia veicolata dall'arte del passato con cui l'opera contemporanea condivide solo il fatto essenziale d'essere sempre sottrazione e ricollocazione all'interno dell'incanto, anche sotto forma di esperienza viva, relazionale, appropriativa, testimoniale. Il territorio della critica così densamente desertificato dall'autorialità si ricodifica in azione produttiva, fattiva, esperienziale, capovolgendo i termini della modernità che imponeva una teoria come veicolo di una prassi connotativa, assodata. Alla teoria si sovrappone lo scopo, che è atto concettuale, presupposto non teorizzato ma reso in prassi, esposto, verificato e solo successivamente tradotto nei termini di un linguaggio speculare che riflette su se stesso (29). La relazione fra teoria e prassi in cui la cultura dell'Occidente aveva ordinato le sue regole attraverso le quali accedere all'opera d'arte è stata capovolta nell'ipermodernità odierna dove la pratica, l'esperienza, sperimentano il metodo che costruisce la successiva verifica, validando il risultato in una possibile teoria. Questa eventuale teoria è fortemente ondivaga attraverso il territorio culturale del contemporaneo da cui, nella verifica testuale, il curatore sottrae contenuti e intermodalità interpretative che si rendono ostili allo sguardo tecnicamente attrezzato alla dimostrabilità logica. Da ciò la persistenza dell'incomunicabilità del territorio interpretativo della cura critica nel contesto storico delle discipline che attraversa poiché il suo agire non è mai professionalizzato nello specifico del singolo elemento, dalla sociologia alle neuroscienze, dall'ingegneria elettronica alla biologia; il suo sguardo, anche se partecipe di istanze veritiere, è sempre disarticolato e scomposto rispetto alla regola di quei linguaggi. Così come lo è l'apparente insensatezza delle pratiche artistiche contemporanee su cui il volgare "avrei potuto farlo io" del pubblico risuona come una conferma della validità dell'oggetto esposto poiché segno d'una sottrazione che emula l'archetipale divinazione.
Su un altro piano, la  particolarità che lega alcune congetture inerenti l'interazione fra tecnologia dei media e le nuove pratiche curatoriali dalla fine degli anni Novanta agli anni Dieci del XXI secolo consiste nell'aver preceduto e teorizzato alcune delle prassi che sarebbero poi diventate obbligate dall'irruente evoluzione del sistema elettronico di calcolo. Inizialmente queste sperimentazioni che occupavano un territorio marginale, come nel caso dei primi esperimenti di net-art, coincidevano con un'auto proclamarsi all'esterno del sistema dell'arte e del suo eventuale storicismo schematico. Questa consapevolezza aveva di fatto creato un sistema alternativo a quello dell'arte contemporanea. In questo universo poi enfatizzatosi attraverso la rete internet era possibile reclamare un'alterità dal sistema dell'arte contemporanea e una libertà ulteriore. Fino ai primi anni Duemila usare alcune tecnologie in ambito curatoriale era considerata attività esterna all'arte, così come lo era stato per la fotografia prima del postmoderno, quando era considerata solo in funzione della testimonialità di azioni o opere temporanee, performative. Questo stesso pregiudizio era radicato nel contesto del contemporaneo e in particolare in relazione all'idea processuale della tecnica come materia concreta che aveva caratterizzato una storia espositiva durata dalla fine dei Sessanta per tutto il decennio e oltre i primi anni Ottanta. Con la New Media Art cambia questa prospettiva poiché il legame storico teorico più inerente è nella sua concettualità, piuttosto che nell'idea d'una continuità con processualità e appropriazionismo. Questa idea nell'ambito della rappresentazione artistica stentava ad evidenziarsi quando alcune tecniche ne vincolavano il percorso allo schermo; racchiudeva il pensiero che l'oggetto esposto fosse soltanto un'appropriazione di strumenti tecnici. Questo determinava una distorsione percettiva e una difficoltà critico curatoriale. Quando gli apparati tecnici si sono evoluti - in pochi anni si era passati dai primi cellulari al web alla portata di tutti, dai Carousel Kodak per cicli di diapositive ai Video wall – l'essenzialità della comunicazione ha surclassato l'aspetto inizialmente materico della tecnologia. Le tecnologie della comunicazione indagate attraverso le nuove strategie curatoriali hanno azzerato il problema tecnologico, ne hanno validato l'uso strumentale come parte integrante delle pratiche contemporanee poiché investivano il nesso essenziale fra potere e vita sociale (30). L'evento maggiormente rilevante realizzato dalla New Media Art è stato quello di aver ristabilito un possibile e attuale strumento di comunicazione all'interno dell'istituzione arte facendo interagire un pubblico con il lato nascosto delle tecnologie (31). Tutto ciò ha permesso di evolvere lo statuto curatoriale ad un complesso ambito in cui le modalità pratiche degli artisti sono miscelate in funzione di una tesi particolare, ciò che definisce il territorio d'indagine della mostra. Il lato oscuro di una simile procedura, che possiamo definire la pragmatica operativa della cura critica contemporanea, consiste nell'aver creduto di poter dialogare attraverso questo complicato modello con una platea ampia di pubblico; se consideriamo uno dei momenti più eclatanti di questo modello curatoriale, ovvero la Documenta 13 (32), col suo tributo di senso tentacolare, riceviamo la sensazione che il suo compito sia in ultima analisi fallimentare. Se il sistema neo-pragmatico interdisciplinare è certamente un ottimo strumento di indagine per la cura critica, il risultato nella sua estrema concettualizzazione è di riversare sul fruitore un senso di incomunicabilità per via della sua estensione. Catapultando lo spettatore all'interno di una mostra che si snodava in cinque sedi, Kassel (D), Kabul (AF), Alexandria-Kairo (EG), Banff (CA), con il suo carico di intenzioni onniscienti dal sapore d'un illuminismo ipermoderno "non invita alla logica", come ha scritto nel suo libro Enrique Vila-Matas, ispirato dalla sua partecipazione all'evento (33).
