Il limite neo-pragmatico e la cultura del radicalismo ipermoderno
Da quasi trent’anni il pragmatismo ha condizionato con la sua stesura e il suo programma il corso dell’arte contemporanea in tutti i suoi sviluppi, dalla critica documentativa alla cura partecipata. In questo studio non si vuole sviluppare un’indagine inerente la pratica del contemporaneo, ma si vuole piuttosto sottolineare l’effetto determinato da questa modalità d’esperienza e il suo potenziale impatto sul radicalismo nel più ampio sistema culturale.
I centenari: formalismo, pragmatismo
Il problema di cui ci si interessa nello specifico non è l’effetto derivato dall’approccio attitudinale alle prassi e al radicalismo delle azioni artistiche, nel corrispettivo critico e curatoriale, ma l’analisi di quanto simili pratiche abbiano partecipato alla definizione di un contesto sempre più disancorato dall’esercizio di umanizzazione che era nei propositi dell’azione pragmatica (1). La persistenza di questo agire attraverso una modalità esperita e sincretica al sistema socio economico ricorda il perdurare dell’effetto scientista volutamente approntato dall’indagine storico critica del formalismo negli anni che precedevano e accompagnavano il cambio di secolo fra XIX e XX e che ha permeato il sistema generico dell’interpretazione e della modalità espositiva sino alla metà del secolo scorso (2). Il fatto che la modalità formalista rispondesse bene alle esigenze di una società che vedeva nella ricerca e nell’immaginazione un prodotto di scienza applicativa di cui poter trattare in termini adeguatamente razionali e funzionali, spiegava bene il suo essere connaturata all’idea di una modernità che da positivista si traslava in funzionalista attraverso i meccanismi socio economici. Il formalismo ha permeato tutta la logica interpretativa o ostativa nei confronti della rappresentazione artistica e della sua cura espositiva, almeno sino agli anni Cinquanta e con proiezioni sintagmatiche che si protraggono anche oltre gli anni postmoderni. Sebbene questo passaggio dalla aulicità dell’azione inventiva al ristabilizzarsi all’interno di un funzionalismo della pratica produttiva abbia attraversato fenomeni anche complessi, avanguardia, restaurazione, stasi formale esistenzialista e processualità del divenire, è proprio nel contesto della processualità che le istanze propositive di una logica derivata dal formalismo sono state ricondizionate nell’analisi e nella successiva pragmatica d’azione (3). Il ciclo della pragmatica artistica in fondo parte proprio dalla decomposizione del formalismo di Fiedler attraverso l’opera di Dewey fino a Wind e Kubler che provenivano proprio da quel percorso.
Parallelamente l’azione curatoriale nei decenni del XX secolo ha dovuto ripercorrere lunghi tratti di storia, momenti che coesistevano nel tragico segmento del secolo breve, prima di potersi adeguatamente proporre come antagonista della critica e non in forma esclusivamente testuale. Non può quindi stupire se l’azione curatoriale ha continuato il suo percorso formalista concentrandosi sui sistemi visivi determinati da ciò che possiamo considerare “stilema” almeno fino agli anni Sessanta, lì dove la critica d’arte, nel suo volgersi attraverso una storia consolidata da parecchi decenni, poteva occuparsi di documentare la realizzazione del presente.
Questo ciclo quasi secolare del formalismo già nel Secondo dopoguerra mostra la sua stanchezza attraverso una dialettica esistenzialista che avrebbe prodotto quella fase di dissenso dei primi anni Sessanta attraverso la circoscrizione analitica e l’oppositoria insofferenza interpretativa. Proprio qui le istanze della processualità emergono in modalità univoca in quella pratica ancora esistenzialista ma pragmatica. Solo in un secondo momento, potremmo dire dalla Documenta di Szeemann del ’72, l’emergenza della pragmatica curatoriale legata a pratiche radicali diventerà l’alter ego sincronico al tentativo, inizialmente trionfante, della critica postmoderna con i suoi teoremi di rinuncia alla sfera noumeno del sapere, la sua lateralità, la sua immanenza come psiche isolata dal contesto socio politico. Lì dove la pragmatica dell’attivismo degli anni Settanta toccava le soglie del più crudele masochismo, l’azione livellante del postmoderno ne calmierava le tensioni, rilucendo di fibrillazioni individuali. Ma gli anni del postmoderno, visti dall’angolazione dei cinquant’anni che li separano dal nostro presente, erano una contrapposizione restauratrice alle modalità che nel giro di meno di due decenni sarebbero ritornate dominanti. Sul finire degli anni ’90, infatti, queste modalità della pragmatica affinata alle pratiche radicali si è affermata nel più ampio contesto del contemporaneo e sebbene contrastata, ostacolata, fraintesa, è stata strumento rappresentativo dei successivi trent’anni che ci portano al nostro presente. Se consideriamo l’anno di origine di queste pratiche a partire da Dewey ci renderemo conto che anche nel caso del pragmatismo, adesso considerato come neo-pragmatismo, siamo alla definizione di un percorso secolare, forse meno esplicito di quanto non lo sia stato il formalismo, ma indubbiamente con un peso interpretativo e propositivo di pari tenore. I due domini fondamentali del sistema interpretativo, formalismo e pragmatismo, condividono fra l’altro anche alcune origini, individuabili nello specifico nell’opera di Ruskin, con un taglio empirico e di Fiedler, con l’aspetto esperienziale (4).
