www.unclosed.eu

arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Giovanni Anselmo al MAXXI

Patrizia Mania
IcoPDFdownload
Tra le tante tendenze affermatesi nella seconda metà del secolo scorso uno dei momenti più pregnanti, foriero di sviluppi costantemente rinnovati nel tempo, è certamente da riconoscersi nell’Arte Povera. Una stagione che potremmo dire perpetua che non si è esaurita al suo momento apicale nel torno di anni compreso tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, mostrandosi piuttosto capace di riproporsi nelle traiettorie materiche e energetiche tracciate in molti degli orientamenti del successivo corso dell’arte che ne ha proficuamente raccolto l’eredità e variamente declinato le influenze. Dunque non un fenomeno conchiuso nel suo tempo ma esteso e dipanato nel dopo. Di questa consapevolezza testimonia oggi il vivido interesse storiografico sia per le vicende che lo hanno accompagnato che per le peculiarità delle ricerche di ciascuno dei suoi protagonisti.
Così, a darne conferma, mentre Parigi celebra con un’imponente mostra alla Bourse de Commerce Pinault Collection l’intero movimento (1), al MAXXI di Roma si è da poco concluso l’omaggio reso a Giovanni Anselmo che ne è stato uno dei suoi principali protagonisti (2) .
La vasta antologica su Anselmo pensata, l’artista ancora vivente, in una duplice sequenza prima al Guggenheim di Bilbao e poi al MAXXI Roma è stata curata da Gloria Moure che oltre a sottolineare l’importanza del lascito artistico ne ha evidenziato il suo procedere speculativo in un modo per cui nella sua opera “condizione artistica” e “condizione umana” coesistono e coincidono dandosi come un tutt’uno (3). Ė forse questa la ragione per la quale visitando la mostra romana che ha occupato l’intero spazio della Galleria 5 del MAXXI si è percepita immediatamente la consustanzialità di opere, allestimento e spazio espositivo. Il nitore degli spazi e delle opere a accompagnare e scandire passo passo la visita ha consentito di cogliere a pieno lo spirito della ricerca di Anselmo. Quasi fossero frutto di una simultaneità di concezione che è un po’ l’apriori del modo con cui Anselmo ha avvicinato il suo essere artista nel mondo. Il primo impatto che si è offerto al visitatore della mostra Giovanni Anselmo. Oltre l’orizzonte è stato, dunque, quello di uno straordinario nitore. Benché i lavori non fossero pochi, a ciascuno è stato riservato quasi uno spazio esclusivo il che in ogni caso non ha impedito di mantenere vitale la coesistenza del tutto. Una scelta espositiva che sembra aver pienamente assecondato il senso e la misura, i suoi vuoti e i suoi pieni, dell’arte di Giovanni Anselmo.
Fin dall’inizio, in occasione della sua prima personale tenutasi nell’aprile del 1968 alla galleria Sperone di Torino, Maurizio Fagiolo scriveva a proposito dello spazio creativo di Anselmo come di un vuoto al di fuori delle forme (4). Una specie di ’”horror pleni” sembrerebbe in effetti aver costantemente accompagnato la lunga ricerca di questo artista. Opere intense e essenziali avulse da qualsiasi forma di eccesso, contraddistinte piuttosto dalla discrezione e dalla misura del loro porsi all’interno di una ricerca volta al continuo scavalcamento dei limiti reali e illusori. Ė anche dal concentrarsi sull’essenza delle coordinate di base che con coerenza ha derivato la sua cifra distintiva e la sua stessa ragion d’essere.
Come si diceva, tra i protagonisti indiscussi dell’Arte Povera, Anselmo ne ha rappresentato una delle anime più rigorose, fedele ad un’idea etica e estetica della ricerca di una direzione, l’altrove, che ne è tratto distintivo e peculiare.