Il limite del neo-pragmatismo curatoriale è proprio nella mancanza di identificazione dei limiti: definire un percorso come la Documenta 13 che nelle intenzioni doveva essere "olistica e visione non logocentrica, scettica nei confronti del credo persistente nella crescita economica. Visione condivisa che riconosce le ombre e le pratiche di conoscenza dei sistemi animati e inanimati del mondo, compresi quelli umani" finisce col generare una presuntuosa calca di segni che al di là della percezione di possibilità creative tradiscono il senso complesso del suo essere (34). Diversamente da ciò, che potremmo chiamare la vertigine di onniscienza del curatore contemporaneo, quando il neo pragmatismo con le sue attitudini circoscritte si applica ad un contesto ben individuabile riesce a organizzare un sistema comprensibile; un esempio può essere la Manifesta del 2016 curata a Zurigo da Christian Jankowsky, durante la quale ogni artista invitato era affiancato da un'attività produttiva o sociale della città e che svelava alcuni meccanismi del sistema vitale di una ricca città europea (35). Il fatto che Jankowski fosse un'artista ha motivato alcune critiche negative rimproverandogli il fatto che il suo insieme fosse una sua creazione artistica; tuttavia, si può obiettare, ogni mostra è una creazione artistica. Piuttosto è la proliferazione di queste iniziative a determinare la loro clonazione sistemica e tematica per scopi commerciali e puramente promozionali (36).
La fine del modello neopragmatico è stata generata dalla sua stessa frammentazione all'interno del sistema dell'arte. La forza del contesto, il valore economico e i capitali necessari per allestire i giganti espositivi, lucrativi che vengono messi in scena attualmente, pongono su un pericoloso declivio le proposte artistiche, anche le più interessanti. Da una decina di anni il pensiero etico sulla necessità o meno che simili eventi siano realizzati solleva alcune questioni oppositive nel lavoro curatoriale. Sebbene l'orizzonte pragmatico esperienziale non sia messo in discussione i quesiti posti dal tempo presente contrastano con la pretesa di verificare le pratiche artistiche all'interno di contenitori falsificati, poiché simile falsificazione si riflette sui lavori artistici che, stimolati dalle risorse disponibili, si ingigantiscono contraddicendo le loro proposizioni iniziali. Oggi i lavori dei grandi protagonisti della scena artistica sembrano da questo punto di vista porsi in un corto circuito rispetto agli iniziali presupposti. Si parla di decolonizzare, di convivenza sostenibile, di tecnologie non invasive, di rappresentare un differente futuro, di contrastare le dinamiche discriminatorie e geopolitiche ma lo si fa afferendo ad un sistema che è il prodotto di quelle dinamiche (37). Così il lavoro curatoriale si trova a doversi rapportare su due differenti modelli; quello della rappresentazione politica, d'un impero economico indiscutibile e totalitario, o di confluire su un rapporto maggiormente fluido e meno stratificato all'interno del sistema istituzionale di produzione culturale. Poiché il sistema dell'arte è compromesso con l'idea della crescita continua e ratifica la cultura come prodotto, le modalità pragmatiche della cura si trovano a dover scegliere per un percorso estraneo alle istituzioni e non vincolate dal potere economico o doverne accettare l'ideologia economico funzionale; accettare questo presupposto significa condividere un percorso che obbliga all'adesione al sistema di scambio economico. Ma in un mondo governato dall'universalismo del liberismo totalitario, dove un singolo imprenditore riesce a guadagnare il corrispettivo stipendiale di duecentomila operai, il peso di questo paradosso d'un arcaicismo medioevale si riflette sulle modalità del tempo presente in una parcellizzazione di pratiche contraddittorie e marginalizzate.

