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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Pasquale Polidori
 
«Im Sitzen gibt es kein Pathos.»
«Stando seduti si evita il pathos.»
(Bertolt Brecht, Trommeln in der Nacht/Tamburi nella notte, 1922)
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1. Il sistema operativo documenta fifteen
Il primo incontro con documenta fifteen avviene senza comprendere fino in fondo che siamo già dentro l’esposizione, e che quel che crediamo essere un ingresso particolarmente accogliente e frequentato, in realtà è il cuore della casa, o il suo soggiorno – essendo proprio questi i termini adoperati dal collettivo ruangrupa per spiegare che cosa è la ruruHaus: luogo in cui il collettivo ha stabilito la residenza fin dal suo arrivo a Kassel, per poi ambientarvi gran parte del lavoro curatoriale, durato più di tre anni e dedicato a generare un sistema di relazioni umane basato anche sull’ospitalità e sulla condivisione, da cui deriva la centralità della casa. RuruHaus infatti è il centro vitale di documenta fifteen, dove quotidianamente si intersecano i percorsi di attori, lavoratori e spettatori della complessa esperienza espositiva – l’edizione più affollata di contributi di tutta la storia di documenta, fra collettivi e individui provenienti in maggior parte da aree del pianeta finora escluse dai paradigmi politico-poetici della specifica tradizione di documenta. Tali soggetti a vario titolo sono stati coinvolti a Kassel e interagendo con una parte della società di Kassel, nella realizzazione di un modello economico e artistico basato sulla condivisione e l’equa distribuzione delle risorse – dove non si fa distinzione tra risorse monetarie e risorse estetico-culturali. Si è trattato di un percorso costitutivo durato circa tre anni e, nelle intenzioni dei curatori, destinato a proseguire oltre la durata della esposizione, continuando a dare i suoi frutti e radicandosi nel tessuto sociale e istituzionale, così come nella memoria dei partecipanti. Lungo un tale processo, l’esposizione documenta fifteen della durata di cento giorni – ossia la parte di documenta fifteen aperta ai visitatori – prima di tutto espone sé stessa come sistema e processo di confluenza, collocazione e dislocazione dell’operatività che l’ha generata. Esposizione della operatività, più che esposizione-opera, e certamente non esposizione delle opere. Occorre tenere presente questa precisazione tutt’altro che sofistica, dal momento che sulla dialettica (e relativa confusione delle aspettative) tra opera e operatività, e quindi tra cura delle opere e cura del processo operativo, si basano molti malintesi e giudizi negativi espressi dalla stampa su documenta fifteen.
La mostra di opere che a sua volta è un’opera, è quello che era documenta14, per esempio, in cui il teorema curatoriale disponeva le opere (disponeva delle opere) situandole nell’architettura di un discorso che non lasciava zone di fuga o di attesa della definizione, dal momento che la mostra-opera agiva in funzione di una costante definizione dell’oggetto-opera. documenta14 dava posto alle opere come si dà una ragione alle opere, interpretandole e comprendendole in una specifica teoria dell’arte come strumento di apprendimento e di critica democratica (Learning from Athens, il suo motto); e non per niente la sua drammatica era ispirata alla filosofia antica. Qui a documenta fifteen non è questione di opere, né di dare alle opere un senso. Le ragioni delle opere risiedono nei luoghi e nei contesti di produzione delle opere, che sono contesti economici, politici, estetici, esistenziali e linguistici lontani da Kassel. Quello che a Kassel arriva non sono le opere per sé, ma invece i sistemi operativi (è giusto l’involontario prestito dal lessico informatico) e i metodi di sussistenza tanto delle opere quanto di chi opera. Questo è il motivo per cui al collettivo ruangrupa si è rimproverato il mancato controllo sulle opere esposte, come se si trattasse di una incapacità a governare l’oggetto degli sforzi curatoriali (1). Ma la verità è che l’oggetto di tali sforzi è altrove: non l’opera, ma la costruzione e lo scambio dell’opera; non l’oggetto, ma le possibilità dell’oggetto e, soprattutto, la scambiabilità dell’oggetto in un campo costituito da una confluenza di forze, tra le quali anche l’arte. Il territorio delineato dal progetto documenta fifteen è un territorio innanzitutto economico; la sua filosofia delle opere risiede nel pensiero del valore delle opere; un valore evidentemente non solo monetario, ma che deve molto ai modelli di accumulo e distribuzione della ricchezza monetaria. Non per niente il principio di costituzione di documenta fifteen non è un tema (come in documenta13 quello delle posizioni dell’artista in rapporto al mondo) né un percorso di decostruzione filosofica (come in documenta14 la crisi greca assunta come specchio di altri conflitti) ma invece un modello cooperativistico di accumulo e distribuzione delle risorse, il lumbung, che proviene dalla tradizione agricola indonesiana e che funge da struttura generativa di tutta l’esperienza di documenta fifteen – un’esperienza che consiste nella messa in atto, a Kassel, di questo modello, l’ekosistem documenta fifteen, rispetto a cui la mostra rappresenta una finestra di relazione tra l’ekosistem e i visitatori.
Pertanto è sbagliato intendere la mostra documenta fifteen come una mostra di opere d’arte per le quali l’autorialità individuale è stata sostituita da un’autorialità confusamente collettiva (2). Le opere, quando ci sono, sono attribuite ad autori specifici e firmate con nome e cognome. Ma è che la mostra documenta fifteen subordina l’esposizione delle opere d’arte all’esposizione dei sistemi di produzione e attribuzione di senso alle opere d’arte, in particolare di quei sistemi che operano in situazioni di estreme difficoltà economiche e politiche, quando cioè la tenuta di strumenti e concetti estetici si misura al di fuori del patto di mutua definizione tra pratica artistica e sistema istituzionale dell’arte.
Everything is rooted in our perception of the world, as well as in how we imagine living together. It isn’t just about knowledge, but also how we act today, how we perceive art, power, and economics. Neither so-called institutional critique nor art in general is enough to comprehend all the complexity and change something. By just resisting the way things are and criticizing the art and education that come from the old values, we lose the strength and time for our own ways, our own experiments, and reflecting on how something new can emerge, how we can create better values. And that can’t be done without experimenting with economics as one of the foundations. Economics determine the basis of how we live with each other. You can’t change one without the other.(3)

2. Primo apparire delle sedie lungo il percorso di visita a documenta fifteen
RuruHaus è situata in uno dei palazzi che circondano la Friederichsplatz, un ex grande magazzino che risale agli anni della ricostruzione postbellica. Esternamente, la consueta nitidezza prospettica di una facciata modernista è in parte sottolineata e in parte negata dalla sovrapposizione decorativa di un contrasto di tinte piatte fondamentali – il viola, il giallo, l’arancio e il verde – attraverso cui avviene la traslazione dell’edificio secondo il suo aspetto. Dalla autoevidenza della forma funzionalista, dove i significati sono collocati al di là della geometria elementare che esprime solo sé stessa, al rivestimento pubblicitario che comunica in modo emblematico il succo del discorso che si intende diffondere, e cioè in questo caso una linea nera che dà vita a un fitto intreccio di mani in movimento, che vuol dire: incontro, saluto, scambio, solidarietà, gesto, azione, racconto, trascorrimento, fusione, confusione, collettività. Più o meno il senso della struttura di documenta fifteen.