L’arte ideologica
La fine delle grandi ideologie esauritesi nel corso del XX secolo, scavate e depauperate dall'elusivo ordine costituitosi nella contrapposizione di blocchi politico sociali dominanti e in equilibrio apparentemente stabile, ha determinato l'oscuramento della dialettica sulle relazioni effettuali fra opera d'arte e suo contemporaneo ideologico. Assumendo l'ipotesi che ogni ideologia sia una sostanziale definizione logica di una prassi congetturale cui si attribuisce valore deterministico di ordine progettuale, l'opera d'arte del contemporaneo ne ha dedotto il principio basilare di equità qualitativa (5). Presupponendo che la stasi significativa delle ideologie sostanziate nella storia recente era un inevitabile sbocco d'un processo derivato dalla modernità il cui ciclo si palesava concluso nella postmodernità, l'arte ne ha ricalcato il concetto di equilibrio e di relatività nella coniugazione dei processi di decostruzione, simulazione e appropriazione. Nella fase che ha maggiormente interessato la liquefazione delle ideologie dominanti, questo dogmatismo basilare è stato vissuto attraverso la frammentazione e la relativa contrapposizione logica basata sul principio dell'equilibrio statico. Le opere postmoderne radicalizzano le ipotesi della fine della storia e lo fanno intervenendo in un apriori formale distaccato dal rapporto con la storia e valutandone il suo attraversamento dal momento che le istanze ideologiche cui erano sottoposte ne dimostravano l’inefficacia relativa, perduta nell'appiattimento del presente continuo. Tuttavia la paresi identificata nella fine delle ideologie, che comportava anche la loro caduta inerziale nel contesto di una storia risucchiata nell'orizzonte genetico di un eterno presente, ha successivamente motivato l'assunzione dell'opera d'arte come prodotto deterministico proprio di una parte di quella frammentazione delle ideologie dominanti. Si è trattato di un processo di relazione sincronico all'avvenuta digitalizzazione e diffusione delle reti di comunicazione. L'aver assunto in arte i residui di quella ideologia che appariva inscalfibile e immutabile mentre invece si dissolveva ha comportato per l'opera l'attribuzione anche inconsapevole di un compito di iniziale resistenza, storicizzabile nel corpus frammentato delle processualità attraverso le azioni di gruppo. Collective action in Russia e Colab negli Stati Uniti sono due esempi di come gli apparati del residuo ideologico attraversano gli anni del postmoderno in attesa di essere rivitalizzati dalla forma del radicalismo neo-pragmatico che inizia il suo ciclo dirompente già nei primi anni Novanta. Il crinale della rappresentazione fra arte ideologizzata e arte afferente ad un sistema sincronico e non conflittuale con l’apparato liberista del capitalismo speculativo può situarsi nell’enfasi dell’agire curatoriale, manageriale, e possiamo situarlo nell’evento espositivo di Post-human, (1992), ultimo confine di un postmoderno oramai in fase discendente. Gli effetti determinati dall’azione adesiva della pratica artistica ad un modulo ipermoderno di conflittualità col sistema turbo capitalista ha inizialmente portato alla luce alcune dinamiche visive, comportamentali e congetturali che manifestavano l’enfatizzazione di un singolo punto di vista. In questo procedere la linearità dell’azione artistica usava l’appropriazione di modelli comportamentali derivati dal passato e li coniugava con la ragione pragmatica dell’effetto conosciuto ed educativo. Tuttavia il significato della radicalità pragmatica ha comportato in parte anche una ricaduta secondaria, di carattere negativo.
