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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Alla Tate Modern uno sguardo inedito sulla cultura post coloniale britannica

Daniela De Dominicis
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In Italia non ha mai esposto e la letteratura su di lei si limita nel nostro Paese a qualche articolo episodico. Viceversa nel mondo anglosassone l’artista tanzaniana Lubaina Himid ha registrato in tempi recenti un apprezzabile successo. Complice il processo di decolonizzazione culturale in atto che spinge a guardare alle culture non occidentali finalmente su un piano di parità e di maggior rispetto (1), nonché il recente e diffuso interesse per l’arte africana (2),  quest’artista nera, nata nel 1954, si è vista  attribuire nel 2017 il prestigioso Turner Prize e più recentemente l’ambito omaggio di una personale presso la Tate Modern di Londra (3).
Trasferitasi da piccola in Gran Bretagna, lasciando la nativa Zanzibar, all’epoca protettorato britannico (4), Lubaina Himid ha finito per incarnare lingue, storie, culture diverse e negli anni Ottanta ha svolto un ruolo apicale nel British Black Arts Movement.
Docente all’University of Central Lancashire, è nota per una produzione artistica articolata su registri diversi: musica, teatro, scultura, pittura, installazioni.
I sei grandi ambienti in cui si articola la mostra documentano tutta la complessità del suo lavoro, subito percepito denso di significati e di molteplici livelli di lettura. Le brevi frasi interrogative che si leggono ritmicamente sulle pareti ci invitano in modo immediato e diretto a riflettere su alcuni concetti di fondo. “Viviamo dentro abiti ed edifici. Ci si addicono?” oppure “A cosa servono i monumenti” e ancora “Come distingui la salvezza dal pericolo?” (5). Interrogativi che sembrano proporre pensieri laterali sullo stile di vita, un modo di guardare all’esistenza con occhi nuovi.
Ma a tutta prima non si può non venir catturati dai colori vivaci delle opere esposte. A cominciare dai Metal Handkerchiefs (2019) della prima stanza. Nove lastre metalliche quadrate che ripropongono ad acrilico la superficie dei tradizionali Kanga, i grandi fazzoletti multicolori con cui le donne dell’Africa orientale si legano i bambini dietro la schiena, si avvolgono il capo, la vita, etc. In questo caso le loro superfici vivaci fanno da piano di fondo alle immagini essenziali e semplificate degli attrezzi da lavoro mutuate dai manuali industriali per la sicurezza del periodo coloniale. Le scritte sotto queste figure derivano anch’esse dalle relative istruzioni per un uso corretto degli oggetti. Ovviamente la loro decontestualizzazione finisce per conferire alla sequenza di Metal Handkerchiefs una valenza diversa, simbolica ed esistenziale.
Tutti i lavori di Lubaina Himid presentano colori squillanti, talvolta complementari, stesi in campiture compatte con solo rari accenni al volume; indicazioni prospettiche sghembe o appena suggerite che fanno pensare ad una rappresentazione ingenua e primitiva del mondo e che di questa conservano l’urgenza comunicativa e la vivacità dell’immagine. Su tale essenziale scenografia, in cui il mare è un elemento costantemente presente, si stagliano una miriade di figure snelle, un po’ metafisiche, quasi alla Donghi. Figure di uomini e donne africani con i loro mestieri e le loro storie, figure ieratiche che raramente interagiscono ma dietro le quali si percepisce un non detto, una narrazione omessa. Cosa fanno le due signore sedute vicine sulla barca che le trasporta in Between the Two my Heart is Balanced? Cos’è la pila di elementi colorati che c’è tra loro? Cosa sono i frammenti azzurri che una delle due getta in mare? Carte geografiche coloniali come sostiene Dorothy Rowe (6)? Si tratta di viaggiatrici, di migranti? A volte i titoli aiutano però a interpretare la scena. Così la serie dedicata a Le Rodeur rimanda esplicitamente all’omonima nave francese la cui storia è tristemente nota. Si tratta di una delle imbarcazioni schiaviste che faceva la spola tra le coste africane e le colonie d’oltremare. Nel 1819 nel corso di una delle consuete traversate atlantiche con 162 schiavi nella stiva, si sviluppa, a ragione delle drammatiche condizioni igieniche, un’infezione oftalmica che conduce