La mostra di Pistoletto al Chiostro del Bramante
Anna D’Andrea
Dopo l’Amore (LOVE, 2016), la Gioia (ENJOY, 2017), il Sogno (DREAM, 2018), la Follia (CRAZY, 2022), prosegue il viaggio di esplorazione alla scoperta delle passioni umane attraverso l’arte, o meglio le arti, concorrono anche poesia, musica, letteratura, teatro, cinema e ogni ramo dello scibile umano, utile al racconto che ha illuminato, nonché riempito il Chiostro progettato da Donato Bramante all’alba del Rinascimento. Dico prima illuminato perché ci piace pensare che la qualità dei contenuti venga prima della quantità dei numeri, e Danilo Eccher, curatore della quadri/logia, ha dimostrato come si possa andare oltre il rapporto di proporzionalità inversa solitamente sussistente tra le due variabili e mettere d’accordo entrambe, usando una chiave pop che invita a mettersi in gioco, un format fluido, serio e divertente per parlare a tutti di argomenti spesso vissuti come ostici come l’arte contemporanea, senza svilirne la forza dirompente. Gli effetti concreti di quella che egli stesso definisce come curatela narrativa? Per esempio vedere gruppi di ragazzi senza prof in giro per le sale delle mostre, ossia per libera scelta di piacere personale e non per obbligo scolastico, che non è poco.
La mostra INFINITY. Michelangelo Pistoletto. L’arte contemporanea senza limiti, a cura di Danilo Eccher, al Chiostro del Bramante dal 18 marzo al 15 ottobre 2023, preannunciata come non mostra, è dedicata a Michelangelo Pistoletto, sedicente infedele e plurale, ovvero artista ampio, che contiene moltitudini, direbbe Walt Whitman, pertanto la mostra, detto meglio il racconto a tema, non può dirsi monografica, semmai collettiva. Il curatore sceglie un taglio espositivo trasversale, che qualifica come non catastale, va detto per inciso molto diffuso anche in versione de noantri, in voga nella capitale e non solo, con esiti diametralmente diversi, per ripercorre la storia di uno dei maggiori protagonisti dell’arte del nostro tempo senza vincoli di attinenza cronologica, ossia superando quell’approccio che spesso riporta ancora la pittura al principio di tutto, anche quando si tratta solo di un riverbero nello sfondo scuro dei primissimi autoritratti adolescenziali.
Il racconto espositivo prende avvio non proprio all’insegna dell’accoglienza con un’intimazione perentoria ad allontanarsi proveniente da Specchio parlante (2004), un’opera specchiante attivata dalla presenza fisica dell’osservatore attraverso una sorta di allarme sonoro, è l’artista stesso che ci mette in guardia da certi usi impropri, atti a compiacere il nostro narcisismo e farci sentire la regina più bella del reame colta da ansia da prestazione, subito un viatico a prenderci un certo intervallo di osservazione e andare oltre la superfice, senza scivolarci sopra e affogarci dentro. A seguire altre opere storiche: la polisensorialità sinestetica di Orchestra di stracci (1968) che ci fa pensare a Il vapore (1975) di Bill Viola, a Luigi Russolo o John Cage, solo un sussurro al cospetto delle roboanti percussioni provenienti dalla sala accanto, un Terzo Paradiso (2003-2023) in versione sonora nonché social, che con le bacchette consegna agli astanti piena facoltà di lasciare traccia effimera della loro presenza. E rimanere di stucco ogni volta davanti a Venere degli stracci (1967), il paradigma della bellezza antica che ci mostra il lato b, senza false reticenze come alla Reggia di Caserta, l’ultimo residuo di luccicanza auratica si fa un bel bagno di umiltà nella pozzanghera nel suo contrario, morbido, colorato, impermanente, l’apollineo che abbraccia il dionisiaco, l’originale ovviamente è altrove. Metrocubo di Infinito (1966) è sempre stata la mia preferita, con gli specchi rigirati e legati con lo spago che implodono dentro, moltiplicati all’ennesima potenza, l’associo a Socle du monde (1961) di Piero Manzoni per quel deflagrare sotto mentite spoglie, qui l’allestimento visualizza e amplifica anche all’esterno il fragore assordante dell’effetto bomba. Poi eccoci al cospetto di Autoritratto di stelle (1973), lo trovo in qualche modo affine a Entrare nell’opera (1971) di Giovanni Anselmo, fare a meno di spessori e possanze inutili, fino all’assottigliamento estremo della trasparenza, per trovare il modo più unmonumental, semplice, chiaro e pulito come il bucato appeso al sole e al vento, per ricordarci che siamo fatti di polvere di stelle e la nostra nursery, l’inizio del viaggio è nell’universo infinito e, ci con/sola pensare, anche il proseguimento.