L'arte è un exemplum
Sebbene spesso derisa o sprezzata per le sue onnivaghe conformazioni l’arte è stata e resta un exemplum, un elemento caratterizzante e indicativo del tempo in cui risiede (6). La sua forma può essere plurima e le sue identità variamente interpretabili, tuttavia risulta evidente la sua ineluttabile forza propulsiva del tempo in cui si origina. Questa forza è la caratteristica di ogni apparato d’arte quando funzioni attraverso la sua esplicabilità mondana. Il suo effetto può essere relativo o soffuso, ma la sua essenza consiste nel plasmare una condizione di “simpatia” con quanto la circonda, la sua empatia estetica. Per rendere concreta l’effusione della forma sulla percezione umana possiamo riportare la sua valutazione alle produzioni più accessibili, quelle della moda. La moda che vediamo per strada, ovvero ciò che si diffonde nell’agire comune e che determina il cambiamento di abiti e fogge non è un esclusivo elemento casuale ma è l’effetto più visibile di un’impronta univoca che a dirla con Kubler è la forma del tempo. Ma questa foggia del tempo che la moda veicola nel suo cambiare periodicamente è abitare il residuo documentale di una forma costruita in modalità esemplare, rappresentazione delle istanze identificative di una ideologia, ovvero di una modalità di lettura del mondo preordinata attraverso una pratica esperita. Il neo pragmatismo del contemporaneo, dal tramonto degli anni postmoderni, si è concentrato in ideologia, una forma incentrata su azioni, su concetti e metodi, forzatamente unidirezionali nell’identificare un’idea di verità (7). In questo senso l’opera è una forma di residuo ideologico perché decadute le grandi narrazioni, è stato attribuito proprio all’arte l’onere di rendere sacrale l’attitudine ideologica come succedeva alla sacralità divinatoria che è poi diventata sacralità laica della politica ed adesso sopravvive in parcellizzazione di pratiche che radicalizzano i propri contenuti in visione programmatica (8).
L'arte può essere propositiva o regressiva proprio perché è una forma di ideologia rastremata in un modello che ha nelle sue origini un metodo. Questo metodo è la definizione esplicita di un passato epistemologico, ovvero concentrazione di istanze che attraverso l’oggettualità di una sottrazione, dal suo inerte segno significato, si riconfigura come modello di un agire specifico, in versione esplicativa, veritiera. Sottrarre elementi di azioni, fatti, consuetudini, per riconfigurali in un contesto culturalmente elevato, attraverso l’hyperframe concettuale del suo essere evento significante, significa dare un senso e un peso specifico al soggetto-arte alienandolo dalla misura dettata dalla complessità dell’esercizio del mondo per riposizionarlo nello specifico del segno culturale, l’exemplum (9). Sebbene i suoi significati siano eticamente idonei a rappresentare un modello positivo, averne identificato la pratica in modalità ideologica pone però alcuni problemi. Il primo problema è che l'ideologia dell'arte impone un'etica radicale. Quest’etica radicale è una funzione socialmente positiva ma è allo stesso modo negativa nel momento in cui la costruzione logica del suo esercizio concorre alla definizione di un contesto contrapposto al generico campo della sua azione. Qui l'etica radicale nell'ideologia può essere un exemplum distruttivo per la cultura poiché nel suo distillare una molecola di concezioni ideologizzate ratifica la non appartenenza ad un contesto che le è estraneo. Per essere più espliciti possiamo dire che un pragmatismo radicale che prospetti la cancellazione di una cultura perché foriera di malversazioni può produrre da una parte l’adesione programmatica e dall’altra l’opposizione di pari forza radicale da parte di chi si senta deprivato di una conoscenza storica che ritiene gli appartenga. Purtroppo il radicalismo programmatico, ideologico, non è stato solamente un progetto di riequilibrio culturale, dalle pratiche femministe alle rivisitazioni culturali e decoloniali, ma è stato soprattutto un “modello” di opposizione assoluta al contesto della complessità epistemica ed è stato spesso interpretato esattamente per il senso di contrapposizione al sistema nella sua interezza socio politica piuttosto che non nel suo significato specifico. Tutto ciò è exemplum. L’exemplum non esaurisce il suo scopo nel dettaglio della sua operatività, in quanto forma, esperienza, vissuto, ma è colto nella sua identità più essenziale, ovvero pratica di una radicalità che non può considerare l’alterità poiché contrastante alla propria costituzione. Il neopragmatismo ha vinto, possiamo dire, osservando il territorio dell’arte contemporanea degli ultimi trent’anni, ma la sua è un’amara vittoria, simile a quella che nel ’68/69 faceva del Situazionismo il luogo originario della contestazione giovanile che però nel giro di pochi anni veniva annientata dal terrorismo.