alla cecità. Nel tentativo di contenere l’epidemia il comandante ordina di gettare i contagiati in mare senza tuttavia che questo riesca ad ottenere gli effetti sperati. Ma in realtà si fa fatica a ricondurre a questo episodio e alle condizioni di vita degli schiavi le figure dignitose, vestite in eleganti abiti contemporanei che si muovono in piccoli gruppi nelle atmosfere cristalline dell’imbarcazione. Del resto tutte le immagini che Himid ci propone sembrano lottare contro gli stereotipi veicolati dai mezzi di informazione sull’Africa e sui migranti. L’artista ha dichiarato che probabilmente nessuno del pubblico ha idea dei contenuti drammatici delle sue opere, catturato com’è dalla piacevolezza cromatica e dalla ricercatezza compositiva. Il suo è però un modo per introdurre negli ambienti paludati delle gallerie e dei musei britannici contenuti e riflessioni sulla storia del periodo coloniale per lo più rimossa ma rispetto alla quale tuttavia si comincia a riscontrare una certa sensibilità. È un po’ come se il suo tentativo fosse quello di europeizzare l’Africa e africanizzare l’Europa utilizzando la sua personale esperienza come collante tra i due mondi. Così le Due donne che corrono sulla spiaggia, la gouache di Picasso del ’22, diventano, in Freedom and Change, due gioiose donne nere che, liberatesi di due vecchi e grassi uomini bianchi, rimasti intrappolati nella sabbia, corrono a perdifiato precedute da quattro cani tenuti al guinzaglio. Qual è la storia narrata da questa tela? Le due donne erano prigioniere e si sono liberate dei loro carnefici? Hanno addirittura sottratto loro i cani che servivano per sorvegliarle? Tra le due donne c’è una relazione affettiva o solo complicità contingente? Ciò che emerge è però l’ostentato riferimento a Picasso, un modo per rovesciare il tributo che gli artisti europei del primo Novecento devono alle sculture africane. In realtà il dialogo con la tradizione artistica occidentale è costantemente presente nella produzione di Himid; quello in cui è più evidente e spettacolare è la mise en scène, con sagome di legno bidimensionali, di A Fashionable Marriage, ispirata all’omonimo ciclo satirico di William Hogarth (1743), in particolare al quarto episodio de La Toilette. La satira che Hogarth muove alla società del suo tempo diventa nella trasposizione di Himid uno sguardo feroce sul mondo dell’arte e della politica contemporanei. I servitori di colore si trasformano uno nella figura dell’artista nera che campeggia al centro della messa in scena e l’altro nell’immagine dell’attivista politica, anch’essa africana, che guarda l’insieme con occhi attenti dall’angolo a destra (7) . Himid sembra nutrire grande fiducia nel potere di trasformazione della mentalità e quindi della storia ad opera dell’arte e soprattutto delle donne artiste, voci finora silenti o marginali ma che, come nell’installazione appena descritta, possono assumere ruoli apicali e decisivi. Ma i suoi riferimenti alla storia coloniale e alle migrazioni recenti, sono sempre discreti, fatti di lievi allusioni. Così la drammatica esperienza degli esodi organizzati su barche di fortuna, diventa un’installazione di assi di legno alte cinque metri, disposte a scarpa contro il muro con un andamento sinuoso che ricostruisce la forma di un’onda. Il sonoro – curato dalla musicista Stawarska Beavan – rimanda gli inquietanti scricchiolii degli scafi e il rumore del mare. Suoni ipnotici per chi li ascolta in galleria, ma senza dubbio angoscianti per chi li percepisce durante la traversata con una prospettiva di totale incertezza, senza aver mai visto prima né una barca né tantomeno il mare. Il titolo di quest’opera, Old Boat/New Money, allude al contributo dei migranti allo sviluppo economico dei Paesi che li accolgono, un aspetto questo che viene sempre sottovalutato a favore del controllo numerico degli spostamenti. Questo stesso tema si ritrova nell’opera che le è valso il Turner Prize, Naming the Money, con la quale l’artista ha dato visibilità – sotto forma di silhouette a grandezza naturale dotate ciascuna di un sonoro per raccontare in prima persona la propria storia – a cento schiavi che nel XVIII secolo sono stati costretti a lavorare nelle corti europee finendo loro malgrado per produrre giustappunto ricchezza per altri. 
