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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero
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Il 5 dicembre 2002 si inaugurava la mostra Effetto Kanban di Mauro Folci negli spazi della Sapienza Università di Roma. In occasione del ventennale di questo evento espositivo ritengo opportuno rivisitare alcuni momenti essenziali che rendono quella mostra emblematica e anche riassuntiva di un mondo culturale e politico in cui siamo ancora oggi in parte soggiogati (1).
Come pochi sanno la mostra, che aveva avuto una complicata genesi, era stata preceduta da un complesso avvicendamento burocratico per i permessi, positivamente concluso (2). Tuttavia nei giorni successivi all'inaugurazione una squadra di operatori tecnici della Sapienza aveva rimosso senza alcuna spiegazione l'installazione precedentemente concordata. Inutilmente si era tentato di comprendere  perché l'operazione ostensiva degli striscioni con la scritta Kadavergehorsam fosse stata poi precipitosamente vietata dall'allora rettore dell'Ateneo. Ricordo però che l'atto di cancellazione violenta, praticata dalla squadra tecnica con metodi brutali e indifferenti alle proteste di chi chiedeva spiegazioni, aveva di fatto censurato una mostra senza ratificarne il motivo. In quei momenti ci si era dati da fare per coinvolgere studenti, docenti, infine stampa e addetti ai lavori, senza peraltro riuscire a trovare nient'altro che un "muro di gomma" di cui ancora oggi non si riesce a comprendere appieno il motivo. La mostra a quel punto, che sarebbe rimasta altrimenti mutilata, era stata chiusa.
Ma se in quei giorni di preparazione la scritta kadavergehorsam che accoglieva i passanti e spazientiva le "eminenze grigie" del potere accademico poteva essere il motivo di tanta acrimonia nei confronti del lavoro di un artista, ancora oggi non mi riesce da capire come mai fra i tanti addetti ai lavori, critici illuminati, storici dell'arte di ampio respiro democratico, giornalisti di varia cultura, informati e consapevoli di quella censura non ci sia stata nemmeno una riga che manifestasse quanto meno l'assurdità di un gesto così censorio nei confronti di qualche striscione.
In concomitanza con l'azione disciplinare mi ero dato molto da fare ricercando presso tutte le librerie di Roma alcune copie di La banalità del male di Hannah Arendt che era una delle fonti basilari su cui Mauro Folci aveva costruito la sua complessa installazione. Ne avevamo distribuito le copie per dimostrare che quella scritta sugli striscioni indicava un atteggiamento così sommamente descritto proprio dalla Arendt che il male lo aveva conosciuto, soprattutto osservando l'inanità della coscienza di Eichmann imputato a Gerusalemme per crimini di guerra. E d'altra parte era anche risaputo che uno dei maestri di Mauro Folci, Fabio Mauri, sul tema del male aveva lavorato con insistenza e contro ogni ideologia fondata sulla falsificazione del bello (3).