Considerata la prima epifania della sua arte è un’opera che proprio nell’ “altrove”, nel prendere consapevolezza del mondo e al suo interno del modo e del senso da perseguire preannuncia le scelte successive. Ė l’alba del 16 agosto 1965 quando sulle pendici dello Stromboli si fa ritrarre in La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965.  L’incipit del suo viaggio artistico. Null’altro che una diapositiva proiettata ma che già contiene alcune se non quasi tutte le coordinate del suo lavoro. C’è innanzitutto il sé, misura di tutte le cose, - il suo ritratto -; poi la direttrice – l’infinito; ma anche, e non in contrasto, un luogo specifico – la sommità del vulcano Stromboli; quindi, il tempo preciso dell’esperienza – l’alba del 5 agosto 1965; e infine l’energia – sia quella naturale del vulcano che quella elettrica che alimenta il proiettore e rende visibile l’immagine della diapositiva.
Non data una volta per tutte ma di continuo alimentata, proprio l’energia, icasticamente formalizzata nelle Torsioni, è tema e matrice dell’intero suo percorso. Esemplarmente, sia quando, tra il 1965 e il 1966, infila verticalmente su basi di legno dei lunghi fili rotondi in ferro affidandosi alla forza di gravità e alla tensione che vi imprime; sia quando, a partire dal 1967, inizia a lavorare sulla ‘direzione’ inserendo in vari materiali un ago magnetico e facendo leva sul mantenimento costante del suo orientamento nord-sud a prescindere dall’orientamento dell’oggetto stesso nello spazio in cui viene installato. Di ciascun materiale e/o forma studia e asseconda innanzitutto le proprietà energetiche, come quando nel 1968 la Struttura che beve, in questo caso grazie alle proprietà del cotone, fa uscire l’acqua dal contenitore d’acciaio e nello stesso anno nella Struttura che mangia in cui un piccolo blocco di granito è legato con un fil di ferro ad un blocco più grande e fa risultare possibile la saldatura tra l’uno e l’altro in virtù di un cespo di lattuga che collocato tra i due blocchi impedisce a quello più piccolo di precipitare al suolo. Occorrerà sia per la prima che per la seconda struttura che qualcuno provveda alla loro manutenzione nel tempo. L’acqua infatti ineluttabilmente evaporerà e anche il cespo di lattuga si disidraterà rendendo necessario per entrambe l’intervento di mantenimento in vita, quindi improcrastinabilmente fornendo di nuova acqua il primo e sostituendo la lattuga al secondo. Si tratta dunque di opere vive per le quali l’artista ha previsto una costante presa in carico della loro cura e dell’energia rinnovata di volta in volta che occorre destinarvi.
Dopo i primi lavori concentrati prevalentemente sull’energia, fu Mirella Bandini a intravedere nei lavori successivi al 1969 una “dilatazione mentale” che lo avrebbe spinto a considerare ulteriormente il tempo, la durata e l’infinito (5). In tal senso esemplare e proprio del 1969 è l’opera Verso l’infinito che, come scrive l’artista stesso, si incarica ambiziosamente di fermare il tempo. Se adeguatamente protetto il blocco di ferro rivestito di grasso minerale e inciso anela infatti a consegnarsi all’infinito. Anche qui dunque non una durata a prescindere ma una resistenza possibile solo a condizione di predisporne e conservarne gli elementi portanti e necessitanti.
Il 1969 è anche l’anno di Trecento milioni di anni dove per altra strada rafforza l’attenzione alle materie, con una netta predilezione per quelle che plasmano e trasformano nel tempo la Terra – le sue rocce, le sue pietre -. Sceglie in questo lavoro l’antracite, un materiale che, scrive, era un tempo “materiale organico, rettili o vegetali”(6) .In ogni caso, roccia fragile e friabile della quale assume un blocco alla cui conformazione hanno concorso appunto trecento milioni di anni apponendovi una piccola lampadina quasi a volervi infondere quella luce negatagli dal tempo e ragione prima del suo stesso formarsi. Il semplice gesto di legarla al masso di antracite con un fil di ferro, appena nascosta da una sottile foglia di lamiera, è l’intervento minimo che riconverte le energie al qui ed ora della sua presenza.