RuruHaus è uno spazio a tre piani, che comprende la biglietteria, il caffè, le informazioni, la libreria, una sala relax, una zona espositiva, e una arena fatta di legno in cui si svolge un programma quotidiano di dibattiti, interviste, presentazioni e attività di vario genere concepite per introdurre i visitatori all’ekosistem in cui consiste documenta fifteen. Ekosistem è uno dei termini adoperati dal collettivo ruangrupa per spiegare la natura del loro progetto curatoriale, e sta ad indicare «la rete di strutture collaborative attraverso le quali avviene lo scambio e il collegamento tra conoscenza, risorse, idee e programmi» (4). Un Ekosistem può essere descritto come un progetto di natura artistica che assume le forme di un organismo piuttosto che quelle di un oggetto. Se l’oggetto (prodotto artistico finito e finalità di uno sforzo) si definisce in relazione a un soggetto (produttore artistico che ha sotto il proprio controllo l’oggetto finito come finalità del proprio lavoro), l’organismo si definisce in termini di processualità, di metodi produttivi e riproduttivi, di relazioni tra oggetti e soggetti inclusi nell’organismo (5).
L’ekosistem documenta fifteen è una «piattaforma interdisciplinare di arte contemporanea» (6) che ha il suo centro a Kassel, che coinvolge la città, i suoi spazi e i suoi abitanti, e che comprende 14 membri invitati da ruangrupa a tradurre le loro pratiche in forme espositive e dialoganti al di fuori del contesto originario di sviluppo. Questi membri sono organismi di varia natura – collettivi di artisti, istituzioni quali archivi o centri di formazione artistica, organizzazioni in cui si intrecciano obiettivi politici e pratiche estetiche – i quali a loro volta invitano altri collettivi o individui la cui presenza a Kassel è necessaria allo svolgimento delle attività del singolo organismo. documenta fifteen realizza l’incontro tra questi mondi nella e con la città di Kassel.
La prima porta di accesso all’ekosistem documenta fifteen è un glossario con cui familiarizzarsi, e che comprende termini scelti da diverse lingue, il cui significato è stato già plasmato dall’esperienza costitutiva di ruangrupa e che in molti casi sono metafore radicate in forme economiche di tradizione agricola. Lumbung, ossia la pratica cooperativistica di accumulo e condivisione delle risorse; Common Pot, cioè una specifica risorsa, di valore monetario o culturale, condivisa da un gruppo di artisti; Majelis, le assemblee dei collettivi e degli individui che partecipano alla realizzazione dell’ekosistem documenta fifteen; Harvest, ossia la documentazione del lavoro svolto e la sua trasmissione in forme poetiche, vale a dire linguisticamente studiate per rientrare in un medium artistico; Meydan, la piazza, luogo d’incontro dei comportamenti individuali e di gruppo, che qui prende forma in tre week-end di eventi pubblici che comprendono concerti, proiezioni, manifestazioni che possono essere bene interpretate come feste politiche o come sagre di paese.
Nel glossario troviamo assorbiti gli anni di formazione del collettivo, sulla base di interessi, pratiche, spazi e percorsi esistenziali comuni (fra cui la provenienza dalle accademie di belle arti); le strategie economiche e culturali di sopravvivenza, ponendosi il collettivo al di fuori del sistema di guadagni costituito da gallerie e musei; il bisogno di organizzarsi e ideare forme di sviluppo dei progetti artistici, spesso di natura didattica e sociale, che risentono sia degli effetti storici di lunga durata del post-colonialismo, e sia della necessità di far fronte al clima politico instaurato dal dispotismo di Suharto.
L’apprendimento di questo glossario avviene nella ruruHaus, guardandosi intorno, leggendo i diagrammi esposti sulle pareti, scorrendo gli opuscoli sugli espositori – i quali sono improntati all’estrema chiarezza verbale e iconica che contraddistingue i manuali di apprendimento delle lingue – o le pagine dello Handbook, quasi unico catalogo di documenta fifteen ed essenziale strumento di comprensione non tanto della visita all’esposizione, quanto del fatto che questa esposizione non è propriamente visitabile e non è propriamente un’esposizione. Nell’illustrare punto per punto il progetto curatoriale di ruangrupa, l’introduzione allo Handbook chiarisce che documenta fifteen è iniziata e si svolge a partire dall’incarico assunto da ruangrupa, cioè dal momento in cui l’ekosistem documenta fifteen ha preso a svilupparsi, includendo altri ekosistem da diverse parti del pianeta. Quello che un visitatore può fare è assistere agli effetti di questo lavoro, e cercare di comprenderne la portata reale, senza però averne fatto esperienza e senza poterne fare esperienza, se non nelle forme dell’ascolto, della visione, dell’immaginazione e dello studio. Se ammettiamo che l’ekosistem documenta fifteen è una realtà, allora dobbiamo ammettere che l’esperienza dello spettatore ha luogo in un punto di osservazione che si trova spinto ai bordi di quella realtà, e anche oltre. Uno dei pregi di documenta fifteen è che fa fuori la falsa retorica sulla partecipazione dello spettatore. Qui non si trovano tutte quelle installazioni video a cui lo spettatore è costretto a fare da interruttore, per esempio. E neanche statistiche a cui sottoporsi, o cartoline da spedire, o tessiture simboliche e infinite a cui partecipare. Qui nessuno ti chiede nulla del genere; nessuno ti illude che la tua partecipazione possa essere così assurdamente a buon mercato e priva di conseguenze reali. L’ekosistem ti accoglie con estrema attenzione e simpatia; l’amicizia è la prima regola; la seconda regola è l’agevolezza, nella quale rientra anche la leggibilità, ma solo come conquista progressiva dello sguardo; gli spazi sono ampi e attraversabili in tutti i sensi; puoi guardare le cose da lontano e da vicino, ci sono diversi vuoti; tutto è disponibile alla visione, all’ascolto e alla lettura; la quantità di informazioni può addirittura stordire. Arriverà il momento in cui capisci che sei tu l’oggetto della cura, e niente affatto le opere. Tu e la tua capacità di rimanere; pazientemente e con curiosità, rimanere soltanto un po’ più a lungo; senza reclamare le opere subito e a tutti i costi, con quella fretta di arrivare alle opere, sfilare le opere, e lo sguardo compulsivo che sfrutta le opere e le ha già intese prima di averle viste.
No, quello che qui davvero ti si chiede, è di metterti seduto e ascoltare il racconto di ciò che è avvenuto prima del tuo arrivo, oppure sta avvenendo, in un altrove che può pure coincidere con il posto in cui ti trovi seduto; come spettatore però, e non come attore.
Ecco allora che il primo vero contatto con documenta fifteen è la vista della piccola Welcome Arena che affianca la biglietteria, dove chi arriva è invitato a prendere posto e assistere a una introduzione alla visita, attraverso l’incontro con uno dei 1500 attori dell’ekosistem. Questo sipario, che quotidianamente si apre su documenta fifteen, non è subito compreso in tutto il suo valore di emblema e di metodo, sia del progetto e sia della visita. Sul momento sembra solo una buona idea per sentirsi accolti e comodamente istruiti sull’idea generale che muove questo universo; anche un atto di civiltà mai riscontrato in altre grandi mostre, dove tra la biglietteria e l’esposizione non c’è respiro, e le uniche parole introduttive sono stampate su un cartellone.
Ma poi, quando si entrerà nel vivo del percorso, fra le installazioni delle opere – ossia materiali che includono, senza soluzione di continuità, opere d’arte e documenti relativi al lavoro svolto, qui a Kassel e nei luoghi di origine, dai diversi collettivi – e il programma di incontri che si svolgono nelle differenti sedi espositive, allora si capisce che la Welcome Arena serviva a introdurre alla modalità dominante della visita: assistere allo svolgimento di un processo che non si comprenderà mai nella sua interezza, e quindi prepararsi a intercettare un frammento variabile di flusso discorsivo, fatto di cose e di linguaggi.
