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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero

Le installazioni di Annecchini sono oggetti aurali. La sua performance d'addio, di firma, di espansione esistenziale ne restituisce l'immagine perfetta. Di ogni azione Roberto Annecchini ha calcolato profondità e progetto, facendo a mente approfondimenti complicatissimi per definire l'importanza storico-critica dell'oggetto.
C'eravamo incontrati a ridosso dell'arte e della critica. Lui da artista si diceva un critico in erba, io da critico mi sentivo un artista mancato. Insieme abbiamo fatto decine di progetti e molti di questi hanno ancora una forza attuale. Una delle nostre prime operazioni era nata da una sua richiesta, quella di usare la mia testualità per realizzare l'installazione luminosa Abitare la distanza (1997). Lì aveva disposto una diapo con i testi critici miei e di Patrizia Mania realizzando un'installazione dal forte impianto segnico/coloristico. In una successiva opera che avevamo allestito a Francoforte nel 1998, presso la galleria Shütz per la cura di Gabriele Winter, la scritta La teoria è il piedistallo dell'arte faceva da sostegno luminoso per una sua immagine d'aeroplano che sorvola frammenti di scrittura, il tutto su una luminosità rossa, molto tenebrosa. Era già il rosso simbolico che sarebbe stato una delle sue particolari sigle stilistiche, un rosso che, nato dalle timbriche del fuoco, cresce dallo scarlatto pompeiano sino alle più oscure declinazioni porpora borgogna e vira sempre verso una schermatura scura, in ambientazioni fiammeggianti, luciferine. L'opera, quando la mostrammo a Roma era piaciuta molto a Fabio Mauri che con la sua cadenza un po' borbottante aveva apprezzato. Subito dopo sono nati molti progetti, di cui ricordo Radiceditre con la partecipazione di Alberto Zanazzo (1). Un video, presentato poi al Museo Laboratorio della Sapienza, in cui in una ambientazione da navicella spaziale offrivamo la caricatura di noi stessi. Era un lavoro, come disse con simpatico sarcasmo una professoressa della Sapienza di Roma, che aveva il gusto di Ecce bombo di Moretti. Ma questo non ci smontò. Facemmo una serie di mostre culminate poi nelle varie puntate di Viatico di Arte e Critica (2000), dove parteciparono molti protagonisti di quella generazione che voleva emergere alla fine degli anni Novanta (2).
Un'opera che ci aveva interessato molto era PGS. Portable Group Show (2001), concepita in visione duchampiana, in cui avevamo organizzato una valigia costruita appositamente per custodire i lavori di una decina d'artisti, e con i quali si poteva organizzare un'ampia mostra collettiva, variabile solo con l'ausilio dell'hardware supplementare (3). A volte la nostra collaborazione si scontrava con problemi e ostacoli particolarmente difficili che noi risolvevamo sempre con qualche espediente. Perché Annecchini, in fondo, ha vissuto tutta la vita inventando soluzioni. Non ha mai avuto un vero lavoro retribuito, né tantomeno lo cercava. Era un bohémien fuori dal tempo, ma sapeva anche usare perfettamente i mezzi elettronici quando ne aveva bisogno, ed i progetti di new media art che ha organizzato ne sono la conferma. Per vivere questa vita senza condizionamenti di mercato o con i poteri, una vita che lo ha impegnato fino allo stremo, ha vissuto in grande pauperismo senza mai lamentarsene. Un'austerità dignitosa, elegante. Era abituato a vivere in un sottotetto senza riscaldamento, ma stava accanto al Pantheon. Aveva uno studio a ridosso delle Mura Aurelie, ma lì, dentro quell'umidità, ci passava le ore quasi fosse impermeabile. Quella vita che conduceva lo aveva marchiato sin da giovanissimo. Il fascino che emanava era però sempre vivo. La sua vera missione era l'arte. Per far posto alle installazioni, nel periodo in cui lo Studio Change che aveva ideato si era spostato nella sua piccola soffitta, aveva cancellato anche la cucina. Il suo spazio era minimal e perfetto, una stessa aura bianco latte invischiava la sua abitazione, gabbiani compresi, completamente vuota ad eccezione delle opere esposte. Mi diceva che se Maria Colao di Primo Piano nel suo monolocale era diventata il punto di riferimento per artisti come Barry e Weiner lui poteva farlo nella sua soffitta, in funzione di un poi che in realtà non ha avuto tempo di godere. Riusciva a far funzionare il suo spazio come una vera galleria, la cui storia ha dell'incredibile. Tra mille difficoltà lui non si arrestava mai e non lasciava trasparire la sua totale mancanza di proventi (4).