Gennaio 2025

1) Cfr. D. Scudero, Arte contemporanea: Storia v/s  Critica, unclosed n.6, 2015
2) Monet and the Post-Impressionists, a cura di di R. Fry, Grafton Gallery, London, 1910. Id., The Grafton Gallery – I, (1910), in B. Altshuler, Salon to Biennial – Exhibitions That Made Art History, Volume I, 1863 -1959, Phaidon Press, London, 2008, p. 96-97.
3) Fra queste:  Film und Foto, Stuttgart, 1929; Cubism and Abstract Art, New York, 1936; Entartete Kunst, Munich, 1937; Exposition Internationale du Surréalisme, Paris, 1938; First Paper of Surrealism, New York, 1942; Art of This Century, New York, 1942.
4) Alfred Barr, Cubism and Abstract Art, cat., The Museum of Modern Art, New York, 1936. B. Altshuler, Op.cit, p. 239-254.
5) Questo in Exposition Internationale du Surréalisme, a cura di André Breton e Paul Éluard, Galerie Beaux-Arts, Paris, 1938, e nella successiva First Papers of Surrealism, a cura di André Breton e Marcel Duchamp, Coordinating Council of French Relief Societies, New York, 1942.
6) Entartete Kunst, Hofgarten-Arkaden, Munich, 1937. La mostra concepita come focus anti avanguardista, era realizzata con metodo stilistico tale da diventare la mostra d'arte d'avanguardia più visitata del secolo contando più di tre milioni di visitatori.
7) A. Cestelli Guidi, La Documenta di Kassel, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 21-26.
8) George Maciunas, Fluxus Manifesto, 1963, litografia offset, in Elizabeth Armstrong e Joan Rothfus, (eds.), In the Spirit of Fluxus, Walker Art Center, Minneapolis, Minnesota, 1993, p. 24.
9) Alberto Boatto, Dal Neo-Dada alla Pop Art, Laterza Roma-Bari, 2003 (Lerici, 1967), p. 67-73.
10) G. Celant, L’inferno dell’arte italiana, Costa & Nolan, Genova, 1990.
11) D. Scudero, Gli allestimenti postmoderni, in Manuale del curator, Gangemi editore, Roma, 2005, p. 83-88.
12) John Miller, The Show You Love to Hate, in MIB, HandBook of Curatorial Practice, ed. C. Tannert, U. Tischler, Kunstlerhaus Bethanien, Berlin, 2004, p. 15.
13) Harald Szeemann, Preface, in Documenta 5, C. Bertelmann Verlag Munich, 1972.
14) Kynastone McShine, Essay, in Information, cat. mostra, The Museum of Modern Art, New York, 1970.
15) Tercera Bienal de La Habana, Tradición y contemporaneidad, in Bienal de La Habana para leer, a cura di Isabel Maria Pérez Pérez, ed. Universitat de València, 2009, p. 103-133.
16) Freeze, a cura di Damien Hirst, cat. Olympia and York Canary Wharf and Docklands Dev. Corp., London, 1988.
17) J. C. Ammann, L'esposizione come strumento critico, in E. Mucci, P. L. Tazzi, Teoria e pratica della critica d’arte. Atti del convegno di Montecatini maggio 1978, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 174.
18) Collins & Milazzo; Hyperframes. Post appropriation discourse, V. I, èditions Antoine Candeau, Parigi, 1989, p. 17.
19) In particolare se ne occupano le riviste Documents sur l'art diretta da N. Bourriaud, Documents, sur l'art contemporain, SARL, Paris Art Conseil Editions, 1992-2000, e Blocnotes, Editeur Daily Museum, Paris, 1992 – 1999 diretta da F. Perrin e A.Laturcq.
20) N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, ed. it Postmediabooks, Milano 2004 (ed. or. Postproduction, Lukas & Sternberg, New York, 2002), p. 35.