Ma in questo percorso di trasmutazione energetica nel presente non c’è solo la sfida a permanere sub condicione, che abbiamo detto tradursi nell’irrinunciabile costanza della cura, l’anno dopo apre infatti con Dissolvenza la strada alla riflessione sull’impermanenza dell’immagine e di conseguenza della stessa visione. Quintessenza di un pensiero che si dipana lungo le strade delle possibilità stesse di esistere. Analogamente a quanto accade per la prima opera in cui aveva percepito il Sé nell’infinito, che era anche quello del qui ed ora dell’esperienza, qui l’immagine di una scritta si palesa solo grazie al dispositivo del proiettore alimentato dall’energia elettrica che ne rende possibile la visualizzazione su uno schermo prestabilito. La parola prescelta nella scritta dell’immagine è “dissolvenza” e riferisce efficacemente del suo apparire e scomparire alla visione. Scrive: “[…] ‘Dissolvenza’ è per me quasi sinonimo di ‘ossidazione’, ho usato questa parola immaginando che questo blocco di ferro che pesa più di 10 kg, prima o poi, per effetto dell’ossidazione, scomparirà, divenendo polvere. La parola ‘dissolvenza’ segnala che questo processo è già in atto” aggiungendo “anche, in questo caso ho realizzato quest’opera come se si potesse stare lì come si farebbe al cinema, ad assistere effettivamente al compiersi di questa dissolvenza”(7). L’opera consiste precisamente in un blocco di ferro su cui è proiettata l’immagine di una diapositiva con la scritta “dissolvenza”. Ulteriore radicale passaggio nella direzione di questo flusso di riflessioni registra Invisibile (1971 – 1973) che si presenta con un’analoga proiezione di diapositiva non però su un blocco prefissato, non su uno schermo preposto, ma eterea nell’aria. Focalizzando la proiezione della scritta nell’aria essa risulta invisibile tranne che a condizione di intercettarla con il proprio corpo esattamente nel punto di focalizzazione. Ė questa la sola possibilità per cui appaia la scritta “visibile”. “Se ho realizzato quindi un’opera invisibile l’ho potuto fare realizzando alla fine un’opera visibile”(8).
Le aporie del visibile così stringenti nella stagione concettualista e poverista diventano nel caso di Anselmo uno delle principali direzioni che, in modi sempre diversi, contrappunta la sua ricerca nel tempo. Per esempio, ciò che si vede di sé, quel che ognuno di noi percepisce della sua immagine riflessa, trova un’esplicita formulazione nella duplice versione del suo Autoritratto del 1970. Un disegno a matita su carta e una fotografia a colori costruita al negativo fa sì che invertendo il negativo e apponendo all’incontrario sul suo collo la scritta “lato destro” quest’ultima divenga correttamente leggibile e il suo ritratto risulti effettivamente com’è e non come apparirebbe a chi guarda. Ne scrive come di un “autoritratto accelerato” incaricandosi lui stesso di fornirne il senso: guardare il suo volto attraverso di sé scientemente rovesciando la percezione che altrimenti se ne avrebbe. Costruisce cioè l’immagine aggirandone la percezione visiva consueta. Ė in questi correttivi che propriamente si dà quell’altrove da lui tanto evocato e perseguito. Lo spiega eloquentemente lui stesso: “[…] Di Lato destro ci sono due versioni, una è costituita da un disegno a matita su carta e l’altra è una fotografia a colori. Il disegno è un normale autoritratto allo specchio, che quindi mi fa vedere in modo diverso da come mi vedono gli altri. La versione fotografica segue lo stesso principio, ma stampando il negativo rovesciato. Normalmente il mio lato destro coincide infatti con quello sinistro di chi