TCE Presumably the Western art or cultural world, which usually expects finished artworks, will have some difficulties with documenta’s processual lumbung practice.
RA We’ll see how much negative criticism there’ll be about how we handle documenta. For us, the relevant question is whether the seeds will sprout and whether what we plant will continue to grow. I think this documenta demands other forms of reception, reaction, and evaluation. (7)

3. Massiccia apparizione delle sedie a documenta fifteen
Qualunque sia la sede da cui ha inizio la visita a documenta fifteen – una delle tre o quattro sedi in cui si concentra un maggior numero di lavori – si resta inevitabilmente spiazzati dalla disposizione caotica delle cose. Il primo impatto è faticoso e frustrante, e riserva la sensazione di non capirci nulla. Questo iniziale disorientamento, tutto sommato tipico delle fiere e delle biennali, ha fine quando il nostro occhio si concentra su un elemento ricorrente e fondamentale: le sedie. Le sedie sono il vero perno attorno a cui ruotano le installazioni dei diversi lavori presenti, siano i contributi più complessi dei lumbung-members (i collettivi) o quelli maggiormente concentrati dei lumbung-artists (gli artisti). Sedie, seggiole, poltrone, divani, tappeti, cuscini, puf, cubi, gradinate, panche, materassi, stuoie, strutture ergonomiche; davvero non manca nessun tipo di seduta. Ed è difficile stabilire se prevalgono quelle realizzate per l’occasione oppure invece quelle riciclate. In entrambi i casi, la declinazione delle forme differenzia gli spazi senza bisogno dell’utilizzo di pareti divisorie, determinando la concentrazione degli ambienti, raccolti in nuclei espositivi distinti eppure in continuità l’uno con l’altro, all’interno di sale e magazzini anche straordinariamente voluminosi e dispersivi, come è il caso dell’edificio industriale Hübner, ex fabbrica di componenti per autobus e treni. E naturalmente una presenza così diffusa darà vita a una sottile punteggiatura di umori trasmessi dal vario carattere delle sedie, che parlino la lingua di un design originale e coerente a uno specifico allestimento, o che trasportino la memoria di luoghi estranei, come i consunti rivestimenti di vecchi divani di chissà quali salotti, le poltroncine di un ufficio smantellato, mobili presi e adoperati così come sono, tanto che l’apparire di certe sedie induce straniamento.
Ma occorre tenere presente che, per quanto evocativo, il messaggio oggettuale non prevale mai sulla funzione, se non in casi particolari e di esplicita intenzionalità. Qui, la presenza di una semplice sedia di formica o un tavolino a fagiolo, suppellettili avanzate alla ristrutturazione di un appartamento piccolo borghese del Millenovecentosessanta, non hanno il potere di attivare nessuna pensosa riflessione sui destini delle speranze moderniste. Poiché infatti il punto non è la provenienza della sedia, quanto il fatto che essa serve per non restare in piedi durante il lungo tempo di visione, ascolto, lettura, assimilazione di quel che dappertutto viene offerto. In generale, anche se non in tutti i casi, la capillare disposizione delle sedie in documenta fifteen equivale a una collocazione del visitatore nel ruolo di spettatore a cui è richiesta innanzi tutto la pazienza di rinunciare a quel che normalmente si intende per godimento dell’opera d’arte, in virtù di una osservazione lucida, analitica e dettagliata dei fenomeni reali. Ma quel che conta davvero – e che in ultimo giustifica documenta fifteen come mostra d’arte, e non come festival di modelli politici dell’essere comunità – è che una tale lucidità di sguardo è affidata all’operatività estetica, ossia rientra nell’orizzonte delle opere d’arte; dei motivi, dei modi, dei valori economici e delle relazioni che costituiscono il campo che chiamiamo ‘arte’. Questo campo non è fatto solo di oggetti finiti e consegnati al giudizio di gusto, ma anzi esso si estende fin dove dura la non finibilità di quel che giustifica la completezza dell’oggetto stesso. Il che, in altri termini e fuori dell’apparente gioco di parole, vuol dire riconoscere un sistema, e porsi la questione della esponibilità di questo sistema – cioè la possibilità che esso sia osservato, criticato, studiato.
Ci sono domande che riguardano in modo essenziale le opere d’arte, a cui però le opere d’arte non danno risposta, e occorre allargare un po’ l’inquadratura per poter conquistare un punto di vista più esplicativo. Queste domande risuonano nella nostra testa man mano che facciamo esperienza di documenta fifteen. Il più delle volte si tratta di interrogare l’economia dell’arte, e di rifiutarsi di credere che l’economia dell’arte sia priva di effetti sull’opera d’arte e sul capitale linguistico (o poetico) che le opere d’arte contribuiscono a formare; discorso di grande complessità, che si offre e si chiarisce in esempi di carattere pratico, da cui ci si potrà aspettare che sia svelata una verità sull’arte, se non proprio una verità dell’arte.
In che modo i bandi statali, diretti soprattutto a favorire la buona finalità sociale dell’opera d’arte, condizionano i temi, le forme, le ragioni dei progetti artistici? È possibile introdursi in un sistema di residenze e di selezioni, senza che la propria ricerca patisca una omologazione estetica? La povertà e la marginalità culturale, o la debolezza dei propri mezzi espressivi, impongono l’appartenenza a una comunità? Ci si libera da un condizionamento culturale imitando il modello di condizionamento, oppure sperimentando un modello diverso di produzione del senso? (8) La scelta di non partecipare a un sistema capitalistico di valorizzazione e vendita delle opere, è esattamente una scelta, oppure è un destino, ossia una direzione condizionata da più fattori che sfuggono al dominio del soggetto, individuale o collettivo, ‘artista’? Entro quali termini è auspicabile una istituzionalizzazione del lavoro artistico? Esiste un’arte non occidentale, o invece al di fuori dei parametri linguistici fissati dalla storia dell’arte occidentale vi è solo cultura e tradizione artigianale? (9) È sufficiente l’arte a garantire l’emancipazione linguistica dell’individuo? Si può, attraverso l’arte e un linguaggio ereditato dai colonizzatori (saper riconoscere i colonizzatori…), rendersi autonomi? Se facciamo una mostra con i soldi pubblici tedeschi, potendo così permetterci di escludere il giro delle gallerie e dei musei, ne parlerà la stampa? E verranno i critici influenti a visitarla? (10) Fino a che punto è possibile spingere i materiali della vita quotidiana nel suo svolgersi, dentro lo spazio poetico dell’opera, senza che questo avvenga all’insegna di una chiara autorialità e garantita da una galleria potente? [Che rapporto c’è, non solo concettualmente, tra il collettivo ruangrupa che apre a Kassel la ruruHaus – spazio di vita, lavoro e ospitalità per quanti sono coinvolti in documenta fifteen – e Theaster Gates che per documenta13 trasportò a Kassel, nella fatiscente Hugenottenhaus, materiali di un palazzo demolito di Chicago e un gruppo di musicisti, carpentieri e altre professionalità, chiamato ad abitare lo spazio e, possibilmente, restaurarlo?] Quanto costa una metafora? E quanto incide sul senso artistico della critica istituzionale, il fatto che essa si svolga in un contesto democratico di brillante tradizione istituzionale? L’estetizzazione dei temi politici nelle opere d’arte è un tipo di sfruttamento?