Quindi perché? E in cosa consisteva l'apparato complessivo della mostra? La mostra prendeva il titolo Effetto Kanban dalla tecnica del "just in time" in uso già all'epoca nelle aziende produttive e che stava per soppiantare del tutto le precedenti procedure industriali con l'uso intensivo di macchine robot e programmi computerizzati. L'effetto kanban nell'applicazione industriale consiste nel produrre esattamente il numero di oggetti e beni nel momento in cui si rendono necessari per evitare scarti di tempo e giacenze e che nella fattispecie ha un corrispettivo analogo nel "tempo reale" della comunicazione in rete. Una simile pratica oltre a razionalizzare i tempi di ingresso e uscita dalla catena produttiva ha anche un notevole impatto sull'organizzazione del lavoro in cui l'individuo attivo al suo interno è sempre più schiacciato per orari operativi e azioni. Questa innovativa pratica di organizzazione del lavoro è stata poi la base costitutiva dei nuovi strumenti di mercificazione e delle multinazionali della distribuzione in cui il corpo dell'operatore è la massa assorbente, l'ammortizzatore fra le ferree logiche della produzione e del profitto. Riduzione dei diritti lavorativi, minori retribuzioni, tempi di lavoro inumani sono le immediate conseguenze di queste innovazioni tecnologiche governate da calcoli. Dunque nel progetto di Folci l'ostensione degli striscioni era soltanto una parte e nemmeno la più complessa, sebbene la loro messa in opera era stata molto complicata. Questi erano stati esposti all'ingresso della Città Universitaria, due sulla facciata del Palazzo del Rettorato e altri in vicinanza dell'ingresso secondario del campus e sulla terrazza del Rettorato lì dove si affacciavano le sale espositive del museo universitario. La parte centrale del campus era stata transennata e al suo interno erano stati collocati dei grossi involucri cuboidali blu, posti su pallet in legno. Un carrello elevatore governato da un operatore lavorava all'interno del quadrato recintato, trasportando incessantemente i grossi volumi da un lato all'altro dello spazio a sua disposizione. I ritmi di lavoro dell'operatore erano governati da un contratto interinale stilato dall'artista e controfirmato dal prestatore d'opera secondo i termini legali vigenti all'epoca e secondo un trattamento economico derivato dagli accordi che regolavano il lavoro occasionale. Il quadrato di campus era transennato da una recinzione invalicabile per il pubblico che quindi poteva soltanto osservare il lavoro che si svolgeva all'interno. Su un palo dell'illuminazione era stata agganciata una telecamera che inquadrava la scena e trasmetteva le immagini del lavoro compiuto all'interno dello spazio chiuso dalle transenne. Le immagini catturate dalla telecamera a circuito chiuso erano visibili su un monitor installato all'ingresso della galleria al pian terreno del palazzo del Rettorato. Questa galleria era stata chiusa quasi del tutto e ridotta ad un singolo loculo di controllo molto simile alle guardiole di sicurezza in uso nelle aziende per verificare che non ci siano intrusi negli spazi adiacenti o che non capitino incidenti. Su alcuni banchi erano poi i documenti che attestavano la veridicità del lavoro che si svolgeva en plein air nel campus e i relativi contratti intercorsi fra i due attori, il richiedente - l'artista -, e il prestatore d'opera.
In questa esposizione l'artista rendeva evidente le condizioni del lavoro precario e attraverso gli striscioni palesava la complicità condivisa socialmente e politicamente con le ingiustizie in cui versava il mondo del precariato. L'effetto kanban di Mauro Folci era anche nello sdoppiamento della sua stessa identità; da una parte era colui che rappresentava il fruitore dei sevizi lavorativi, operando attraverso una contrattualità che evidenziava l'inanità della costrizione produttiva, privata dalle garanzie essenziali ma consentita dalle norme legali; dall'altra invece biasimava se stesso poiché richiedente di un servizio lavorativo effettivamente sottoposto a condizioni disagiate e ne rendeva conto attraverso l'evidenza di quello stigma "kadavergehorsam".
Di questo e delle condizioni della precarietà intellettuale avevo lungamente discusso con Mauro Folci e con lui, Alberto Zanazzo e Roberto Annecchini avevamo da poco realizzato una mostra, sempre su queste tematiche dall'emblematico titolo Vita Activa, che Folci stesso aveva proposto (4).
Il problema che si poneva allora era già lo stesso che appare irrisolvibile adesso, ancora oggi non è soltanto identico ma è anche inviolabile, censurato. Se vent'anni fa si poteva ancora parlare di una visione della differenza oggi questa possibilità non è più data, non esiste alcuna possibilità di mettere in discussione ciò che ieri era ed è ancora oggi il nemico numero uno. Ha un nome che finge di essere seducente ma è il tiranno indiscutibile che si insinua e anima le speranze di successo di tutti come un biglietto della lotteria e ci rende colpevoli e complici del turbo capitalismo avanzato e tecnologico: il liberismo.