Roberto Annecchini in questi ultimi venti anni ha creato molteplici ragnatele di relazioni in Europa e altrove. Ha creato progetti che alla fine dovranno essere presi in considerazione o per la storia curatoriale, incredibilmente vasta e profonda, o per la riduzione di questa a opera personale. Credo che la sua vera ambizione fosse quella di separare e successivamente ri-unire le due visioni, fra critica ed arte, in qualche modo saldare la parte curatoriale, in forma di cura-critica, alla concretezza dell'installazione. Nella foto da lui ideata in funzione post-mortem e per un lavoro della sua amica e sodale Regina Hübner, Annecchini ci guarda con severità, appesantito da un male inesorabile, ma indomito nella fiera certezza di aver compiuto il suo destino. Ci basti osservare la qualità della sua "messa in opera" finale. Il corpo dell'arte-artista immoto nel pieno della vita ma sganciato da questa per via del buio oltretomba dello sguardo, celato nel nero assordante di un occhiale da sole dentro cui rimanere risucchiati, l'altrove di un qui-ed-ora, l'inesorabile prospettiva futura dell'opera e della vita vissuta. Il suo altrove, la soglia che vuole farci percepire. La sua tragica posa è storica, fortemente neoclassica, politicamente stoica, così come lo era La morte di Marat (1793) di Jacques-Louis David, cui la scena rimanda. Se lì per David l'idea della morte era conchiusa nella cornice di una storia rivoluzionaria frazionata dalla follia della ragione del Terrore di Robespierre qui in Annecchini/Hübner il tema dominante è l'espansione dell'io fra vita e morte, simbolo e paradigma di una complessità linguistico culturale cui diamo il nome di arte. L'arte che per Annecchini era vita stessa e che inesorabilmente conduce alla non vita attraverso il Tabernacolo segreto, l'immagine, luogo della rarefazione, trascendenza ideale e traslazione formale.
Immagino i suoi ultimi anni siano stati di preparazione. Mi aveva informato col suo fare taciturno, pieno di pause, che stava correndo il rischio di abbandonarci. Così mi disse una mattina, l'ultima volta che ci siamo incontrati, per caso, proprio di fronte al Parlamento. Lui era sfiduciato per via del suo malanno, ma deciso a reagire, stava sistemando alcune cose per concludere il suo isolamento. "Bisogna vedere alla fine, chi sei" diceva con implacabile fermezza. Adesso Roberto Annecchini, principe della Roma tenebrosa è andato via. È andato via il suo essere oscuro, insondabile, la sua sparizione invece illumina, rende più chiaro l'enigma. Il quesito che naturalmente ci si porrà è cosa davvero voglia dirci la sua opera, se sia un'arte sperimentale e dialetticamente complessa o un delirio narcisista, ma in fondo qualsiasi risposta si darà non elimina l'enigma. Se consideriamo alcuni dei recenti progetti espositivi di cui si è fatto promotore - come il suo ultimo ed inedito comparative arrhythmias x tautological sequences / aritmie comparative x sequenze tautologiche (opera incompiuta, 2018-2019) - ci accorgiamo che trattano problematiche inerenti l'ideazione, la messa in opera, la concettualizzazione del progetto artistico, la probabile espansione significativa attraverso un'inesplicabile visionarietà (5). Roberto Annecchini lo ha fatto progettando lo schema delle sue opere "critiche", come quest'ultima, rimasta aperta, a cui in molti stavamo partecipando, un utopistico format di new media art collettiva.
Se n'è andato immerso nel sonno, nei suoi sogni un po' corrucciati da idealista d'una gentilezza incorrotta, quasi infantile, mai arresosi alla volgarità del mondo, avvolto nei suoi cappottoni talmente demodé da diventare puro stile. Se n'è andato dalle sue mura fredde e scabre, ha smesso i fremiti di piacere nel vedere gli artisti al lavoro, per una sua idea.
20 gennaio 2019



1) Roberto Annecchini, Domenico Scudero, Alberto Zanazzo, Radiceditre, video digitale, 2001. Presentato presso il Museo Laboratorio della Sapienza Università di Roma, 2001, nell'ambito della mostra Deframmentare
2) Viatico di arte e critica #1, #2, #3, #4, progetto di Roberto Annecchini, Patrizia Mania, Domenico Scudero, Change – Studio d'arte contemporanea, Roma, 01- 04 2000 (Cat.)..
3) P.G.S., Portable Group Show, Change – Studio d'Arte Contemporanea, progetto di Roberto Annecchini e Domenico Scudero, Roma, 06.12.2001 – 31.01.2002, (Urs Breitenstein, Samantha Clark, Amanda Currie, Josef Dabernig, Kate Davis, Lucy Day, Doris Frohnapfel, Nathalie Grenzhaeuser, Regina Hübner, Rogelio Lòpez Cuenca, Christiana Protto, Terry Smith, Antonio Tamilia, Zhou Tiehai, Anne Willieme) (Cat.).
4) La Galleria Change – studio d'arte contemporanea è nata nello studio di Roberto Annecchini e Regina Hübner nel 1996, nel cortile interno dello stabile di Via delle Mura Aurelie 19/T, di Roma. Dal 1997 al 2000 sono state realizzate lì mostre ed eventi spesso in collaborazione con Enti e Istituti di Cultura. L'attività si è poi spostate in Via di Santa Chiara 57, Roma, nei pressi del Pantheon e cambia denonimazione nel 2003 in Change + partner platform contemporary art terminando la sua attività dal 2009 al 2018 a Bracciano con un totale di circa 100 mostre ed eventi. La galleria ha prodotto tre cataloghi a stampa dal 1997 al 2001 ed un ultimo successivo nel 2004 e la sua attività è consultabile nell'archivio dettagliato sul sito all'indirizzo https://www.changeartconcept.com/ (consultato il 07, 01, 2019)
65 comparative arrhythmias x tautological sequences / aritmie comparative x sequenze tautologiche, progetto in progress di Roberto Annecchini, 2018 -2019, cfr. www.changeartconcept