mi guarda, mentre in questo caso, attraverso il rovesciamento del negativo, è come se questa persona guardasse me attraverso di me. Invertendo il negativo mostro il mio viso così come si sente, com’è e non come sembra. La scritta “lato destro” l’avevo posta sul lato destro del mio collo, scritta al contrario, in modo tale che ribaltando il negativo essa comparisse scritta nel senso corretto. Con il rovesciamento del negativo fotografico ottengo quindi un autoritratto accelerato rispetto ai modi tradizionali di realizzarlo nella storia dell’arte e basato sull’inversione delle abitudini visive”.(9)
Il sé del ritratto avrà modo di declinarsi ulteriormente in una sostanziale immersione nel paesaggio/mondo quando decise di riprendersi di spalle in corsa, studiando e regolando i tempi dell’autoscatto per provare a “essere nello stesso tempo in due luoghi diversi”. Entrare nell’opera, la grande fotografia di quasi quattro metri di base e di più di due e mezzo di altezza risale al 1971. Quasi un manifesto di poetica. Ne ha ben colto lo spirito Moure scrivendo che “il mondo è così come si presenta perché non siamo lì per comprenderlo, poiché in esso siamo allo stesso tempo osservatori e parte integrante e, pertanto, siamo la sua immagine, così come il mondo è la nostra immagine”.(10)
Tornando alle materie è per il loro tramite, specialmente con la pietra, che Anselmo avvicina a suo modo anche la pittura. Lo farà costringendo il suo supporto tradizionale – la tela – ad aderire a lastre di pietra che sceglieva in quanto portatrici di un colore, quello dato loro in natura (11). “Tutte le pietre sono già colorate in natura, io scelgo una pietra in quanto colore”.(12)
Un tema, quello della pietra/colore e del relativo rapporto con la pittura che si imporrà con particolare assiduità nella produzione più recente. Ė del 2018 l’installazione Colori su tela verso l’altrove in cui una serie di numerose enormi tele appoggiate ad una parete funge da base ad una moltitudine di grossi massi di pietre colorate accatastate al di sopra. Il supporto accoglie il peso della pittura mostrandone la fisicità materica come fosse proprio quello l’altrove cui guardare.
Altro spazio, altra dimensione. Non tanto per fuggire ed evadere, ma per guardare e comprendere meglio, oltre l’orizzonte, al qui e ora e all’infinito.
Relazioni logico visive che dissotterrano energie latenti in una costante sfida a rendere visibile l’invisibile, a sfumare il finito nell’infinito, a dare peso e dissolvenza alle materie il cui incipit e la cui meta restano in ogni caso la scoperta e il dono dell’‘altrove’.

Ottobre 2024

1) La mostra Arte Povera a cura di Carolyn Christov Bakargiev si protrarrà negli spazi della Bourse de Commerce di Parigi fino al prossimo 20 gennaio 2025.
2) Giovanni Anselmo. Oltre l’orizzonte, a cura di Gloria Moure, 20 giugno – 20 ottobre 2024. MAXXI, Roma.
3) Gloria Moure, “Giovanni Anselmo. Felicità dell’intangibile”, in, Giovanni Anselmo. Oltre l’orizzonte, catalogo della mostra omonima, p. 28.
4) Nel relativo catalogo, oltre al testo di Maurizio Fagiolo Eppur si muove, è riportato un testo di Germano Celant dal titolo Casi limite.
5) Mirella Bandini “Torino 1960 – 1971. Giovanni Anselmo”, intervista a Giovanni Anselmo, in, Nac, n.3, Bari, 1973, p. 4.
6) Giovanni Anselmo, in, Giovanni Anselmo. Oltre l’orizzonte, catalogo della mostra omonima, p. 74.
7) Ivi, p. 140.
8) Ivi, p. 152.
9) Ivi, p. 134.
10) Gloria Moure, cit., p. 24.
11) Si vedano a riguardo i Senza titolo realizzati tra il 1987 e il 1990 con pietre, cavi d’acciaio e nodi scorsoi.
12) Giovanni Anselmo, in, ibidem, p. 198.