Il liberismo è l'arretramento dello Stato che conserva le sue sembianze in maschera e che in realtà si offre al pubblico sotto mentita forma autorevole; la sua sostanza è quella dell'agenzia e nella sua istanza più sovrana è un garante di controllo con poteri risibili nei confronti delle multinazionali e dei giganti economici. L'arretramento dello Stato, in particolare a scapito di quelle forme di difesa e garanzia civile, non è di certo un fatto recente. Dai giorni dell'utopia dell'immaginazione al potere e del successo dell'Internazionale Situazionista, tramutatasi nella sua sconfitta in forma pseudo rivoluzionaria, la sottomissione degli affari sociali e politici al dettato insindacabile del liberismo ha lentamente eroso ogni campo d'azione attribuendo ogni responsabilità alle ideologie. Questo processo si è tramutato in una valanga di consensi e dagli anni Novanta in poi ha poi tramutato la scena politica nel coro solista della politica liberista, sino al suo compimento totalizzante nei giorni che viviamo. Ma cosa significa liberismo oggi? Il termine non deve trarci in inganno, non si tratta di libertà, il liberismo di oggi, chiamato comunemente neoliberismo ma che forse potrebbe dirsi più propriamente iperliberismo, non ha nulla di ciò che era nella sua legittima fondazione. Il liberismo di Adam Smith era anche il rispetto del lavoro (5). Certo, si dirà, era una forma di conclamata ineffettualità interventista del potere politico, ma nello stesso tempo recitava il suo rispetto per la produzione del singolo, per l'intelligenza creativa, per l'azione imprenditoriale. Il liberismo di oggi è una forma capovolta di ciò che era nelle idee del suo padre teorico. Quello di oggi è l'ibernazione dei privilegi contabili dei ceti parassiti improduttivi, delle conventicole private nascoste dietro i valori cibernetici dei loro schermi multipli nelle sale delle transazioni finanziarie in cui persino i codici dei tracciati esistenziali, scambiati per via digitale, assumono i connotati di merci di cui appropriarsi. Il liberismo di questi ultimi venti anni è il satrapo che si nutre con ferocia delle residue libertà e garanzie civili.
La mostra Effetto Kanban poneva sul piatto la diacronia esistenziale che era ed è di tutti. Della politica che in nome del liberismo si è affrettata a disconoscere ogni parvenza di remora sociale per cui oggi nessuno può dire di non essere per il liberismo sovrapponendolo alla libertà democratica. Delle parti sociali che attente a non scadere nel vintage ideologico della giustizia sociale parteggiano per il consociativismo che privilegia le garanzie di chi le ha già. La scritta Kadavergehosam offendeva ieri la supremazia dell'intellighentia che si è affrettata a nascondere quella che riteneva un'accusa a se stessa perché consapevole di sottoporre allo sfruttamento privo di garanzie una manovalanza spicciola che la rendeva più forte. E la manovalanza intellettuale era complice anch'essa del suo stupore pessimista, per dirla alla George Sorel, tremebonda e codarda di fronte a qualsiasi potentato poiché sottoposta alla convinzione che non possano esserci risposte ad un totalitarismo così efficace, quale quello dei tecnocrati, se non quella di equipararli. I quali tecnocrati nel frattempo, pessimisti anche loro, hanno affidato al controllo della mondializzazione, che è uniformità di un unico punto di vista tecnico, le loro armi spropositate. Basti vedere su quali sofisticate tecnologie si basi adesso il controllo, da cui possono sfuggire solo casi isolati, pazzi esaltati, mai associazioni che avanzino richieste di dialogo. Contro costoro il liberismo schiera plotoni d'esecuzione in cui le teste di cuoio del sistema unico sono racchiuse nelle loro corazze da tartarughe ninjia, inscalfibili. Squadroni blindati sordi all'umanità contro studenti, dimostranti e dissenzienti. E in USA, patria del liberismo più aggressivo, forze di polizia sempre più simili a battaglioni in assetto di guerra. L'obbedienza cadaverica che rinchiude alcuni ceti intellettuali nel guscio perlato da cui è molto più educato non fuoriuscire si nutre delle disuguaglianze e delle malversazioni compiute nel nome del liberismo. Che incide e scava nelle coscienze sino a preservare l'ingenuità dell'innocenza anche in chi usufruendo dei poteri obbedisce alla regola che vuole premiare l'inanità all'azione, l'obbedienza cadaverica, sapendo di favorire, banalmente, la prelazione del male. Quel giorno di venti anni fa nessuno ha osservato l'operatore avvinto nel suo lavoro inutile, alienante, ma chi ha scelto ha voluto lasciarlo lì nella sua solitudine cancellando il segno che stigmatizzava la colpevolezza di chi assisteva alla messa in scena.