21) Otto Pächt, Metodo e prassi nella storia dell'arte, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 1994 (ed. or. Methodisches zur Kunsthistorischen Praxis, Prestel-Verlag, München, 1977). La metodologia della Scuola di Vienna nel volume di O.P. ci offre un esempio lampante di quanto le regole interpretative della storia dell'arte non siano adeguate alla comprensione del lavoro artistico contemporaneo; fra le regole del sistema evoluto dallo storicismo formalista, quindi indagini su tempo, spazio, visione, iconologia, similitudine, sequenze, determinismo, varianti e stile, solamente l'identificazione della "posizione adeguata" e del "metodo comparatico", riescono a fornire un equilibrio dialettico per la valutazione e la dialettica sull'opera d'arte contemporanea.
22) Si tratta di una visione "tecnica" del lavoro curatoriale, il saper riempire moduli e approntare procedure organizzative. Molte istituzioni hanno prodotto testi di "tecnica" curatoriale, ma difficilmente ci si è riferiti alla tecnica in quanto metodologia. Cfr. Karen Love; Curatorial Toolkit. A Practical Guide for Curators, 2010, Legacy Now, Vancouver, CA, 2010.
23) Marco Scotini; (a cura di); Utopian Dispay. Geopolitiche curatoriali, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 13-18. S. Andreasen & L. B. Larsen, Curating's Crisis of Representation, in P. O'Neill (ed.), Curating Subjects, Open Editions, London, 2007, p. 26-27.
24) Il pensiero sulla cura critica è visto ancora adesso come una falsificazione o al meglio indicato vagamente come "studi curatoriali" presso le istituzioni universitarie e accademiche. Cfr. Stefania Zuliani, Esposizioni. Emergenze della critica d'arte contemporanea, Bruno Mondadori, Milano / Torino, 2012. In altro modo lo si è interpretato come pura riflessione del lavoro artistico. Cfr. Beatrice von Bismarck, The Curatorial Condition, Sternberg Press, London, 2022.
25) Ute Meta Bauer; The making of an Institution, in M. Scotini, Op. cit., p. 33.
26) Eva Diaz, Futures: Experiment and the Tests of Tomorrow, in O'Neil, Op. cit., p. 92-99. La "svolta discorsiva" è una tecnica di allestimento relazionale e concettuale usata sia nelle pratiche artistiche che in quelle curatoriali.
27) Geeta Kapur; La curatela in mondi agonistici, in M. Scotini, Op. cit., p. 112-120.
28) J. Elkins; Writing Without Readers, in What Happened to Art Criticism, Prickly Paradigm Press, Chicago Ill., 2003, p. 2-13.
29) Carol Yinghua Lu; L'esposizione come esposizione, in M. Scotini, Op.cit., p. 211-222.
30) Jacob Lillemose, Conceptual Transformations of Art, in J. Krysa, (ed.), Curating Immateriality: The Work of the Curator in the Age of Network Systems, Data Browser, New York, 2006, p. 113-136.
31) B. Graham, S. Cook, Rethinking Curating. Art After New Media, MIT Press, Cambridge, MA, 2010, p. 124-143.
32) Documenta 13, a cura di Carolyn Christov Bakargiev, cat. Hatje Cantz Verlag, Ostfildern, 2012.
33) Enrique Vila-Matas, Kassel non invita alla logica, ed. it. Einaudi, Torino, 2015 (ed. or. Kassel non invita a la lógica, 2014). L'autore ha partecipato all'edizione della Documenta 13 su invito della curatrice Carolyn Christof-Bakargiev. Il suo compito era quello di sostare all'interno di un ristorante cinese alla periferia di Kassel tutte le mattine per tre settimane in attesa di incontrare eventuali visitatori e scambiare con loro alcune frasi.
34) C. Christov-Bakargiev, Op. cit., p. 4.
35) Manifesta 11, What People do for Money, cat., a cura di Christian Jankowski, Lars Müller Publishers, Zürich, 2016.
36) Simon Sheikh, Constitutive Effects: The Techniques of the Curator, in P. O'Neill, (ed.), Op cit., p. 174-185.
37) Citiamo alcuni casi specifici; la mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Hirst presso Palazzo Grassi, Venezia, 2006; la mostra Liminal di Pierre Huyghe presso la Fondazione Pinault, Venezia, 2024; Marsyas, la scultura di Anish Kapoor presentata alla Tate Modern nel 2003; The New York City Waterfalls, di Olafur Eliasson, 2008. Sebbene questi lavori possano avere dei fini etici, la loro realizzazione e la loro posizione ne certifica l'affinità con gli scopi e le politiche dell'ente ospitante. Non si può parlare di ecologia se poi si realizzano opere che non possono essere riciclate, non si può sostenere di volere un mondo decolonizzato se l'opera viene finanziata da speculatori; non si può accettare di vedere alta tecnologia in cui si esprime fiducia nel futuro senza mettere in evidenza il prezzo che il pubblico paga in termini di connessione.