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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Memoria storica e materia pittorica in Jean Fautrier

Patrizia Mania
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Nell’incommensurabile tragicità degli eventi, la voragine in cui precipita l’umanità nel corso della seconda guerra mondiale si condensa in una testimonianza eccezionale nel ciclo di opere sugli Otages di Jean Fautrier. Guardando oggi a queste pitture in cui la tensione testimoniale si salda a quella morale, non si può in primo luogo non riconoscervi l’attualità di un monito contro l’inferno dell’insensatezza laddove esso continui ad apparire davanti ai nostri occhi.
Ripensare dunque oggi, a distanza di quasi sessant’anni dalla sua morte, a Jean Fautrier (Parigi, 1898 – Châtenay Malabry, 1964) come al “pittore della memoria” (1) del ‘900 per eccellenza è in primo luogo un modo per ricordarne l’importanza storica ed anche per ribadire la straordinaria portata del soggetto e delle invenzioni tecniche che accompagneranno e, per certi versi finiranno per identificarsi con gli Otages, la sua serie pittorica più famosa realizzata tra il 1942 e il 1943.
Non c’è dubbio che gli Ostaggi abbiano rappresentato il momento più alto dell’attenzione della critica su Fautrier. Proprio per questo vi fu l’inevitabile attribuzione al soggetto della novità tecnica, nonostante le ricerche in tal senso fossero precedenti. Ne dà conferma Michel Ragon scrivendo che Fautrier nel trovare il suo soggetto si garantì la delineazione del suo stile (2).
Ricostruendone la genesi, va detto che il problema della nuova tecnica adottata sul quale la critica ha particolarmente insistito e che farà di lui uno dei pionieri della poetica informale è anticipato dalle ricerche portate avanti già qualche anno prima. L’abbandono della pittura a olio da parte dell’artista va infatti fatto risalire al 1940, anche se sarebbe più esatto dire che a quella data, attraverso l’invenzione di un nuovo mezzo, la pittura gli ridivenne possibile. Alla nuova materia si accompagnò via via una nuova immagine lontana dai precedenti figurativi che avevano fino a quel momento maggiormente contrassegnato la sua produzione. Ma il passaggio non fu immediato.
Se si escludono i primi quadri non figurativi dipinti con discontinuità (le prove del ’28 messe a punto per un corredo di illustrazioni dell’Inferno di Dante (3) sono da ritenersi episodi sporadici), i lavori del ’40 – ’42 si richiamano con continuità nella scelta dei soggetti (“poissons” “végetaux”) alle opere precedenti. Di questi quadri sorprende innanzitutto la ricchezza cromatica che portò lo stesso Fautrier a parlare di una pittura “à grande orchestre” (4).
L’aver continuato a privilegiare le iconografie consuete, trova la propria ragione nella volontà di sperimentare i risultati conseguiti su temi e soluzioni formali familiari. In qualche modo, quindi, una verifica della tenuta dell’invenzione tecnica.
Nel giugno del 1942 si inaugurerà alla galleria A. Poyet di Parigi una sua mostra personale. I quadri esposti saranno tutti figurativi, soprattutto nature morte. La loro peculiarità è di essere tutti ricoperti di una vernice spessa con la quale l’artista otteneva effetti quasi di smalto. È l’annuncio della strada intrapresa che lo stava portando a realizzare opere dalla pasta pittorica spessa. “Hautes pâtes” saranno in seguito definite nella nomenclatura dei caratteri propri alle ricerche dell’Informale, mutuando dal titolo di alcune opere di Jean Dubuffet.
Nel recensire questa mostra Georges Turpin scrive:
Jean Fautrier suggère plus qu’il ne copie la nature. Il évoque non seulement les formes, mais les sensations qu’elles peuvent faire naître. Sans perdre le contact avec la vie, il domine celle-ci de si haut qu’il a recrée à sa fantaisie et avec tant de puissance secrète, avec tant de ferveur, qu’il atteint les sommets de l’Art. Poissons, fruits, paysages, figures nues, qu’importe! Ce ne sont plus pour Fautrier que des prétextes à la création lyrique” (5).
Che in questi quadri fossero contenute le potenzialità future è già dunque intuito da qualche critico. Nella serie “Les artistes au travail” della rivista Comoedie René Barotte pubblica il 24 luglio del 1943 un articolo su Fautrier al lavoro, in cui scrive:
                 “En travaillant Fautrier voulut bien m’inviter au secret de son travail. Tout à l’heure je n’étais étonné de la matière dont était peint son dernier tableau qui avait la solidité de la fresque. Plus je regardais cette oeuvre, plus je songeais à l’enduit que les primitifs italiens obtenaient en mêlant des poudres écrasées. Lui, Fautrier, pour obtenir cette solidité picturale, n’avait pas hésité à mêler du pastel, de l’encre, de l’huile. Il me montra quelques-uns des grands morceaux qu’il destine à une exposition prochaine. Je ne doute pas que certaines de ces pièces maîtresses ne soient une révélation” (6).