Le tematiche politiche associabili all'azione di attivismo dell'arte di Mauro Folci non sono quelle svaporate e fuorvianti che adesso vanno tanto di moda e che forniscono per lo più materiale per pessimi libri. Si trattava di mettere in scena attraverso l'identità dell'artista l'attitudine all'uso speculativo e allo stesso tempo l'auto implicazione dell'autore come forma sostanziale e veicolare di possibili complicità con le forme scadenti del potere politico. Si trattava di spostare il teatro dell'opera dal visuale al contestuale, mettere in scena la complicità dell'esercizio lavorativo nella complessa identità della produzione nel mondo liberista, epurato dalle ideologie. L'autore, l'artista, che si basi sull'uso del lavoro altrui può permettersi eticamente di blandire la falsità del mondo? Può l'artista sentirsi estraneo alle complicità col sistema dello sfruttamento basilare nell'iperliberismo attuale se lascia che siano oscuri e sconosciuti prestatori d'opera a realizzare fattivamente i lavori che poi espone, vende e lo rendono brillante come una star del consumismo pop? E può un artista svestire i panni del suo habitat borghese e dare lezioni di artivismo al mondo, separando il suo credo dal suo esserci? Non può esserci valore in un'arte che non sia eticamente comprovata dall'essenza stessa dell'esistenza d'artista. La corruzione intellettiva smerciata da troppa arte contemporanea è causata dall'ipocrisia di chi paventa la luce della rivelazione e nel frattempo esercita lo sfruttamento altrui.
Ma in cosa può legarsi il pensiero della Arendt nella Banalità del male al contesto specifico di quegli anni già lontani? Il testo della filosofa viene redatto in occasione del processo Eichmann nel 1961 a Gerusalemme. L'autrice ne seguiva il dibattimento in veste di corrispondente per The New  Yorker che pubblicò la corrispondenza nel 1962 e successivamente come libro nel 1963 (6). Il tema centrale è quindi la cronistoria di un processo sui crimini di guerra compiuti da un alto esponente del regime nazista, reo confesso di aver elaborato metodicamente e con estrema disciplina teutonica l'organizzazione del trasporto verso i campi di prigionia di centinaia di migliaia di ebrei e altri prigionieri; zingari, oppositori politici, minoranze sgradite al regime, il tutto nella consapevolezza che costoro andavano verso una morte certa o nel migliore dei casi verso la schiavitù come merce funzionale al meccanismo della "soluzione finale" vagheggiata da Hitler. Ma naturalmente poiché la Arendt non era una semplice cronista il suo reportage del processo avvenne congiuntamente ad una serie di osservazioni concettuali sull'identità e sulla coscienza di chi praticava una simile attività, soprattutto in relazione al caso specifico di Adolf Eichmann il quale ad ogni richiesta della corte se si considerasse colpevole rispondeva "non colpevole nel senso dell'atto dell'accusa". Eichmann si considerava non colpevole dei capi d'accusa poiché "estraneo materialmente alla liquidazione degli ebrei o di qualsiasi altro essere umano" nell'ambito dei piani speciali per la pulizia etnica nazista (7). Spesso l'imputato, che viene descritto contornato da un'aura di distaccata malinconia e indifferente al contesto, richiama l'attenzione su determinati passaggi linguistici dell'accusa e durante l'interrogatorio corregge le parole della corte sostituendole con termini "gergali" che falsificavano il senso specifico delle azioni compiute. Così ad esempio la gassificazione di gruppi compositi di prigionieri veniva descritta nei documenti burocratici che Eichmann stesso compilava per avviare i trasferimenti con termini quali "trattamento speciale", "evacuazione" (8). In questa realtà, in cui la verità dei fatti era rimodulata attraverso una ingegneristica burocrazia lessicale, Eichmann sosteneva di non essere responsabile se non per aver mancato qualche obiettivo nella pianificazione, di cui palesava un contorto dispiacere. L'assurdità di