Dalla formazione britannica, l’artista sembra aver introiettato la leggerezza e l’ironia tipiche di questa cultura. Tra i lavori in questo senso più esemplificativi è Jelly Mould Pavilions for Liverpool (2010). Si tratta della simulazione di un concorso per la costruzione di alcuni padiglioni nazionali a forma di stampi per dolci alla gelatina di epoca vittoriana. La città di Liverpool è caratterizzata da centinaia di monumenti e sculture commemorative ma nessuna che ricordi il contributo della diaspora africana allo sviluppo della città. Le maquette di questi improbabili padiglioni si presentano sotto la forma di coloratissime ceramiche ma, ancora una volta, pur nell’aspetto giocoso e vagamente pop, il retropensiero va all’industria dello zucchero e agli schiavi che hanno lavorato nelle piantagioni rendendo possibili questi dolci così apprezzati in Europa.
L’artista vive il suo periodo di massimo e senza dubbio meritato riconoscimento internazionale, sostenuto come si è detto dal pensiero degli studi post coloniali e la conseguente revisione della storia e della cultura europee. Tuttavia proprio in questo clima di generale riposizionamento critico si è osservato come le culture emergenti, africana ed asiatica, che sembrano porsi in alterità ai modelli culturali vigenti nel nord del mondo, siano solo apparentemente di contestazione e che tutto questo abbia senso solo all’interno di una consolidata organizzazione occidentale fatta di gallerie, esposizioni, rassegne, musei, … In fondo le radici del revisionismo partono proprio dall’Occidente e dal famoso saggio di Edward Said (8), Orientalism, risalente ormai a quasi mezzo secolo fa, che per primo ha stigmatizzato la visione europea del mondo arabo-musulmano. Com’è noto ogni sistema ha necessità di dissensi interni per potersi corroborare. L’ennesimo gioco delle parti, dunque? La cultura occidentale sarà messa in difficoltà da quelle emergenti oppure riuscirà ad assorbire tutto al proprio interno?
In questa seconda ipotesi il post-colonialismo altro non sarebbe che una nuova e più raffinata forma di colonizzazione. Forse non è un caso se tra gli interrogativi che Lubaina Himid scrive sui muri della Tate si legge: What Happens Next? Cosa accade ora?

Ottobre
2022
1) Nell’ambito del processo di decolonizzazione molta attenzione viene posta agli aspetti linguistici. Recentemente l’Università di Oxford ha cambiato il nome alla Faculty of Oriental Studies in quello di Faculty of Asian and Middle Eastern Studies ritenendo il termine Oriental troppo carico di significati storici di marca coloniale.
2) Un esempio per tutti sono i premi assegnati dalla LIX Biennale di Venezia all’artista afro-caraibica Sonia Boyce, Leone d’Oro per il Padiglione Britannico, e a Simone Leigh, statunitense di origini giamaicane, Leone d’oro come migliore artista
3) La mostra di Lubaina Himid presso la Tate Modern è stata curata da Michael Wellen e Amrita Dhallu (25 novembre 2021- 2 ottobre 2022).
4) Nel 1964 l’unione della Repubblica di Tanganica e dell’isola di Zanzibar dà luogo alla Repubblica Unita di Tanzania.
5) We Live in Clothes, We live in Buildings. Do They Fit Us? / What Are Monuments For? / How Do You Distinguish Safety From Danger?
6) Dorothy Rowe, Retrieving, Remapping and Rewriting Histories of British Art: Lubaina Himid’s Revenge, in Dana Arnold and David Peters Cobett eds, A Companion to British Art: 1600 to the Present, Oxford 2013, pag 306.
7) Nell’opera di Hogarth il primo schiavo somministra cioccolato; il secondo si distrae con i lotti di una casa d’aste. L’attivista che sostituisce quest’ultimo ha davanti a sé i testi del leader senegalese Chiekh Anta Diop e del ganese Walter Rodney.
8) Edward Said (1935-2003) scrittore e docente di Inglese e Letteratura comparata alla Columbia University, è di origini palestinesi.