Qualche mese dopo l’articolo di Barotte, un’ottantina di opere di Fautrier saranno esposte, tra il novembre e il dicembre del 1943, alla galleria René Drouin, 17, Plâce Vendôme (7),
Nella mostra vengono presentate quasi cinquanta pitture, alcune sculture, alcune incisioni (illustrazioni tratte dall’”Enfer”, “Lespugue”, e “Orénoque” (8)) e dei disegni. Le opere datano dal ’15 (anche se di questa data è solo un disegno a matita) al ’43. Secondo Crispolti, queste opere si presentano “con un’estrema corrosione dell’oggetto stesso, al punto da trasformarsi in concretezza di materia più che in evidenza di immagine. Tuttavia nel senso appunto, come ha scritto Barotte, di un antico affresco, fra realtà iconologica e corrosione del supporto materiale della stessa” (9). È ancora Crispolti a scrivere, a proposito della mostra da Poyet e di quella da Drouin, di “scelte premonitorie” del futuro affermarsi dell’Informale (10).
La mostra tenutasi da Drouin viene presentata da Paulhan che individua già in queste opere quell’”ambiguité”, manifesta poi negli Otages che “se fait peinture” (11).
Il 24 dicembre 1943 viene riportato su Beaux Arts il testo di un’intervista a Fautrier nel corso della quale si chiede all’artista che cosa le sue opere rappresentino:
je pretends suggérer une realité” risponde Fautrier che aggiunge “C’est un paysage. Personne de sincère ne peut se refuser à voir ici des arbres, l’architecture dramatique des arbres, à la lisière d’une forêt. On sent qu’il y a au delà une colline, puis une clairière et la lumière filtre au travers de feuillage, même si la feuillage n’est pas figuré, car l’absence est plus éloquente que la présence. Je peins la lumière indépendamment des objets. C’est ainsi que je voudrais faire le portrait d’un lieutenant des hussards français ou d’un torero. Mais un torero sans broderies et sans chapeau, sans l’anedocte et – d’un revers de main – l’orateur balaye ces superfluités, sans ce pittoresque qui n’est pas dans mon tableau, mais qui s’y trouve tout de même” (12).
Dunque, se da un lato Fautrier avviò la ricerca tecnica per realizzare opere con “paste altissime”, come lui stesso disse (13), dall’altro volle, con questo procedimento separare il disegno dalla materia pittorica. Anche se, a qualificare la materia, spazialmente e temporalmente, rimane comunque il disegno. Quasi sempre la materia si rapprende lontano dal contorno dell’oggetto. E qui, per oggetto, si deve intendere il profilo di una forma, il rinvio alla “realtà” che, nei suoi dipinti, non cessa mai di essere suggerito. Non solo dal mantenimento della forma dell’oggetto, ma anche dai tratti brillanti di colore qui e là incagliati nella pasta compatta, si deriva infatti la presenza irrinunciabile per l’artista della “chose vue”.
Si è parlato di “forma” e l’uso di questo termine mal si concilia con la qualifica di “informel”. Ma l’Informale di Fautrier non è assenza di forma: è forma “defigurée” (14), ma sempre forma. Tornando al disegno, scrive Robert Droguet: “Il y a trois choses dans un tableau de Fautrier: premièrement le fond; secondement la plâtre; troisièment le trait” (15). Per ultimo viene il disegno che, infatti, appare tracciato da inchiostri e colori ad olio sull’impasto. Ma il profilo della forma è operazione prima, poiché il pittore, dopo aver incollato sulla tela il foglio di carta, tracciava a larghi tratti di inchiostro, la linea di contorno, per poi stendere sulla carta quella pasta materica che chiamava “enduit”.
Da un altro punto di vista, tenendo presente il processo operativo seguito – prima la creazione di uno spessore di materia e poi il tracciare il profilo dell’immagine che si offre come disegno – Fautrier sembrerebbe proprio aver voluto far nascere la vita dall’inerzia della materia.
“Fautrier crée oeuvres comme se forme l’embryon dans le ventre de la mère” scrive Jacques Darriulat in un articolo apparso su Combat nel 1971 osservando come motivo di rimprovero da parte di quanti osteggiavano la sua arte fosse spesso proprio la contraddizione che oppone il trattamento brutale della pasta all’estrema finezza del tratto (16).