tutto il processo, che doveva svolgersi secondo i lemmi legali, risulta enfatizzata dal fatto che lo stesso imputato a sua discolpa aveva più volte dichiarato che egli piuttosto che colpevole era stato un semplice esecutore e che la sua fosse stata semmai dedizione al dovere. Per chiarire la faccenda Eichmann dopo aver sottolineato la sua correttezza di fronte alla legge e per rendere palese di quanto fosse "onesta" la sua posizione aveva usato un termine che descriveva la sua obbedienza totale, quindi priva di volontà personale; egli era devoto ad una obbedienza cieca, una obbedienza cadaverica precisò egli stesso, kadavergehorsam. Sebbene inoltre egli fosse consapevole di aver avuto un ruolo tutt'altro di secondo piano nell'organizzazione e nella realizzazione dell'Olocausto si auto rappresentava come fosse un singolo funzionario estraneo al contesto e persino  consapevole, a suo dire, di aver lavorato secondo i principi dell'etica kantiana. Dimenticando, come scrive la Arendt "che l'etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell'uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza" (9).
La scritta Kadavergehorsam di Folci era quindi un palese richiamo esattamente a questo; la facoltà dell'individuo di discernere sulle proprie azioni e l'implicita condanna di chi esegua ciecamente gli ordini se consapevole che le sue azioni siano foriere di una partecipazione al male. L'obbedienza cadaverica di Eichmann che egli espone a discolpa della sua partecipazione meticolosa alla realizzazione di un crimine assoluto è quindi una falsificazione oggettivata dal linguaggio e conduce ad azioni consapevolmente condotte oscurando la radice veritiera del senso comportamentale. In Effetto Kanban Folci rivolgeva l'attenzione a fatti non così gravosi e individuabili ma ad un agire che anche nel contesto lavorativo aveva reso colpevoli coloro che mascherati da semplici passacarte nutrivano l'ingiustizia ed erano comunque l'anello che permetteva l'esecuzione del male. Un male che nasceva anche da un passato remoto cui pochi avevano prestato attenzione. In particolare l'ambito socio politico italiano ha sempre evitato di fare i conti con un passato ignominioso. Nella storia recente è mancato un autentico movimento di elaborazione delle responsabilità collettive nei confronti del regime fascista, molto più di quanto non sia successo altrove, e specialmente in Germania. Gli italiani hanno felicemente superato quel brandello di storia con la semplice cancellazione delle loro responsabilità. Ma le folle plaudenti del Ventennio trasformatesi come per incanto in altrettante adunate di vittime cariche di biasimo per la distorsione di un destino preannunciato e terminato in rovina, come si sono riscattate? Quanti hanno elaborato coscientemente quel male che invece di condurre al grande impero ha precipitato l'Italia nella succubanza politica di sconfitti? In Linguaggio è guerra Fabio Mauri si era preoccupato di sottolineare di come le istanze estetiche maturate durante il Ventennio fossero state improntate ad un senso del bello e dell'ordine di cui le parate e le rappresentazioni erano momenti essenziali. In ciò si legge bene quanto la superficie dell'immaginario dell'individuo medio fosse corrotta da un linguaggio falsificatorio in cui rientra perfettamente l'idea di obbedienza cadaverica, la partecipazione attiva ad un contesto mefitico di cui si vuole sconoscere il reale intendimento e oltretutto causa di una rimozione di quel male collettivo che non si vuole rinnegare perché non lo si è mai elaborato (10). La partecipazione al male collettivo rifluito nell'Effetto Kandan non nasce quindi improvvisa ma è frutto di rimozione storica nell'organismo vivente della società italiana la quale continua a percepire se stessa come parte di un buonismo elegiaco e sorridente perché invalidato alla memoria, quindi organismo incapace di personalità reale, incompleto. E da qui deriva la radicalità della denuncia politica.