Che queste e molte altre questioni di sistema svolgano un peso nella generazione dell’opera d’arte, è indubbio. Bisogna anche vedere se tali questioni debbano o possano occupare uno spazio espositivo, in che modo ed entro quali termini organizzativi di una normale visita a Kassel. Potrebbe anche essere che l’ekosistem documenta fifteen, in quanto processo generativo di relazioni umane basate sul lavoro e sullo scambio di conoscenze e valori monetari e simbolici, non preveda una presenza spettatoriale, alla quale non viene affidato nessun compito nella gestione o meccanica dell’esperienza. Cosa ci sta a fare lo spettatore? In che modo la sua presenza può essere di aiuto alla generazione dell’ekosistem? Che tipo di partecipazione è riservata a chi paga il biglietto?
Aver sostituito la processualità alla finitezza oggettuale, nella materia espositiva e come principio generativo dell’esperienza della mostra, comporta un analogo dissolvimento dei limiti fisici della fruizione, e anche della coscienza del soggetto che si pone di fronte alla materia d’osservazione. Le sedie servono forse a questo: impedire che il soggetto caschi per terra, o evapori del tutto.
 
4. Il Minimalismo serve a star seduti mentre si cerca di capire il mondo
La coesione reciproca di soggetto e oggetto: ossessione del modernismo. L’opera d’arte che fa bene alla coscienza del soggetto, la nutre, la rassoda, la rende elastica. La coscienza del soggetto che interpreta l’opera d’arte, ne trae le conclusioni, la definisce, rifinisce, aprendola e chiudendola all’infinito; contemplazione e rispecchiamento, godimento nel sentirsi confermati dall’opera d’arte, a sua volta oggetto di conferma. Questo vecchio e idealistico patto estetico – che rischierebbe di non avere resti se non fosse per la noia – ci viene appena ricordato dall’elegante composizione di parallelepipedi color verde scuro, che assomiglia a un intervento di matrice minimalista condotto a funzionare da display porta-messaggi, sul cui bordo siamo seduti mentre assistiamo al racconto delle numerose e concettuali attività didattiche di Another Roadmap Africa Cluster. La sezione africana della rete internazionale di gruppi impegnati a sviluppare progetti museali e scolastici di sensibilizzazione al rapporto tra didattica artistica e tematiche sociali e politiche, qui a documenta fifteen ha trasportato una ricca quantità di materiali provenienti da un progetto denominato Schoolbook – e la cui summa si articola in tre pubblicazioni: Provocations, Exercise e Glossary – che attraverso pratiche collettive dà forma a una riflessione critica su lingua e autonomia espressiva, in relazione alla creatività artistica e ai modelli e contenuti estetici imposti dalla scolarizzazione di epoca coloniale. L’inchiesta linguistica e filosofica sul concetto di arte, qui coniuga strumenti in cui possiamo riconoscere le classiche modalità del Concettuale – i dizionari, le proposizioni filosofiche, il ragionamento analitico – e la poliforme espressività che è tipica del lavoro didattico. Gli elaborati sono vari – fra video, libri, sculture, cartelloni scritti a penna, verbali di lezioni e convegni, siti internet da consultare, fotografie – disposti intorno e al di sopra della netta volumetria di parallelepipedi, alcuni usati come tavoli e altri come sedute, su cui spiccano interrogativi: How do we protect our critical vocabularies? What do I make of the fact none of the words I use are mine? What is the difference between «cultural workers» and «artists»?

5. Sedie di Breuer & Breuer
Sul primo numero della rivista bauhaus (1926), a pagina 3 compare un trafiletto in forma di annuncio fotografico che pubblicizza un film immaginario fatto solo di sedie. Vi è l’immagine di una pellicola che comprende 6 fotogrammi, ciascuno accompagnato da una data, che ritraggono altrettante sedie progettate da Marcel Breuer in successione temporale – successione che indica quel progressivo alleggerimento della massa, riduzione della decorazione a struttura, e razionalizzazione della forma che è il funzionalismo. La prima scena del film si svolge nel 1921, ed è protagonista la Sedia Africana, di fattura artigianale e ispirazione popolare ungherese, in legno dipinto e rivestita dei tessuti progettati da Gunta Stölzl, ispirati a motivi africani. Sei mesi dopo, sempre in collaborazione con Stölzl, entra in scena una sedia di legno nella cui essenziale ortogonalità si manifesta la prima chiara influenza dei principi compositivi nonché dei colori di De Stijl. Un notevole salto narrativo ci trasporta nel 1924, quando due versioni della sedia a doghe modello Ti 1A, una con braccioli e una senza, in legno di rovere e tessuto, dimostrano che quello stile progettuale, divenuto ormai una filosofia di vita, non era affatto sinonimo di rigidità, ma anzi, proprio il denudamento strutturale dell’oggetto assicurava la via più breve verso l’applicazione di moderni principi ergonomici. La scena madre del film si svolge nel 1925: ora la celebre poltrona Wassily, evoluzione del modello Ti 1A, segna il significativo abbandono della dimensione artigianale in virtù della produzione industriale, con l’uso del tubo d’acciaio modellato nelle fabbriche Mannesmann. Il film termina con una inquadratura magistrale: una donna seduta sul vuoto, il suo corpo sospeso in aria. Niente più materia, la struttura è invisibile, l’oggetto è sparito del tutto, lasciando il posto alla sua pura funzionalità, che è un dato totalmente mentale. Il fotogramma riporta la data 19??
Il film è accompagnato dai titoli di testa e di coda, in caratteri minuscoli sans serif, che dicono:
ein bauhaus – film / Fünf jahre lang / autor: das leben, das seine rechte fordert / operateur: marcel breuer, der diese rechte anerkennt // es geht mit jahr besser und besser. / am ende sitzt man auf einer elastischen luftsäule
un film bauhaus / lungo cinque anni / autore: la vita, che esige i suoi diritti / operatore: marcel breuer, che riconosce tali diritti // migliora sempre di più ogni anno che passa. / finirà che ti siedi su una colonna d’aria elastica
A parte l’uso emblematico del font sans serif Azkidenz Grotesk per il logo di documenta1, nel 1955, che rappresenta una presa di posizione in favore della estetica funzionalista del bauhaus, sono molti i punti di contatto ideologici e storici tra la mostra ideata a Kassel da Arnold Bode e la scuola creata da Walter Gropius. Un confronto tra bauhaus e documenta, le due istituzioni artistiche tedesche internazionalmente più note e influenti, si trova in Philipp Oswalt, bauhaus/documenta: Orders of the present, Oncurating Issue 33 (11). Il confronto è svolto sull’analisi: (i) dei rispettivi contesti storici di origine (fine della I Guerra Mondiale e dell’Impero, nascita della Repubblica, da un lato; fine della II Guerra Mondiale, caduta del Nazismo, ricostruzione fisica, culturale e morale, dall’altro); (ii) di una comune missione educativa basata sulla fiducia accordata all’arte come via di riparazione dei danni della politica e della storia; (iii) dell’ambizione internazionale, sul piano culturale e delle relazioni umane, che si coniuga con il radicamento in piccole città, ossia Weimar, Dessau e Kassel; (iv) del ruolo svolto, in entrambi i casi, dalla esposizione e comunicazione dei rispettivi prodotti, che fin dal principio e per statuto sono intesi come un’esperienza politica non meno che artistica, in tal modo offrendo facilmente il fianco a ostilità di ogni tipo, dalle ansie riguardo alla “fine” dell’arte, nell’eccessiva subordinazione delle ragioni estetiche a quelle etiche, fino a critiche dirette ai contenuti politici per sé.
Questo sbilanciamento nei confronti delle ragioni esistenziali e politiche – che durante il Novecento si preciseranno come le ragioni del corpo, inteso come mediazione non solo fisica tra biopolitica e psicanalisi, tra individuo e società – per Marcel Breuer, come si è visto, è rappresentato dal dovere di progettare una sedia che raggiunga l’ideale della sua essenziale funzione: riconoscere alla vita i suoi diritti; il diritto di sedersi. Il corpo ha il diritto di sedersi. Marcel Breuer ha il dovere di consentire l’esercizio di tale diritto.