Tornando agli Otages, nel 1945 all’indomani dell’apertura della mostra, così scriveva Antimoine Chêvalet: “Per la prima volta dopo la Liberazione un pittore ci presenta un complesso di tele ispirate alla crudeltà della guerra, a ciò che essa ha di più atroce: la mutilazione dell’uomo, gli ostaggi, i mutilati, i torturati” (17). In questa occasione saranno appunto esposti gli Otages, una serie di opere dal soggetto identico. Un’insistenza quasi ossessiva sul tema - solo nel titolo qualche numero distingue l’una dall’altra le “Têtes d’otage” - che Fautrier giustificò con queste parole “On ne pouvait pas peindre des pommes”( 18) .
Dopo gli Otages, con Partisan Budapest 1956 Fautrier tornerà ad affrontare il tema della memoria del presente confermando una sua partecipazione ancora prima che politica, etica. In entrambe le serie, frammenti di corpi martoriati impastati ad una pittura ad alto impasto materico e dipinti con furia - con “rage” specificheranno poi Paulhan e Ponge due dei suoi principali esegeti (19) - configurano testimonianze pittoriche tra le più vibranti e meno didascaliche della crudeltà della guerra e della sopraffazione.
Presentati con grande clamore in una personale alla galleria René Drouin nel 1945 (20) come si è già detto, gli Otages fanno leva su un’esperienza di realtà vissuta dall’artista in prima persona. In uno dei periodi più cupi della storia francese, durante l’occupazione nazista, Fautrier, perseguitato come molti artisti e intellettuali dai tedeschi (21), fuggirà da Parigi trovando rifugio nei suoi dintorni presso la Vallée-aux-Loups nell’antica dimora di Chateaubriand trasformata in una casa di cura. Ma la quiete del luogo non tarderà ad essere drammaticamente interrotta dai colpi sordi dei fucili dei nazisti che nel boschetto proprio a ridosso della tenuta giustizieranno alcuni ostaggi. La traumatica esperienza della morte di queste efferate esecuzioni venne tradotta da Fautrier in pittura attraverso grumi di materia e di carne che restituiscono per frammenti i corpi martoriati: testualmente gli Otages. “Une hiéroglyphie de la douleur” la definisce André Malraux presentando in catalogo la mostra da Drouin e riferendosi alla scelta dell’artista di semplificare nell’immagine il tratto e il colore. Sebbene rimarchi da subito un tratto poi condiviso in quasi tutte le letture critiche che se ne faranno e cioè di come il colore, nei suoi tenui toni, non sembri essere il più adatto alla tortura presentata “des couleurs libres de tout lien rationnel avec la torture”.
Sommes-nous toujours convançus? Ne sommes-nous pas genés par certains de ces roses et de ces verts presque tendres, qui semblent appartenir à une complaisance (frèquente chez tous les artistes) de Fautrier pour une autre part de lui-même? […] Ou ces images, pour certains les moins convainquantes, sont-elles précisément celles où s’élabore dans une solitude provisoire l’accent décisif d’un artiste?”(22).
Si è tutti concordi nel retrodatare gli Otages agli ultimi mesi del 1942, inizi del 1943 nonostante la data appostavi sia spesso successiva. Fautrier, come si è detto, perseguitato durante l’occupazione tedesca, depositò le sue tele presso degli amici e, per ovviare al pericolo di venire da esse compromesso, non le datò, né le firmò. Le daterà e le firmerà tutte dopo la Liberazione.
Marcel Arland, recensendo la mostra, si chiede:
Mais ces moyens d’expression, sont-ils des moyens propres à la peinture? Les Otages nous font songer à la figuration en creux et en bosses des paysages. Ils relèvent des bas-reliefs. Ils procèdent, pour une bonne part de la sculpture, où Fautrier a conduit une de ses investigations les plus curieuses” (23).
Un lato scultoreo dell’arte di Fautrier già osservato da René Barotte:
                     “Tandis qu’il était penché sur la toile maçonnante des valeurs en pleine pâte, jamais je n’ai mieux senti quel rapport étroit peut parfois exister, entre la peinture et la sculpture” (24).
A presentare la mostra è, come si è già ricordato, André Malraux, che individua la chiave di lettura degli Otages non a caso nell’Otage scolpito. Scrive che “più che dai quadri di Fautrier, queste figure derivano dalla sua scultura che ha trovato, nel supplizio, quello che essa ha cercato invano: un mezzo di incarnazione” (25).
Dopo la scultura in ottone patinato dell’Otage, Fautrier non scolpirà più. Non sarà il primo né l’ultimo pittore a praticare la scultura. La tradizione francese dell’800 annovera i nomi di Daumier, di Degas e di Gauguin e sarà continuata nel secolo successivo da Matisse, Derain, Braque (26) fino a giungere alle prove di Dubuffet e di Fautrier e oltre.