Certo, si dirà che le ingiustizie sul lavoro evidenziate da Effetto Kandan di Folci non siano equiparabili alla costituzione di un sistema così profondamente inumano quale quello del regime nazista attento a realizzare il suo folle disegno ma anche a limitarne gli oneri finanziari attraverso un meccanismo talmente crudele da renderci attoniti ancora oggi. Ma, ed è questa la lettura più aderente alla verità che mi riesce di fare, l'atteggiamento di adesione assoluta al potere non può renderci innocenti dal suo effetto finale. Questo è costituito dalla somma del male compiuto dalle singole azioni frammentate e cristallizzate negli esiti drammatici di un agire collettivo che vuole narrarsi come privo di responsabili. Il raggiungimento degli obiettivi finali del potere è il frutto di quei singoli gesti che si compiono e di cui siamo responsabili. L'obbedienza cadaverica è ciò che vuole il potere, tuttavia ci si indigna quando un nutrito plotone di guerrieri di Stato frantuma a colpi di manganello un ragazzino capitato sotto quella macchina da guerra, ci si indigna quando si dichiara guerra ad un paese e si descrive il tutto con la falsificazione linguistica di "operazione militare speciale"; ci indigna vedere che le manifestazioni di protesta in paesi non democratici conducono ad impiccaggioni pubbliche. Si tratta sempre di fatti che traslano le responsabilità del male compiuto verso l'apice del comando ma l'azione è sempre frutto di scelte consapevoli che attengono al singolo individuo (11).
Come scrive Massimo Mazzone nel suo intervento sul libro Mauro Folci. Vacanze curato da Anna Cestelli Guidi, Mauro Folci era un artista già affermato e ben quotato nel mercato degli anni '90 ma nel corso di quel decennio ha volutamente intrapreso un percorso estraneo al sistema dell'arte commerciale. Come precisa Mazzone il rifiuto categorico per quel sistema non poteva passare attraverso l'esibizione di oggetti, che peraltro gli riuscivano molto bene, ma sentiva adeguato forgiare il suo lavoro attraverso un modello etico svolto in autoproduzione e con il fine di manifestare solamente fatti e azioni (12). In quegli anni il suo maestro di studi, Fabio Mauri, mi confidava infatti con una punta d'orgoglio che il suo talentuoso allievo Mauro Folci era diventato un "nobile" artista portando ad estreme conseguenze alcuni suoi insegnamenti, e lo diceva anche con un pizzico di benevola invidia, mentre Folci nel frattempo era inseguito da alcuni galleristi che disapprovavano quelle scelte così radicali. Una nota gallerista che a Roma era stata nevralgica nel sistema di quegli anni, Mara Coccia, incontrandomi in più di un'occasione lamentava l'ostinazione di quel suo prediletto che impavidamente si era sganciato dall'idea della mostra statica e che, a suo giudizio, doveva essere ricondotto alla ragione. Lo diceva affranta, era commossa dall'ansia di volerlo salvare da quel limbo da scalmanato in cui, diceva, si era cacciato. Ma il senso e la veridicità del lavoro di Folci è in questa traiettoria, l'aver assunto la forza intellettiva dell'insegnamento di Fabio Mauri per superarla, portandola ad una forma di inconciliabilità con l'oggetto da ammirare e trasponendola fisicamente all'interno dell'azione da vivere. Così Effetto Kanban risuona come luogo centripeto fra le molte altre azioni poiché vive nell'assunzione di responsabilità e non la si depone nell'estroflessione visiva e contemplativa. Qui la mostra diveniva atto performativo in cui persino l'artista era trafitto dalle nebbie della complicità, tale da segnare quell'ambiguità che rende ciascuno di noi vittima e carnefice, kadergehorsam in varia gradualità. L'artificio è una luciferina body-art della mente e ci spinge all'alienazione analitica o al rovescio, come direbbe l'artista Pasquale Polidori, allo sproloquio dialettico per tentare di ripescare nella coscienza la nostra impossibile innocenza.