Di quale diritto si sta parlando? Riposarsi, senz’altro. Poi, stare a tavola e mangiare. Poi, studiare e lavorare al nutrimento intellettuale. Poi, accomodarsi con gli altri per una conversazione. Poi, stare di fronte allo schermo su cui si proietta un lungo filmato (attenzione: non le installazioni video della primitiva video art, concepite per essere attraversate in piedi, guardate in piedi, come fossero quadri o sculture) che è una fiction o un documentario. Poi, anche, stare seduti o stesi nell’ambulatorio di psicologia dove si curano i danni simbolici dei vecchi sistemi.
Questi diritti della vita, assicurati dalle sedie, accompagnano in modo più o meno scoperto tutto il destino di documenta, da un’edizione alla successiva. Ma è indubbio che, in questa storia, documenta fifteen rappresenta la radicalizzazione di quello che era il principio ispiratore della prima edizione di documenta – l’arte come cura delle ferite della storia politica, nonché strumento politico a sua volta – e che la disposizione spettatoriale dello stare seduti a documenta fifteen è come il palesarsi definitivo di un inconscio di tutte le documenta precedenti. Pratica comportamentale che corrisponde a una profonda revisione filosofica del rapporto tra l’oggetto e il soggetto dell’esperienza artistica, e che solleva questioni circa l’esponibilità dell’esperienza politico-poetica come oggetto della visita, e cioè, in ultimo, l’effettiva praticabilità di una mostra che, per essere una mostra, non può che credere all’evidenza e alla contenibilità di tale esperienza nei limiti fisici della visita.
Da questo punto di vista documenta fifteen rappresenta un esempio fondamentale e inaggirabile, destinato a rimanere a lungo al centro della riflessione sui motivi e le forme della cura dell’oggetto artistico. Sono molti gli sforzi di dare luogo a una soglia di ospitabilità dello spettatore all’interno della esposizione – in modo autentico, cioè senza ricorrere a facili seduzioni (decorativismo dell’esperienza politico-poetica, kitsch delle opere che sfruttano la spendibilità del contenuto politico) e soprattutto senza fare dello spettatore il suddito della sovranità artistica e curatoriale, la preda a cui si detta punto per punto l’agenda comportamentale. L’edificazione di questa soglia è impresa difficile, che si affida anche a un programma di azioni destinate a creare comunità, come il mangiare o il ballare, andare a un concerto o passare del tempo in una sauna; i tre weekend denominati Meydan, densi di iniziative pubbliche, servono a questo. E allo stesso scopo risponde il costante ricorso, effettivo e metaforico all’interno degli spazi espositivi, a pratiche quotidiane essenziali e primitive quali cucinare e mangiare insieme.
Mangiare, riposarsi, studiare, parlare di quello che si sta facendo, ascoltare il racconto di quel che fanno gli altri, guardare lunghi documentari, seguire analisi e ragionamenti. Sono queste le attività principali che il visitatore è invitato a svolgere nelle numerose sedi espositive, come destinatario dell’esposizione e testimone dei contenuti.  Si tratta, nella quasi totalità, di azioni che si fanno stando seduti. Per questo il paesaggio espositivo è affollato di sedie che servono a quelle attività. E in questo paesaggio, pochissimo posto vi ha la sedia finalizzata alla contemplazione – la sedia della religione oggettualista, diciamo così. Al contrario, oltre alle sedie da studio, numerosi erano i materassini e i lettini che facevano scivolare il corpo in posizione curativa, e quindi chiamando in causa l’altro Breuer, Josef, a cui dobbiamo i primi esperimenti in psichiatria del “metodo catartico”, della cura narrativa e verbale.

6. Breve storia delle sedie
La storia di documenta può essere ripercorsa seguendo il filo del comparire delle sedie; dentro le opere e al di fuori delle opere; in funzione contemplativa e in funzione attiva; come oggetto compreso nella sfera simbolica, o come oggetto destinato alla critica della sfera simbolica; dentro lo spazio dell’esposizione, oppure ai limiti esterni di tale spazio. La sedia sarà il mobile che misura lo stato della crisi della esponibilità delle opere politico-poetiche; forse il sintomo di un dramma che cerca una soluzione, senza per questo mai potere o volere finire.
Si può senz’altro partire da documenta5, quando Josef Beuys apre il suo ufficio per la «Organisation für direkte Demokratie durch Volksabstimmung», che forse nella storia di documenta rappresenta il primo emergere della vita politica attiva, processuale e non-oggettuale, come rimosso delle opere politico-poetiche. Dirk Schwarze (12), che ha seguito da vicino Beuys durante il lavoro quotidiano di dialogo con i visitatori, scrive così:
Nel museo Fridericianum, Joseph Beuys ha allestito un ufficio per la sua Organizzazione per la Democrazia Diretta attraverso Referendum fondata nel 1971. Qui si siede per 100 giorni durante documenta5 per discutere con i visitatori. Non c’è giorno in cui Beuys non sia lì. Lo abbiamo osservato nel suo ufficio per un giorno, dalle 10:00 alle 20:00. (13)
Durante documenta6 – la prima edizione che includeva una sezione dedicata alla performance e un programma di opere cinematografiche – il curatore Manfred Schneckenburger ritenne necessario incontrare il pubblico per spiegare il senso delle sue scelte e il modo come si dovevano leggere le opere in mostra, ora che non si trattava più solamente di incontrare dipinti e sculture. La discussione pubblica si svolse nella Lutherkirche, e vi partecipò Josef Beuys (14).
Discussioni, lezioni, conferenze, incontri con gli artisti e con intellettuali in grado di favorire l’interpretazione delle opere esposte, diventano consuetudine a documenta. La manifestazione, meditata e organizzata nel corso di cinque anni, non solo si afferma come appuntamento imperdibile per misurare gli orizzonti delle espressioni artistiche, ma contribuisce in modo decisivo all’affermarsi dell’idea del curatore come creatore di discorsi, costruttore di senso. Il curatore va ascoltato e compreso; la sua visione va studiata; nelle sue mani è la chiave di lettura dello spazio; per il curatore, teoria e pratica sono la stessa cosa, e visitare la sua mostra significa fare un’esperienza teorica.
Un significativo salto di qualità si avrà nel 1997, quando Catherine David concepisce un’iniziativa senza precedenti: per tutta la durata della manifestazione, ogni giorno la Documenta Halle ospiterà un incontro pubblico con artisti e intellettuali, i quali porteranno il loro contributo sui temi sollevati da documenta10, che in generale riguardano il destino degli ideali modernisti alla luce del quadro politico e storico della fine del secolo. «100 days, 100 guests» (15) vede la partecipazione di studiosi da tutto il mondo, fra i quali non pochi provengono da paesi non occidentali, come Edward Said, Okwui Enwezor, Geeta Kapur, per esempio. Tuttavia in mostra vi sono quasi esclusivamente artisti europei e nord-americani, ed è evidente che l’arte non occidentale è chiamata ad occupare uno spazio discorsivo verbale, e non discorsivo oggettuale. Un’eccezione è rappresentata da Matthew Ngui (Singapore), il cui lavoro guarda caso consiste nella parziale illusione ottica di una sedia, metà reale e metà proiettata. Le sedie per la platea di «100 days, 100 guests» furono realizzate da Franz West, in ferro rivestite di tessuti africani. Queste sedie oggi sono molto valutate sul mercato dell’arte.