Nel catalogo steso da Edwin Engelberts delle opere incise e delle opere scolpite da Fautrier si contano ventuno sculture (27). La pratica scultorea iniziata come già detto da Fautrier sul finire degli anni ’20 corre su binari paralleli alla ricerca pittorica. Il Grand Torse del 1928 si offre come corrispondente delle opere pittoriche che negli stessi anni l’artista propone nel tentativo di distruggere la forma nelle sue componenti di purezza, di levigatezza di superficie, di equilibrio.
La scelta di superare la figuratività anedottica è chiaramente indicata nella Grande tête tragique del 1942 dove metà del volto si presenta con una superficie scanalata, irregolare. Questa scultura è la diretta precorritrice della testa d’Otage scolpita. L’intenzione è quella di rendere la figura sempre più sfatta: nella pittura il risultato cercato è quello dell’immagine abbreviata di un martirio; nella scultura si dà concretezza materica a ciò che rimane della violenza subita. E qui non c’è dubbio che, la bellezza rilevata da Ponge nel “colorito” della pittura (28), mancandole il colore, abbia abiurato.
André Verdet sottolinea come gli Ostaggi abbiano sorpreso il mondo della pittura: mercanti, critici, amatori:
Ils déplurent à beaucoup: on les trouva ‘déplaces’ (quel hommage indirect) – scrive – à l’opposé du goût et l’aise. On leur reprochera encore leur aspect série, qui n’était, en realité, qu’une exemplaire unicité” (29).
La ripetizione quasi ossessiva dello stesso soggetto è tuttavia affrancata dagli écrivains di Fautrier dall’accusa di generare monotonia. Come scrive Antimoine Chêvalet “è l’insieme che siamo chiamati qui a vedere e non c’è possibilità di isolare ogni singola tela, è il complesso che conta” (30).
C’è tra gli Ostaggi, Oradour, firmato e datato 1944, che fu dipinto nei giorni immediatamente successivi al massacro di Oradour sur Glane avvenuto il 10 giugno 1944. Qui il profilo della forma è replicato più e più volte come se si trattasse di un gioco di specchi ed è l’unico quadro della serie a presentare più figure, quasi sintetica proposizione della serialità del tema.
Michel Tapié, il critico militante che ha sostenuto con il suo libro manifesto Un Art Autre, où il s’agit de nouveaux dévidages du réel uscito nel 1952 (31) l’avvento dell’arte informale aveva fornito un’anticipazione del suo pensiero nell’articolo “Tendances actuelles de la peinture française” pubblicato l’anno precedente. È qui che delinea uno schema storico dell’affermazione dell’Informale a Parigi nella metà degli anni Quaranta individuando come propositori di “quelque chose de nouveau” gli stessi Fautrier, Dubuffet, Michaux che poi riterrà i realizzatori di quell’evoluzione “altra” già intuita da Tristan Tzara nei suoi manifesti Dada. A proposito degli Ostaggi scrive:
Fautrier, con circa venticinque anni d’esperienza dietro di sé, in assoluta consapevolezza di un mestiere dalle complesse possibilità, ci consegnava delle opere liberate da ogni effetto estetico caro agli amatori, ma cariche di significato magico immensamente operante, e ciò per tutt’altra strada che quella delle consuetudini artistiche tradizionali che i movimenti modernisti si sono accontentati di violentare o di contrastare, ma mai di eliminare per comportarsi diversamente” (32).
Nel decennio successivo, l’attenzione su Fautrier si alimenta proprio dell’accento posto sulla tecnica e il progressivo riconoscimento della critica e del mercato lo condurranno, non senza polemiche, alla consacrazione avvenuta alla Biennale di Venezia del 1960. Tuttavia, almeno di sfondo, va rimarcato un percorso attraversato anche da contrarietà. Per Berne-Joffroy e Bucarelli (33) una certa “misconoscenza” della sua arte andrebbe peraltro attribuita al suo carattere definito “esasperante” e, ancora “insopportabile, arrogante, aggressivo, perentorio” (34).
Spostandoci sul versante della memoria, è bene sottolineare come la lettura in chiave bergsoniana della sua pittura sia stata la più frequentata.
Data al 1896 la prima uscita del saggio di Bergson Matière et mémoire, e lo stesso titolo, a distanza di quasi mezzo secolo, verrà utilizzato da Francis Ponge per un saggio contenuto nella raccolta Le peintre à l’étude pubblicato nel 1948 presso Gallimard.