Il motivo è che l’exemplum in quanto tale non è soltanto il suo significato finalizzato allo scopo ma è anche un modello metodologico, una prassi, quindi una tecnica che può duplicarsi. Il problema essenziale del neo-pragmatismo radicale non è tanto quello di veicolare contenuti non sempre condivisi quanto quello di rendere esemplare la tecnica attraverso cui questi contenuti vengono somministrati in forma ideologica, chiusa. L’exemplum costitutivo dell’arte viene percepito nella sua tecnica piuttosto che non nei suoi contenuti ed è per questo che nel territorio culturale le pratiche radicali sono diventate un modello poi capovolto in sistema di coercizione e falsificazione, di separazione e distinguo. Usando la tecnica dell’ideologia radicale come modello, elementi falsificati dalla storia, negazionismi, populismi, hanno duplicato il format ipermoderno dell’arte per autorappresentarsi ideologicamente un po’ come avviene per la moda di strada quando viene replicata e trasferita nell’alta moda, divenendo inaccessibile, elitaria. Duplicare una tecnica assunta come modello ideologico di svelamento può trasformarla in strumento falsificatorio o peggio assolutista (10).
La mediazione come prassi
Nelle pagine di La società dello spettacolo di Guy Debord il capitolo conclusivo è dedicato all’evoluzione del concetto di ideologia (11). Sebbene il risultato della riflessione di Debord sul termine sia esatto in relazione al suo tempo storico, questo modello di ideologia è però oramai superato. Dall’ideologia in forma di spettacolo che cementifica e uniforma il sistema sociale attraverso un’immagine contenuto, da cui è impossibile estranearsi, si è passati velocemente ad una forma di resistenza ideologica rastremata in oggetto nelle pratiche radicali frammentate e coagulate in micro organismi d’azione o comunicazione su cui l’ideologia oppositiva è organismo legislativo. Ma una pratica radicale è tale solo quando appartiene ad una minoranza, poiché se il radicalismo fosse della moltitudine la sua ideologia sarebbe quella del potere gestionale, politico, quindi alieno alla facoltà di potersi contraddire nel suo esercizio radicale. L’exemplum dell’arte, deturpato dal suo significato, è diventato suo magrado il modello reazionario a cui si orienta un’ideologia radicale che ha occupato la ragione d’essere del sistema politico, il cui principale scopo edipico è quello di annientare all’origine l’exemplum che ne ha determinato la logica per scatenare la degenerazione d’una società destrutturata e senza leggi.
Il determinismo della regola, assunto per l’adesione programmatica, quindi ideologica, definisce i contorni di una singola modalità attuativa e non può aprire i suoi limiti ad un’alterità che ne incrinerebbe il dogma. Il radicalismo è dogmatico per sua obbligata responsabilità in forma di regola, la cui essenza ipermoderna è nel dominio di una processualità derivata dalla ragione moderna enfatizzata nella sua identità specifica. In questo senso il termine ipermoderno corrisponde perfettamente al sistema delle pratiche radicali su tematiche univoche, parcellizzazioni infinitesimali nel sistema di rappresentazione e devolute in unicum esemplare (12). Nel nostro sistema contemporaneo questo modello ideologico oggettualizzato ha influenzato con la sua adesività frammentaria il contesto culturale. È stato infine clonato e riproposto sotto forma di micro ideologia partecipata dalla politica e dall’economia liberista che ha falsificato l’idea di progresso e di modernità. Queste idee così trasformate in pratiche radicali di reazione, costituiscono la base metodica di un pensiero costruito sulla falsariga dell’exemplum culturale contro cui, adesso, si scaglia la forza oblunga del potere politico ed economico (13). Già Mannheim, negli anni d’un modernismo in fase di decadenza, notava che l’ideologia rastremata in singoli strumenti significanti oltre a dar luogo all’utopia metafisica d’un individualismo sfrenato poteva anche collettivizzare le istanze più radicali racchiuse in formalismo (14).
Tutto ciò impone una riflessione sull’uso oppositivo delle pratiche radicali e della pragmatica esecutiva, ovvero riconoscere che offrire come exemplum un modello radicale che non si risolva attraverso la mediazione non può che rastremarsi in un modello di antagonismo globale. E che questo modello d’antagonismo globale può essere trasferito e usato per motivare il ripristino di interessi univoci e privati tali da riportare l’identità generica del sistema culturale, ovvero anche la diffusione più banalizzata, nelle lugubri e selvagge pratiche d’una istintualità animalesca priva di empatia umanizzata.