Nel 2002 Okwui Enwezor a sua volta dà inizio a una nuova tradizione: dislocare documenta11 in città diverse oltre a Kassel dando luogo a un percorso di discussioni e relazioni indirizzato a costituire lo spazio critico entro cui le opere in mostra dovranno situarsi. Ora le sedie sono sparse tra le 4 Platforms di workshop e convegni che si svolgono a Berlino e Vienna, a New Delhi, a Saint Lucia (Caribbean), a Lagos. La quinta Platform è la mostra di Kassel. Qui è interessante fare una divisione tra le sedie che sono usate all’interno delle opere come oggetto simbolico – Doris Salcedo per esempio presenta delle sedie manipolate e rivestite di piombo, che ci parlano di tortura; altre sedie sono quelle incluse nelle opere di On Kawara e di Mona Hatoum – e le sedie che svolgono una funzione di supporto alla fruizione delle opere – interessante che questa tipologia di sedia individui un gruppo di partecipanti provenienti dall’Africa e dall’India, ovvero le complesse installazioni di testi, immagini e video a opera di Meschac Gaba (Museum of Contemporary African Art: Library, 2000), il collettivo Huit Facettes (Documentation of the workshops in Hamdallaye, Senegal, since 1999), Raqs Media Collective (An Installation on the Coordinates of Everyday Life in Delhi, 2002) e Le Groupe Amos (Education for life campaign: When African women talk about sexuality, 2002). In questo gruppo di installazioni che presentano pratiche artistiche basate su archivi e musei come medium, troviamo finalmente una vera anticipazione di quello che sarà documenta fifteen.
documenta12 sarà anche ricordata per le mille e una sedie di legno della dinastia Qing che Ai Weiwei dislocherà in tutti gli spazi espositivi, lasciando che i visitatori le adoperino per riposarsi.
Non sono molte le sedie di documenta13 in mostra, e sono quelle necessarie alla visione delle rare proiezioni particolarmente lunghe, come è il caso della installazione di William Kentridge o del film di Clemens von Wedemeyer negli spazi ampi della Hauptbahnhof trasformati in particolari sale di proiezione. Poi vi sono sedie di natura simbolica, come la sedia di Füsun Onor – Untitled (1993) una poltroncina da conferenze incatenata con un lucchetto che su un cartoncino riporta il nome dell’artista – o la sedia su cui si alternano i traduttori che in simultanea traducono gli atti del Processo del 7 Aprile nell’opera di Rossella Biscotti (Il processo, 2010-2012). Ma le sedie più rappresentative di documenta13 sono quelle che circondano la mostra a una distanza variabile di spazio e di tempo: le sedie del programma di incontri pubblici – quali per esempio i workshop che coinvolgono le accademie d’arte europee, o il congresso The Artists’ Congresses: A Congress dedicato a esplorare « the radical transformation of the role of the artist in the public sphere, the artist’s voice, and the way in which artists have historically developed a connection between practice, modes of discourse, and social and political forms of life» (16) – e le sedie che servirono alla scrittura dei testi che costituiscono i 100 Notes – 100 Thoughts, ossia la serie di cento opuscoli che formeranno il catalogo più corposo di documenta13, The book of the books, in cui sono raccolti contributi di arte, letteratura, scienza, filosofia, eco-femminismo, attivismo e politica.
A conclusione di questa veloce carrellata dedicata alla presenza delle sedie nella storia di documenta, giunge documenta14, al cui centro vi è un vero e proprio parlamento, The Parliament of Bodies, diviso tra Atene e Kassel. « Inspired by micropolitical self-organization, collaborative practices, radical pedagogy, and artistic experiments, the Parliament of Bodies is a critical device to queer both the ruins of democratic intuitions as well as the traditional formats of the exhibition and public programs. It brings together artists, activists, theorists, performers, workers, migrants, et cetera to experiment collectively on a radical transformation of the public sphere and the proliferation of new forms of subjectivity» (17). Le sedie di questo doppio parlamento sono state disegnate da Andreas Angelidakis. Si tratta di un numero di blocchi di spugna rivestiti di tessuto mimetico, i quali derivano dalla scomposizione di un super-oggetto, che nel caso di Atene è una architettura di false rovine (Demos) e nel caso di Kassel è un carro armato (Polemos) (18).

7. Il sabotaggio del pathos: cosa vuol dire per Bertold Brecht mettersi a sedere
[Primo passo: il personaggio patetico] Devo a Frank Hornung il pensiero di Bertolt Brecht, in relazione a documenta fifteen. Quando gli dissi che stavo fotografando tutte le sedie di documenta fifteen, e che secondo me la sedia era il fatto da interrogare e da cui trarre una lezione, lui mi rispose con una battuta di Trommeln in der Nacht: «Im Sitzen gibt es kein Pathos.», ovvero: «Non c’è pathos quando si sta seduti» o «Stando seduti si evita il pathos» (traduzione di chi scrive).
Tamburi nella notte (1922) racconta la storia del proletario Andreas Kragler il quale, dato per morto in guerra, torna inaspettatamente dall’Africa per scoprire che la sua fidanzata Anna Balicke è incinta e sta per sposarsi con Friedrich Murk, un borghese che lei non ama e da cui non è amata, ma che è in grado di garantirle una vita agiata. Kragler, mezzo fantasma e mezzo malridotto, che la guerra ha privato del diritto alla logica e del diritto a esistere, è tentato di finirla con le illusioni romantiche (la luna, il letto) e dedicarsi alla causa della rivoluzione (il tamburo), i cui disordini si odono fuori dalla scena. Ma alla fine, dopo una serie di mosse sgangherate da parte di tutti i personaggi, fra chi difende le ragioni dell’amore, chi invece quelle del benessere materiale, e chi reclama i diritti della rivoluzione, Kragler decide di abbandonare i compagni rivoluzionari e lottare per la felicità amorosa, sposando Anna.
In questa seconda opera di Brecht – che è la prima in cui agisce il meccanismo dello straniamento, attraverso la presenza di cartelli in platea, la qualità artificiosa delle scene (una luna di carta), l’incongruenza tra la drammaticità dei fatti storici e la veste comica in cui essi si ribaltano nelle esistenze individuali – lo spettatore è già messo nelle condizioni di non poter simpatizzare con nessuno dei personaggi sulla scena, ma di dover piuttosto rassegnarsi a una più fredda valutazione della morale narrata. L’insofferenza brechtiana verso quel che determina la partecipazione emotiva dello spettatore (il climax) si manifesta nell’apparente assurdità di certi inserti narrativi – due comparse attraversano la scena, si fermano a orinare mentre parlano dell’arrivo dei bolscevichi – e anche nello scherno di cui è fatto oggetto il romanzo come genere narrativo – «Che notte da romanzo! Le urla nel quartiere dei giornali, e la carrozza che passa coi due fidanzati!», «Resta qui, lettore di romanzi!», «In fondo non è che un tipo da romanzo» (19).
Il pathos è quel che occorre moderare, sia per non cadere nel ridicolo – il patetico credere che la verità sia nella morale della favola – e sia per dare al pubblico la possibilità di osservare gli eventi senza esserne sopraffatto. Moderare il patetismo e il lirismo, oppure oggettivarli nello straniamento, è una garanzia di rispetto per la libertà e l’intelletto dello spettatore.
Nel secondo atto, quando Kragler compare a reclamare la sua fidanzata, sembrano tutti impazziti. Accecato dalla delusione d’amore, Kragler fa spavento, e gli altri vanno in fibrillazione nel tentativo di farlo ragionare e convincerlo ad accettare le cose come stanno. È in questa parte della commedia che la sedia e il mettersi a sedere diventano cruciali, assumendo il peso simbolico della ragionevolezza e dell’abbandono del pathos.