Sebbene richiamato dallo stesso Ponge, l’insistenza sul binomio materia-memoria a proposito di Fautrier viene portata avanti soprattutto da due critici italiani che nel 1960, anno come si è detto della consacrazione dell’artista alla Biennale di Venezia (35), avranno modo di soffermarcisi in maniera peculiare. Di quell’anno è il saggio sviluppato in chiave bergsoniana da Giulio Carlo Argan Matière et mémoire (36) e anche l’uscita della monografia cui si è fatto richiamo più volte di Palma Bucarelli Jean Fautrier, pittura e materia (37). Restando in ambito italiano, seppure filtrato dalle comuni esperienze parigine, è importante sottolineare come in quegli stessi anni Fautrier avesse anche avuto occasione di conoscere Giuseppe Ungaretti. Tra i due si stabilì da subito un forte legame di stima reciproca ed amicizia e “Ungà”, come Fautrier lo chiamava nelle lettere, esprimerà una entusiastica ammirazione per la sua pittura. Per Ponente si tratterà di una “scelta faziosa” seppur collocabile all’interno di “quella faziosità progressiva” della grande “linea critica” a cui il poeta apparteneva (38). Una linea critica che, negli anni in cui conosce Fautrier, aveva in Paulhan, da Ungaretti spesso invocato in appoggio alle sue tesi, uno dei maggiori esponenti. Proprio Paulhan è verosimilmente l’intermediario dell’incontro con Fautrier avvenuto sul finire degli anni ’50 e che si declinerà sulla stima e sull’amicizia. Un’intesa confermata anche da un viaggio in Giappone che tra il novembre e il dicembre del 1959 i tre fecero insieme.
Il “miracolo” che agli occhi di Ungaretti compie Fautrier è quello di infondere all’opera d’arte una bellezza analoga a quella che colpisce da oggetti della natura, o da momenti o da fasi di fenomeni della natura” (39). Un’arte che per Ungaretti si manifesta come “se nelle sue viscere avesse sondato l’universo, e dell’universo avesse passato in rassegna, esaminandoli alla lente, in un baleno gl’infiniti aspetti” (40).
Nel ricordare Ungaretti alla Biennale di Venezia del ’60, Cesare Vivaldi ha scritto: “Ricordo il suo tifo accanito per Fautrier e le sue polemiche…contro l’action painting e l’arte e la cultura americana” (41). Il disprezzo per la cultura d’oltreoceano che fa da contrappunto all’entusiasmo per il Giappone è un altro elemento accomunante Fautrier a Ungaretti, insieme appunto al tema della memoria. Secondo Sobrero, ciò che li differenzia è il passaggio “da materia e memoria a memoria e innocenza” (42). Così come la scrittura di Ungaretti aspira a trovare l’innocenza attraverso la memoria; la pittura di Fautrier propone immagini di memoria come un “modo”, ha scritto Argan, “di coesistenza, di identificazione, di estensione di una propria sensibile fisicità ad una materia che viene così riscattata dalla sua inerzia, spazializzata e temporalizzata” (43).
Trattando dell’arte Informale, Argan sottolineava come essa operasse in una “condizione di necessità” che costringeva “a vivere con dentro quella materia insorta e minacciosa, a partecipare del suo ritmo vitale e a comunicarle il nostro, a sperimentare insieme l’orrore e l’incosciente bellezza” (44).
Per quanto concerne specificamente la “materia” di Fautrier scrive Argan:
non si semplifica ma va sempre avanti complicandosi, captando ed assimilando significazioni possibili, incorporandosi aspetti o momenti del reale, saturandosi di esperienza vissuta” e più avanti, “della coscienza e proprio nel senso tradizionale del cogito, quella materia tende a conservare perfino i simboli ogni volta tentando di costituirsi entro chiari schemi di coordinate (i quadrati, i rettangoli) o entro trasparenti generatrici di ritmo (le ellissi, le spirali) ; senz’altro costrutto però che di imprigionare nella pasta pesante e compatta del colore qualche scaglia o festuca brillante di quella che, anche per lui, Fautrie, era stata la realtà razionalmente spiegata, la bella e colorata natura” (45).
Lo stretto legame che lo avvince alla realtà impedisce alla sua pittura di aderire radicalmente al partito della materia, limitandosi a seguire le intenzioni di “cette pâte, bête, inerte, inutile” (46), abbandonarsi alla quale significherebbe perdere “la poésie de l’art la plus poétique qui soit: la peinture” (47).
La sua, differentemente dalla pittura materica di Dubuffet, è una materia raffinata. Per Droguet, il pubblico non ha torto a dire di fronte alle tele di Fautrier: “c’est joli, c’est exquis, c’est ravissant”, perché “oui, si l’on veut, Fautrier est bien un peintre du XVIII°, la soavité ne l’a jamais effrayé” (48). Dietro la “soavità” di Fautrier c’è infatti, come sottolineò Lorenza Trucchi, la civiltà artistica di un secolo, il ‘700: ci sono le croste di Chardin, i virtuosismi di Fragonard e persino Watteau (49). E se questo può apparirci una consonanza prevalente, per lui occorreva guardare a tutta la pittura: “Sapere Leonardo, Rembrandt, Velazquez, i greci, tutto fino a Délacroix, a Cézanne” senza però farsi epigoni: “l’essenziale è di aver saputo e di non sapere” (50).