Proprio per questo Effetto Kanban non potrà che continuare ad essere la "mostra censurata".

Gennaio 2023

1) Effetto Kanban di Mauro Folci, a cura mia, inaugurata il 5 dicembre 2002 presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma.
2) Gli striscioni con la scritta kadavergehorsam erano già stati presentati in un evento pubblico durante la mostra-azione con lo stesso titolo a Rieti nel 2002.
3) Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano, 2002 (I ed. it. 1964) (ed. or. 1963, 1964). Sul tema di Male e bellezza aveva lavorato molto Fabio Mauri e con questo titolo aveva inaugurato una delle sue prime più importanti mostre internazionali presso la Kunsthalle di Klagenfurt.  Cfr. Fabio Mauri, Male e bellezza, cat. mostra a cura di Arnulf Rohsmann, Kunsthalle Klagenfurt, 1997.
4) Vita Activa, un progetto di Roberto Annecchini, Mauro Folci, Domenico Scudero, Alberto Zanazzo, Change-Studio d'arte contemporanea, Roma, 21.02.- 03.04.2002. Il titolo dell'esposizione si riferiva al testo di Hannah Arendt, Vita Activa, ed. or. University of Chicago, U.S.A., 1958 (trad. it. R.C.S. libri, Milano 1964), mostra realizzata nello studio abitazione di Roberto Annecchini in via Santa Chiara, Roma, nel mese di febbraio 2002.
5) Ne ho scritto specificamente in, "L'oscura luce del liberismo. Rivalutare l'arte con Adam Smith", in unclosed n.5, gennaio 2015, <<https://www.unclosed.eu/rubriche/sestante/esplorazioni/78-l-oscura-luce-del-liberismo.html>> . Sull'inanità del pensiero critico del nostro tempo è il celebre testo di Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, trad. it. Garzanti, Milano, 1992 (ed. aggiornata Raffaello Cortina editore, Milano, 2013) (ed. or. Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp Verlag, Berlin, 1983), in cui si parla del cinismo come strumento antilibertario; "Il concetto di libertà, come il Grande Inquisitore ben sa, costituisce il cardine di ogni sistema repressivo: tanto più questo è repressivo (inquisizione ecc.) tanto più martellante dev'essere sparata nelle teste la retorica della libertà" (pag.107). Concetto che può riferirsi dialogicamente al sistema economico della "libertà" o ai vari partiti politici della "libertà" in cui a voler essere generosi l'unica libertà è quella del profitto e l'unica realtà è quella dello sfruttamento delle risorse in favore di pochi e a discapito di molti.
6) Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, op. cit. pag 29.
7) Ibid., pag. 31.
8) Ibid., pag. 93. Cfr. anche Fabio Mauri, Male e bellezza, op. cit.
9) Ibid., pagg. 142-143
10) Sulle falsificazioni del linguaggio era basato un ciclo di lavori di Fabio Mauri dal titolo Linguaggio è guerra, (1975).
11) Sul tema della libera coscienza individuale sempre Fabio Mauri aveva realizzato una mostra dal titolo Pic Nic o il Buon Soldato, cat. mostra Castelluccio di Pienza -La Foce (Siena) a cura di Plinio De Martiis, Editrice Donchisciotte, Cortona, 1998. Vedi anche: Fabio Mauri, La memoria simbolica - Il Muro Occidentale o del Pianto e Rosa Bianca, cat. mostra a cura di Massimo Riposati, Diagonale, Roma, 2000.
12) Massimo Mazzone, "Mauro Folci: omnia fui et nihil expedit", in Mauro Folci, Vacanze. Il generico, l'incompetente,l'inutile tra il 1996 e il 2017 a cura di Anna Cestelli Guidi, Quodlibet, Macerata, 2018. Il testo nato a seguito della mostra di Folci Vacanze presso l'auditorium Parco della Musica di Roma nel 2017 analizza le opere realizzate dall'artista dal 1996 al 2017.