Balicke: «(Sottovoce) Portalo qui a sedere! Quand’è seduto, è già mezzo impegolato. Impossibile essere patetici da seduti. (Forte) Sedetevi tutti! Silenzio! Controllati, Amalia! (A Kragler) Si sieda anche lei, in nome di Dio!»
(…)
Si sono seduti anche Balicke e Anna. Babusch si è dato da fare finché è riuscito a farla sedere. Ora costringe anche Kragler, che era rimasto in piedi smarrito, a prendere posto.
Babusch: «Si sieda, non è molto saldo sulle gambe. Vuole del Kirsch? Perché ha quel risolino sulle labbra?»
Kragler si rialza. Babusch lo risospinge giù ed egli rimane seduto.
Secondo Markus Hengelhaupt, in Tamburi nella notte l’atto del sedersi “è usato come metafora gestuale della rivoluzione fallita” (20). Più in generale possiamo affermare che questo atto rappresenta la rinuncia a uno slancio utopistico, che per Kragler è tanto la passione amorosa quanto quella rivoluzionaria. Mettersi a sedere significa essere ricondotti a ragione, spegnere i bollori, raffreddare i pensieri. Vuol dire anche cercare di comprendere, sia che la comprensione equivalga a una negativa rinuncia all’ideale, e sia che la comprensione significhi il reale possesso dell’oggetto compreso – in tedesco ‘sitz’ e  ‘besitz’, ossia ‘prendere posto’ e ‘prendere possesso’.
Più avanti, sempre nel secondo atto, troviamo:
Babusch: «Ma stia a sedere, Murk! Anche se sta seduto è un lavoratore! Kragler, come sarebbe diversa la storia universale, se la gente se ne stesse di più seduta sulle sue chiappe!»
Come sarebbe diversa la storia dell’arte, se il visitatore della grande biennale la smettesse di trafficare avanti e indietro da un muro all’altro – come un casanova eccitato dallo sguardo semio-scopico che non si dà pace nel desiderio di esaurire la sua carica – e se ne stesse di più seduto sulle sue chiappe!
[Secondo passo: la nuova opera] Nel 1931 Brecht scrive le Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny (21). L’opera è la seconda collaborazione con Kurt Weill e le Note mettono in chiaro come Brecht si sia avvicinato all’opera lirica con l’intento di sfruttarne il doppio capitale rappresentato, da un lato, dalle caratteristiche del genere operistico – l’assurdità di cantare mentre si muore, e quindi l’intrinseco potenziale di straniamento che tanto interessa Brecht – e dall’altro lato, dal sistema di produzione dei teatri musicali, che era una macchina collaudata al servizio del divertimento popolare – che Brecht chiama “carattere culinario”, e cioè il dover assicurare un godimento attraverso la messinscena. In altri termini, e per dirla con Rosalind Krauss, Brecht usa l’opera come un medium da reinventare e da cui trarre le risorse per reinventare il teatro in generale e la letteratura.
Importantissimi sono gli schemi in cui Brecht mette a confronto le due forme di teatro basate su un diverso rapporto tra lo spettatore e gli avvenimenti che si svolgono sulla scena: il teatro drammatico, volto al pathos, al climax e al coinvolgimento emotivo dello spettatore, e il teatro epico, che invece si pone come obiettivo la presa di consapevolezza delle sensazioni da parte dello spettatore e lo studio della materia narrativa. In più di un punto, il discorso calza a pennello se riferito alla dialettica tra mostra d’arte come godimento dell’oggetto-opera e mostra d’arte come esperienza del processo-opera: «(il teatro drammatico che) involge lo spettatore in un’azione scenica (ma) ne esaurisce l’attività» contro «(il teatro epico che) fa dello spettatore un osservatore però ne stimola l’attività»; «(il teatro drammatico che) consente allo spettatore dei sentimenti» contro «(il teatro epico che) costringe lo spettatore a delle decisioni»; «(nel teatro drammatico) lo spettatore sta nel bel mezzo, partecipa» contro «(nel teatro epico) lo spettatore sta di fronte, studia»; «l’uomo come dato fisso» contro «l’uomo come processo»; «il pensiero determina l’esistenza» contro «l’esistenza sociale determina il pensiero»; «sentimento» contro «ratio».
È davvero rivelatrice la lettura di questo testo brechtiano quando a quel che Brecht indica come opera musicale, si sostituisce l’opera d’arte visiva, e a quel che Brecht indica come apparato teatrale e lavoratori intellettuali, si sostituisce l’apparato espositivo delle grandi mostre e i curatori e gli artisti. Trascrivo la conclusione, raccomandando però una lettura completa:
La vecchia opera non continua a esistere soltanto perché è vecchia, ma soprattutto perché le condizioni alle quali essa si addice sono ancora quelle vecchie. Non lo sono più completamente. Qui stanno le possibilità per la nuova opera. Oggi ci si può già chiedere se l’opera non si trovi ormai in condizioni tali che ogni ulteriore novità porti non più al rinnovamento di questo genere, ma addirittura alla sua distruzione.
L’opera Mahagonny, per quanto culinaria sia – tanto culinaria quanto a un’opera si conviene – comporta già una funzione di modificazione della società, appunto perché mette in questione il culinarismo, perché attacca la società che ha bisogno di simili opere; (..)
L’opera Mahagonny fu scritta due anni orsono, nel 1928-29. Nei lavori seguenti ci dedicammo a tentativi intesi ad accentuare sempre più il carattere d’insegnamento a spese di quello culinario. A sviluppare cioè dal mezzo di godimento un oggetto d’istruzione e a trasformare certe istituzioni da luoghi di divertimento in organi di pubblicazione.
 
Ottobre 2022
1) L’accusa di incompetenza rivolta a ruangrupa è risuonata su diversi articoli di quotidiani, e meriterebbe di essere approfondita in riflessioni capaci di andare al di là dell’opinione giornalistica. Si tratta di un giudizio principalmente scaturito dal presunto antisemitismo che si troverebbe espresso nell’opera esposta dal collettivo Taring Padi, e che ha portato alle dimissioni di Sabine Schormann, direttrice generale di documenta. È a questo proposito che Francesco Bonami, su Il Foglio del 22 luglio 2022, scrive: «Così come i curatori non possono improvvisarsi capi di un’organizzazione umanitaria o esperti di politica internazionale, allo stesso modo gli artisti non possono, anche con tutta la buona volontà, improvvisarsi curatori e tantomeno curatori incaricati di gestire un enorme budget e temi politici, sociali e culturali estremamente complessi e delicati. L’avere affidato Documenta al collettivo indonesiano rivela, anche e purtroppo, la sempre più radicale e irresponsabile ideologia di molti miei colleghi che non ritengono più necessario rispettare la curiosità e l’interesse di un pubblico, sorprendentemente sempre più numeroso ed eterogeneo, alla ricerca di arte, quale che essa sia, e non di teorie pseudo intellettuali, pseudo politiche e pseudo sociali. Se voglio giocare a bocce vado al circolo dietro casa, non prendo l’aereo per andare a Kassel.» Dunque l’accusa è di essere pseudo-curatori.