Da Jean Paulhan, a André Malraux, passando per Francis Ponge, Paul Eluard, Giuseppe Ungaretti, Georges Bataille sono molti i letterati con i quali Fautrier intesse uno scambio fecondo che si delinea su più piani. I testi che gli dedicano, le illustrazioni da parte sua di loro opere, e in ultima analisi la partecipazione poetica, etica e politica al dramma della guerra e alle sue conseguenze. Il motivo centrale, anche se non esclusivo, della vicinanza di Fautrier ad alcuni scrittori e poeti “engagés” del suo tempo risiede in gran parte proprio in questo.
Se Braque aveva rappresentato agli occhi di Paulhan il “patron” della pittura moderna, Jean Fautrier sarà viceversa il “ribelle”, il “terrorista” l’“arrabbiato”. Gli dedicherà nel 1949 una monografia che racchiude nell’epiteto attribuitogli tutto il senso del suo pensiero sull’artista, appunto Fautrier l’enragé. (51) Non c’è dubbio che negli anni in cui Paulhan vi si avvicina, nonostante Fautrier fosse già piuttosto conosciuto, la sua fortuna critica si rafforzò notevolmente. Non è peraltro certamente un caso che si sia fatto spesso riferimento a Fautrier come al pittore della Nouvelle Revue Française (52), non solo perché avrà occasione di esporre proprio nei locali della N.R.F. - nel 1933, nel 1939 e nel 1953 - ma soprattutto perché a cominciare da André Malraux una lunga lista di scrittori gravitanti intorno alla rivista avranno modo di interessarvisi. Ed il centro è Paulhan che di questa rivista sarà direttore per due mandati - dal 1925 al 1940 e successivamente, condividendone il ruolo con Marcel Arland, dal 1953 -.
Nel dopoguerra al cessare dell’urgenza dell’impegno politico, Fautrier, la cui partecipazione alla resistenza era stata più genericamente umanitaria, si ritira. Ma il fallimento della rivolta di Budapest nel 1956 lo portò, come accadde nella coscienza di molti intellettuali francesi di sinistra, a vedervi il crollo della speranza di costruire uno stato socialista capace di coesistere con quei principi di libertà per i quali avevano combattuto. E così, come gli Otages avevano rappresentato la traumatica condizione storica della guerra, i Partisan Budapest 1956 che a questa data dipinge, diventano un’indicazione di consenso e piena adesione alla lotta per la libertà. Il ricordo di Paul Eluard, scomparso nel 1952, che aveva scritto durante l’Occupazione tedesca Dignes de vivre come asserzione del principio per cui ciò che fa degni di vivere è la libertà si riaccende e Fautrier addiziona all’immagine del partigiano fucilato alcune strofe del poema Liberté di Eluard. Insieme agli Otages queste pitture sono da ritenersi l’espressione più evidente di un impegno politico e umano che trova nel novecento un precedente pittorico di così significativa portata solo in Picasso. Tra l’altro, a rimarcare la vicinanza ad Eluard è il fatto che nel 1944 Fautrier aveva illustrato proprio un’edizione di Dignes de vivre, la raccolta in cui compare anche la famosa poesia Liberté (53) che durante la Resistenza era circolata tra i partigiani francesi come un inno di lotta.
Anche per Eluard è verosimile ipotizzare che l’avvicinamento sia avvenuto per il tramite di Paulhan del cui reclutamento tra gli scrittori di Fautrier testimonia proprio una lettera di Paulhan indirizzata a Joë Bousquet in cui scrive:
Eluard se montre émerveillé de mon grand Fautrier (homme rougeâtre ou ventre ouvert). Jusqu’ici il n’aimait guère Fautrier” (54).
I primi contatti di Eluard con la pittura avverranno nell’ambito del Surrealismo al quale aveva aderito fin dagli inizi, ma via via il suo interesse andrà ampliandosi appunto anche verso artisti non propriamente gravitanti in quest’area. Per l’autore di Donner à voir alla vista è delegato il ruolo di un percepire conoscitivo ben reso nell’espressione:
Vedere è comprendere, giudicare, trasformare, immaginare, dimenticare o dimenticarsi, essere o sparire” (55).
La forza dell’arte di testimoniare e di tradurre l’orrore dell’inumanità è qualcosa che continua a riguardarci. Richiamarsi a Fautrier in un momento storico come l’attuale di cattivi presagi e per quanto lo riguarda di non scontata attenzione per la sua importanza è un viatico per non cedere il passo all’oblio.
Nel post scriptum dell’“Ambizione dell’avanguardia” Ungaretti scrive: “Quando io guardo gli Otages di Fautrier, sono le pitture dove si vede come durava fatica a spezzare le catene la passione di libertà della Resistenza, so che il pittore ha compiuto opera umana in modo stupendo” (56).