Alzando gli occhi al cielo, in entrata o in uscita, secondo le nostre soglie di attivazione sensoriale, troviamo un altro Terzo Paradiso. L’estate scorsa, passeggiando tra cielo e mare sul Sentiero azzurro alle Cinque terre, ne ho scovato uno per caso, l’ho riconosciuto dagli andamenti curvilinei e intrecciati delle pietre ammonticchiate nella piccola radura, l’ho visto scaturire naturalmente dalla terra, in mirabile armonia col resto, senza neanche leggere il cartello esplicativo. Rivederlo in versione multicolor, issato nella finestra di luce ritagliata da un chiostro, ossia quella parte del monastero medievale adibita a giardino, destinata a rappresentare proprio l’idea di paradiso in terra, è decisamente un’altra opera, meno land e più pop, come se dopo la fuoriuscita dai recinti sacri dell’arte del secolo scorso, taluni artisti, in combutta con qualche curatore compiacente, avessero l’ardire di scavalcare anche le caselle di classificazione loro conferite. E invece talvolta accade che i quadretti di un foglio excel non bastino per inquadrare il lavoro di un artista, peraltro noto per gli Oggetti in meno, opere nate proprio da un moto di sovversione alla “marchiatura”, quella che oggi ossequiamo come brand. In questo caso il Maestro torna semplicemente a se stesso, a prima del viaggio a New York e dell’invito di Leo Castelli e Ileana Sonnabend a entrare nella scuderia della Pop Art, corroborato a suon di dollari dall’acquisto di un’intera mostra (1963), episodio chiave nella vicenda artistica di Pistoletto e non solo, riportato nella bio intervista in catalogo, non una lettura critica ma una conversazione piacevole, come specificato in premessa, tra compagni di viaggio che percorrono un tratto di strada assieme, si scambiano domande, risposte, punti di vista, fino a toccare la piena reversibilità di ruolo tra intervistatore e intervistato.
Dunque nella strutturazione del percorso narrativo e di comunicazione di INFINITY, l’allestimento non è posticcia decorazione d’interni, né mero accostamento di superfici cromatiche, non serve a costruire piedistalli ma direzioni di senso, non è messa in luce o in scena dell’opera bensì mette in moto l’impaginato della mostra in tutte le sue parti, prende per mano il visitatore e lo accompagna nelle diverse concordanze o discordanze offerte dal percorso espositivo, nella dinamica delle loro interconnessioni possibili che si sviluppano nello spazio e nel tempo, stratificate su più livelli di lettura, aperte quanto basta a garantire al soggetto una modalità di ricezione che resti liberamente attiva, perciò creativa, senza perdere il filo, nei meandri delle trame del racconto. C’è da dire che Eccher, anche in veste di direttore di museo, ha sempre avuto un’attenzione speciale alle strategie più efficaci per entrare in relazione con il pubblico in tutte le sue diversità, a coinvolgerlo con tutti i sensi, dalla memorabile Materiali anomali (1997) al MAMBO (già GAM) di Bologna, al fianco di un grande pedagogista come Marco Dallari, al MACRO di Roma, alla riconfigurazione per temi delle collezioni della GAM di Torino e più recentemente qui al Chiostro del Bramante.
Luglio 2023