Jörg Häntzschel e Catrin Lorch, su Süddeutsche Zeitung del 21 giugno 2022: «Il collettivo Ruangrupa, di cui nessuno è responsabile in prima persona, ha delegato la supervisione a singoli team di artisti. Se si chiede chi ha esaminato le migliaia di opere di 1700 artisti, chi ne è responsabile, la domanda muore da qualche parte a Kassel. Una mostra può avere successo solo se le singole opere sono note a un curatore che le pone in un rapporto significativo e funzionante l’una con l’altra. Un vero dialogo può avere successo solo se c’è uno scambio, non se si lasciano scontrarsi diverse visioni del mondo senza considerazione.» [Traduzione di chi scrive]
Un’utile riflessione sull’ambigua questione della forza dei progetti curatoriali si trova espressa da Daniel Völzke in Monopol del 29 giugno 2022. Nell’articolo il cui titolo è «Die neue Sehnsucht nach dem starken Kurator» [Il nuovo desiderio di un curatore forte], Völzke mette in guardia dall’adottare punti di vista troppo sbrigativi nel giudicare erronee e arbitrarie le scelte curatoriali di ruangrupa. Völzke fa notare come attualmente l’opinione generale riguardo a documenta è vittima di una contraddizione: da un lato si lamenta l’assenza di un progetto curatoriale forte, che escluda le opere che non riconosce come proprie e che non trovano legittimazione nella mostra stessa; dall’altro si guarda con insofferenza alla figura del curatore come agente al servizio degli interessi della globalizzazione culturale, che fa sì che le opere e gli artisti perdano ogni autonomia. E la conclusione: «Gli approcci curatoriali di Adam Szymczyk e Ruangrupa rappresentano due poli della produzione espositiva distanti tra loro. È giusto nominare le responsabilità ora. Ma una grande mostra come Documenta non è una macchina che torna a funzionare dopo aver stretto le viti giuste. La curatela è una pratica mutevole che affronta circostanze mutevoli.» [Traduzione di chi scrive]
2) Come fa Tiziano Scarpa nel reportage pubblicato in Finestre sull’Arte, il 30 agosto 2022 dal titolo: Alla Documenta di Kassel va in scena la rivincita del “noi” contro l’ “io”.
3) The Collective Eye in conversation with ruangrupa, p. 24, 2022 DISTANZ Verlag
4) documenta fifteen handbook, 2022 Hantje Cantz Verlag Berlino, risvolti di copertina. Vedi anche: https://documenta-fifteen.de/en/glossary/?entry=ekosistem visitato il 27 settembre 2022.
5) «Since 2013, we – ruangrupa with other Jakarta-based collectives – have tried to build ekosistems based on an understanding that even a group of people, a collective, cannot stand alone, but must purposefully play a part in their larger context – just as in nature, where different species have their specific functions and roles to keep an ecosystem in balance.
The first of these ekosistems was dubbed the Gundang Sarinah Ekosistem, taking the name of the former-warehouse complex we occupied together in Jakarta and turned into the center of many of our activities. This way-too-large experiment gave way to Gudskul Ekosistem, an informal educational platform ruangrupa established with two other collectives, Serrum and Grafis Huru Hara, in 2018. »
Ibidem, p. 12, About the Lumbung processes and how the guest becomes the host.
6) Ibidem, risvolti di copertina. Vedi anche: https://documenta-fifteen.de/en/glossary/
7) The Collective Eye in conversation with ruangrupa, p. 112, 2022 DISTANZ Verlag
8) «The recurring question of why collectivism and a sense of community is so pronounced in Indonesia could possibly be answered by looking back at this history. Talk of being united to free oneself from colonial powers has become national propaganda by now; at the time, it worked. You can argue about it, of course, but there were a lot of people from the nationalist movement of the time for whom independence from the colonizers meant being educated, Western, and modern. You know, when you’re on the same level as the colonial masters, that’s when you’re fighting, and that’s exactly what happened back then. Though the question is whether that approach is still relevant, since that kind of model produces a lot of exploitation and suffering. lumbung is nothing new. It’s more like returning to the past than finding something new. The practice is even pre-modern, and that’s interesting. » Ibid, pp. 26-27.
9) Di cruciale importanza, la questione è stata sollevata da Bazon Brock, il quale sul concetto di culturalismo ha basato la sua critica aspra a documenta fifteen. Negando alle culture non occidentali il possesso di una nozione di artista come individuo, così come si è venuta a definire nei secoli in Europa e nelle tradizioni culturali di derivazione europea, il culturalismo è la tendenza a ridurre l’arte a fenomeno culturale di gruppo, che non riconosce autonomia all’individuo nel coltivare un proprio rapporto con il linguaggio e con la storia dell’arte. In una intervista al canale radio Deutschlandfunk, del 21 giugno 2022, l’autorevole storico dell’arte, con radici nel movimento Fluxus e che parla di sé come artista-senza-opera, si è espresso in termini molto duri, parlando di una generale tendenza verso «der Re-Faschistisierung, der Re-Totalisierung und Re-Fundamentalisierung aller Kulturkollektive».
[vedi: https://bazonbrock.de/werke/detail/?id=3996 consultato il 25 settembre 2022  e
Ma aggiungiamo che la questione del rapporto tra arte (l’arte così come modernamente si è sviluppata in Occidente) e paesi non occidentali era già emersa ai tempi di documenta10, allorquando la curatrice Catherine David aveva aperto le porte della discussione politica & poetica – era quello il motto di documenta10 – agli intellettuali extra-occidentali, chiudendo però le porte dell’esposizione agli artisti extra-occidentali. Questa inclusione-esclusione significava riservare alle culture extra-occidentali un posto esclusivamente dialogico verbale.
10) La stampa si è concentrata quasi esclusivamente sulla notizia “antisemitismo a documenta fifteen”, al punto da sollevare dubbi di strumentalizzazione. Il ritiro da parte di Hito Steyerl aveva il sapore di un voltafaccia, dettato forse dall’opportunità di allinearsi alla generale indifferenza al progetto ruangrupa, mostrata dal sistema dell’arte. Alla fine, in documenta fifteen sono pochissimi gli artisti rimasti internazionalmente noti e operanti in ambito occidentale, fra cui Tania Brugeura, partecipante con il gruppo INSTAR (Instituto de Artivismo Hannah Arendt), da lei fondato a Cuba nel 2015. A lei è dedicato uno dei due post Instagram che Hans Ulrich Obrist e Klaus Biesenbach di concerto hanno voluto dedicare a documenta fifteen, il 27 agosto, dopo che era circolata voce di un loro illustre boicottaggio.
Vedi: https://www.instagram.com/p/Chzw9i6DvJU/ visitato il 26 settembre 2022.
Vedi anche, a proposito del rapporto tra potere istituzionale e documenta fifteen, il testo di Paris Lettau, 16 luglio 2022: https://memoreview.net/reviews/documenta-fifteen-by-paris-lettau visitato il 26 settembre 2022.
12) Dirk Schwarze è stato il critico d’arte che ha seguito tutte le edizioni di documenta per il quotidiano locale Hessische/Niedersächsische Allgemeine (HNA), fino all’anno della sua morte, il 2017. Le sue cronache, in certi casi quotidiane, rappresentano una fonte imprescindibile per chiunque voglia conoscere la storia di documenta. Vedi: http://dirkschwarze.net visitato il 27 settembre 2022.
16) Comunicato stampa di documenta13.
17) Kassel Map Booklet di documenta14.
19) Queste e tutte le citazioni seguenti in italiano di Trommeln in der Nacht sono tratte dall’edizione Einaudi del 1964, nella traduzione di Emilio Castellani.
20) “Die in den Regieanweisungen angegebene Gestik zeigt besonders an einem Beispiel den Einfluss auf die inhaltliche Ebene: Das Sitzen wird als gestische Metapher für die gescheiterte Revolution benutzt.” M. Hengelhaupt, Brechts “Trommeln in der Nacht” – ein modernes Revolutionsstück, in markushengelhaupt.eu, visitato il 22 settembre 2022.
21) Il teatro moderno è il teatro epico - Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, in: Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi 1962.