Un “modo stupendo” per provare a non dimenticare.

Aprile 2023

* G.C.Argan “Materia e storia dell’Informale” in, G.C.Argan, Salvezza e caduta dell’arte moderna, Milano, Il Saggiatore, 1964, p.86
1) Nel 1966, a due anni di distanza dalla morte, presentando in catalogo la mostra Jean Fautrier alla galleria Senior di Roma Palma Bucarelli invitava a guardarla non “come una mostra alla memoria di Jean Fautrier, ma come una mostra di Jean Fautrier, pittore della memoria”.
2) Michel Ragon, Fautrier, Paris, éd.Georges Fall, coll.Le Musée de Poche, 1957, p.30.
3) Nel 1928, André Malraux che si occupava delle edizioni d’arte di Gallimard gli affidò l’incarico di curare le illustrazioni per l’Inferno di Dante. Fautrier vi si dedicò con grande entusiasmo e realizzò 34 litografie caratterizzate da una nuova idea di immagine e benché non si possa riconoscervi l’abbandono della figurazione creò forme inedite probabilmente da ritenersi all’origine del rifiuto a pubblicarle. Non l’astrazione, del resto già conosciuta ormai da anni, fu causa dunque della mancata pubblicazione dell’Inferno illustrato da Fautrier ma l’assenza di una struttura codificata. “(…) solo macchie, altri segni senza una struttura apparente” scrive in proposito Bucarelli. In: P.Bucarelli, Jean Fautrier, pittura e materia, Milano, Il Saggiatore, 1960, p.53.
4) Testimonianza riportata da P.Bucarelli, in, Ibidem, p.68.
5) Georges Turpin, in Mon Pays, Parigi, 15 giugno 1942.
6) R.Barotte, “Les artistes au travail”, in Comoedia, 24 luglio 1943.
7) La galleria che diverrà poi teatro di alcune delle manifestazioni più significative dell’Informale e più in generale dell’avanguardia artistica.
8) Nel 1942 escono due raccolte di poesie di Robert Ganzo illustrate da Fautrier: R.Ganzo, Lespugue, avec onze lithographies de Jean Fautrier, Paris, Durand éd., 1942. R.Ganzo, Orénoque, avec onze eaux-fortes en couleurs de Jean Fautrier, Paris, Blaizot éd., 1942.
9) E.Crispolti, L’Informale. Storia e Poetica, vol.I, Assisi, Beniamino Carocci ed., 1971, p.74.
10) Ibidem, p.74.
11) Jean Paulhan, Fautrier oeuvres (1915 – 1943), presentazione della mostra omonima in catalogo. Drouin, Paris, Imprimerie Union, 1943, p.13.
12) Intervista a Fautrier, in Beaux Arts, 24 dicembre 1943, p.5
13) J.Fautrier, in: Jean Lescure, “Dialoghi con Fautrier”, in La Biennale, 1958, n.34, pp.10-20.
14) J. Fautrier, in P. Bucarelli, “Ritratto doppio”, catalogo della mostra Fautrier, galleria l’Attico Esse-Arte, Roma, 1980, p.19.
15) Robert Droguet, Fautrier ‘ 43, Paris, éd Besacier, 1957, p.12.
16) Jacques Darriulat, “La matière et la vie”, in Combat, Paris, aprile 1971
17) Antimoine Chêvalet, “Les Otages de Fautrier”, in, Action, 16 novembre 1945. Traduzione italiana: Enrico Crispolti L’Informale. Storia e Poetica. Vol.IV, Roma – Assisi, Beniamino Carucci ed., 1971, pp.37-39.
18) Testimonianza riportata da P.Bucarelli in Jean Fautriet. Pittura e materia, op.cit.,p.87.
19) Cfr: Francis Ponge, Notes sur les Otages, Paris, éd Seghers, 1946. Jean Paulhan, Fautrier l’enragé, Paris, Georges Blaizot éditeur, 1949.
20) 26 ottobre – 17 novembre 1945: Les Otages: Peinture et sculptures de Jean Fautrier, galleria René Drouin, Parigi. Catalogo con testo di presentazione di André Malraux.
21) Cfr: Gerhard Heller, Un Allemand à Paris 1940 1944, éditions de Seuil, 1981, p.121.
22) André Malraux, Les Otages de Fautrier, testo di presentazione della mostra tenutasi alla galleria René Drouin, Parigi, 1945.
23) M. Arland “Les Otages de Fautrier”, in Les Arts, 8 novembre 1945.
24) R. Barotte, intervista a Fautrier, cit., p.5.
25) A.Malraux, Les Otages (de Fautrier), traduzione in: E. Crispolti, L’Informale Storia e Poetica, vol.IV, op.cit., p. 36
26) Cfr: Giuseppe Marchiori, La scultura francese moderna, Milano, Silvana editoriale d’arte, 1963.