Aprile 2025
1) Ellen Dissanayake, Religione, rituale e artification, in L’infanzia dell’estetica, ed. it. Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 40-42.
2) Pierre Francastel, L’arte e la civiltà moderna, ed. it. Feltrinelli, Milano, 1959 (ed. or. Art et technique, Édition de minuit, Paris, 1956)) p. 323 – 327.
3) John Dewey, Logica, teoria dell'indagine, ed. it. Einaudi, Torino, 1973 (1949) (ed. or. Logic, the Theory of Inquiry, Henry Holt and CO. New York, 1938). p. 465-492. Nel capitolo Logica e scienza naturale: forma e materia, Dewey traccia un percorso significativo della materia in quanto logica usando come esemplari la forma giuridica e la forma estetica. La forma giuridica è una prassi empirica del pensiero, da cui il senso dalla cultura giuridica anglosassone, mentre la forma estetica è un metodo pragmatico d'esperienza. Quindi la materia dell'arte, la sua operazione di messa in parentesi, è una pratica esistenziale, lì dove altre pratiche logiche sono mediazioni continuative fra esistenza in vita e programma funzionale. Mancando una funzione specificamente logica l'estetica dell'arte è un modello d'esperienza che determina un comportamento simbolico.
4) Konrad Fiedler, Scritti sull’arte figurativa, ed. it. Aesthetica, Palermo, 2006, p.62-63.
5) Arthur Danto, La fine dell’arte, in La destituzione filosofica dell’arte, ed. it. Aeshetica, Palermo, 2008 (Columbia University Press, New York, 2006), p. 111-136.
6) Zygmunt Bauman, La sindrome potere/sapere, in La decadenza degli intellettuali, ed. it. Bollati Borignhieri, Torino, 1992 (ed. or. 1987), p. 51-64. Exemplum è derivato dall'autorità degli eruditi che spiegavano il mondo alle classi prive di cultura.
7) Dino Formaggio, Dialettica dell’oggettivazione, in L’arte come idea e come esperienza, Mondadori, Milano, 1981 (Isedi, 1973), p. 120 – 126.
8) Clifford Geertz, Ideologia come sistema culturale, in Interpretazione di culture, ed. it. Il Mulino, Bologna, 1998 (1988) (ed. or. Basic Book, New York, 1973), p.223-272. Le azioni simboliche diventano forme di ideologia, concetto derivato dall'oriente (p. 261), le strutture delle situazioni indicano una condizione di impegno ideologico p. 268-269.
9) Peter Bürger, Teoria dell’avanguardia, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1990, (ed. or. Frankfurt am Main, 1974), p. 19. Indagando l'identità ideologica dell'arte istituzionalizzata B. si chiede cosa nasconda questa ideologia, fra Lukacs che ne intende il rispecchiamento ideologico del socio-politico e Adorno che ne individua la funzione. La risposta è che l'arte in quanto ideologia nasconde in sé un metodo di questa, un metodo che trascende il suo significato poiché manifesta esso stesso in quanto ideolologia.
10) Paul K. Feyerabend, Contro il metodo, ed. it. Feltrinelli, 2003 (1979) (ed. or. Against Method, NBL, 1975), p. 148-177.
11) Guy Debord, L’ideologia materializzata, in La società dello spettacolo, ed. it. Baldini Castoldi, Milano, 2004 (ed. or. La société du spectacle, Buchet Chastel, Paris, 1967), cap IX, p. 179-183.
12) Lipovetsky, Les temps hypermodernes, Grasset et Fasquelle, Paris, 2004, p. 77. Ipermodernità è “maximisation des ses intéréts propres (...) mais aussi avec la destructuration des anciennes formes de régulations sociales des comportements”.
13) Max Horkheimer, Teoria Critica, ed. it. Einaudi, Torino, 1974, (ed. or. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1968), p. 131. Studiando il quadro del “totalitarismo empirico” - così come lo inquadra H. – si evidenzia la discrepanza fra l'analisi dei fatti e la realtà dell'essere secondo l'ideologia scientista che produce l'inessenziallità del metafisico - nel suo significato complesso - finendo con biasimare lo stesso pensiero.
14) Karl Mannheim, La mentalità utopica, in Ideologia e utopia, ed. it. Il Mulino, Bologna, 1957 (1999) (ed. or. 1953), p. 189-200.
L’utopia contrasta con la realtà, se ne allontana, come ordine. L’utopia è trascendenza dell’oggetto formale esplicativo e in quanto tale può trasformarsi in distopia.