27) Edwin Engelberts, Jean Fautrier – Oeuvre gravé. Oeuvre sculpté. Essai d’un catalogue raisonné, Genéve, Galleria Engelberts, 1969.
28) Francis Ponge, Notes sur les Otages, Paris, éd Seghers, 1946.
29) André Verdet, Fautrier, Paris, Falaize éd., 1958.
30) Antinoine Chêvalet, “Les Otages de Fautrier”, in Action, 16 novembre 1945. Traduzione in italiano: E. Crispolti, L’Informale. Storia e Poetica, vol.IV, op.cit., p.39
31) Michel Tapié, Un Art Autre, où il s’agit de nouveaux dévidages du réel, Paris, Gabriel Giraud et Fils éd., 1952.
32) M.Tapié, Ibidem, traduzione italiana in:E.Crispolti, Informale. Storia e Poetica, vol.IV, op.cit, p.158.
33)André Berne-Joffroy, “Franges pour un dossier Fautrier”, in catalogo della mostra Fautrier Rétrospective, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 1964, p. 8.
34) P.Bucarelli, Jean Fautrier, pittura e materia, op.cit..
35) Alla XXX Esposizione Biennale Internazionale d’Arte svoltasi dal 18 giugno al 16 ottobre 1960 viene dedicata, per la cura di Umbro Appollonio, Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli, una mostra personale a Jean Fautrier che gli varrà, insieme ad Hans Hartung, il gran premio del Consiglio dei ministri.
36) Giulio Carlo Argan, Fautrier. Matière et mémoire, Milano, Apollinaire (S.A.E.S.)1960.
37) Palma Bucarelli, Jean Fautrier, pittura e materia, Milano, Il Saggiatore, 1960.
38) Nello Ponente, “Ungaretti e la giovane pittura a Roma nel primo dopoguerra”, in, Rosita Tordi, a cura di, Ungaretti e la cultura romana, atti del convegno tenutosi all’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, 13-14 novembre 1980, Roma, Bulzoni, 1983, pp.123,124.
39) G.Ungaretti, “La pittura di Fautrier” prefazione di: P.Bucarelli Jean Fautrier. Pittura e materia, op.cit., p.11.).
40) Ibidem, p.9.
41) Cesare Vivaldi, in, Ibidem, p.270.
42) Ornella Sobrero, “Ungà e Fautrier”in, Ibidem, p.230.
43) Giulio Carlo Argan, “Da Bergson a Fautrier”, in Aut-Aut, n.55, gennaio1960, pp.10-23.
44) G.C.Argan “Materia e storia dell’Informale” in, G.C.Argan, Salvezza e caduta dell’arte moderna, Il Saggiatore, 1964, p.86
45) G.C.Argan, “Da Bergson a Fautrier”, op. cit., p.196, 199,200.
46) J.Fautrier, “La peinture de ce jour”, catalogo della mostra Fautrier, galleria l’Attico, Roma, 1963.
47) J.Fautrier, ibidem.
48) R.Droguet, Fautrier ’43, Paris, éd. Besacier, 1957.
49) Lorenza Trucchi, “L’Informale in Europa”, in, Situazioni dell’arte contemporanea. Testi delle conferenze tenute alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Roma, Edizioni Librarte s.r.l., 1976, p.33.
50)Jean Fautrier in un’intervista rilasciata a Jacques Kermoal, “Fautrier parla di Fautrier” in Il Punto, Roma, 20 aprile 1963, p.24.
51) Jean Paulhan, Fautrier l’enragé, op.cit..
52) In un articolo apparso nel 1964 sul n.416 di Domus dal titolo “Omaggio a Jean Fautrier dopo lungo tempo” Pierre Restany parla del “clan” della N.R.F. come di “une Bastille dans la republique des lettres” individuando in Fautrier il “suo” pittore.
53) “Liberté viene paracadutata su tutta la Francia e anche se anonima tutti ne conoscono l’autore”, così scrive Anna Jeronimidis: in, “Paul Eluard”, in, I Contemporanei. Letteratura Francese, vol.II, p. 228.
54) Lettera di Paulhan a Joë Bousquet, pubblicata in Jean Paulhan à travers ses peintres, catalogo dell’esposizione omonima tenutasi al Grand Palais di Parigi dal febbraio all’aprile 1974, Paris, éd.du Musées Nationaux, 1974, p.63.
55) Paul Eluard, Donner à voir, introduzione all’edizione italiana con la traduzione di Salvatore Quasimodo, Milano Mondadori, 1970 [edizione originale, Paris, Gallimard, 1939]
56) G.Ungaretti, “Ambizione dell’avanguardia”, in, Il Verri, a.VIII, n. 10, ottobre 1963, pp.12-42.