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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

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Lucilla Meloni.
Se dovessi dare un titolo a questa intervista, potrei chiamarla ‘Spazi sospesi’, oppure ‘Tra natura e cultura’, oppure ‘Architetture metafisiche’, oppure ‘Una lenta temporalità’.
Sono molte le suggestioni che generano le tue opere, sia quando sono concepite come quadri, sia quando lavori in termini ambientali, come vedremo prossimamente in occasione di una tua personale a La Nuova Pesa.
Una prima domanda è sull’utilizzo dei materiali, che nella tua lunga ricerca assumono un significato centrale. Ne utilizzi diversi e tutti naturali: innanzitutto la cera d’api, il legno, ma anche spighe di grano, petali di papavero, fieno, pane, petali di rosa, orzo.... A quale sentimento corrisponde questa scelta?
Giuseppe Tabacco. I tuoi possibili titoli di questa intervista, sintetizzano in certa misura la direzione della mia ricerca. La quale ambisce a comprenderli tutti e magari a suggerirne altri. Da più di trent’anni utilizzo principalmente la cera d’api vergine (senza l’aggiunta di pigmenti se non in rare occasioni), con cui ormai, non esito a confessarlo, vivo in simbiosi. È diventata materia “sacra” e parte di me stesso. Oltre al suo alto valore simbolico, è materia duttile, sensuale, che mi permette di affrontare il lavoro in un dialogo serrato, uno scambio continuo, quando non un vero e proprio corpo a corpo con essa. Mi permette, tra l’altro, di realizzare un’opera che contempli quei temi che hai definito per i tuoi eventuali titoli ma in una dimensione di evidente, concreta fisicità.
Il legno non è solo un supporto, che peraltro appronto e assemblo io stesso, lo considero parte dell’opera e spesso è entrato in primo piano direttamente nell’immagine.
Le altre materie che hai citato sono più inerenti al contesto delle installazioni e degli spazi reali con i quali interagisco, quindi maggiormente legate al luogo in cui saranno mostrate, alla sua storia e alla sua architettura. Poi, nella tua domanda, è già contenuta la risposta nella parola “sentimento”: la scelta di quegli elementi naturali è appunto “sentimentale”, legata alla propria visione, all’istinto, ai ricordi, ad alcune letture, alla vita insomma…
Si tratta in sostanza, di edificare il “nulla”. Ma un “nulla” in grado di aprire il linguaggio a nuove (altre) realtà.
L.M. Dal punto di vista della composizione i tuoi quadri si presentano come spazi rigorosamente costruiti, zone colorate a volte delimitate da riquadri aggettanti, o da griglie; altre volte come superfici che lasciano intravedere una successione ordinata di riquadri geometrici, che evocano finestre, porte, portali, cornici. Sulle forme dalle differenti tonalità a seconda del procedimento usato con la cera, scorre e si insinua la luce. Da un punto di vista tecnico come arrivi a quei risultati formali?
G.T. Il processo, in un certo senso coincide con l’opera. Nella realizzazione di un quadro il valore “tempo” entra con preponderanza. L’opera è (anche) il mio tempo lento di preparazione della cera, della scelta di come e dove collocare le forme, di come giustapporle e sovrapporle… Il processo è, per così dire, empirico… Non esiste all’inizio una meta precisa, si va avanti per tentativi, per correzioni di “errori”, per pause e ripensamenti. La superficie viene esplorata a fondo passo dopo passo, direi millimetro per millimetro, fino a giungere ad una conclusione, che il quadro stesso mi indica. E il quadro è, come dicevi, un’astrazione che evoca però elementi architettonici, pieni e vuoti, piccoli quadri nel quadro. E’ un grande viaggio all’interno della superficie… Discorso diverso per le installazioni, dove è il luogo a parlarmi. E arriva un dialogo, uno fra i tanti possibili…
L.M. Lavori lentamente, come mi raccontavi, e questo tempo non affrettato, ma anzi dilatato coincide con quello della lettura dell’opera da parte dell’osservatore che nel passare da un segno all’altro, da uno spazio all’altro, si fa largo dentro una costruzione stratificata. La visione non può dunque essere immediata e unitaria.
G.T. Credo che la visione dei miei lavori richieda anch’essa del tempo, una giusta concentrazione…
L’importante è che l’opera sia silenziosa, inscalfibile nella sua immobilità e intensità.
L.M. Nei quadri sopravvive, aggiornato, il linguaggio dell’arte moderna del XX secolo, a cominciare dall’astrazione geometrica (penso a Mondrian); ma ci sono riferimenti alle strutture della visione, alla percezione (da Malevic a Albers). Quale il tuo rapporto con quella tradizione?
G.T. Il rapporto con la tradizione, sia antica sia recente, è imprescindibile se si vuole realizzare un’opera d’arte. Tale rapporto o legame si deve percepire o avvertire nell’aria… Allo stesso tempo, il fondamento dell’opera, il suo compito, è quello di “scompaginare” la realtà esistente. Di introdurre un elemento di disturbo all’ordine prestabilito. Ogni opera d’arte è un’apparizione dirompente, se non traumatica. Ma tutti i grandi artisti contemporanei custodiscono un “passato”. Non si tratta di aver necessità di una legittimazione dalla tradizione ma della consapevolezza di essere eredi di una spiritualità che non si può e non si deve dissolvere.
L.M. Il tuo legame con la fotografia è di lunga data: inserita nella composizione pittorica, vi entra come brano di realtà. Anche l’immagine fotografica, però, al pari delle altre zone pittoriche, è sottoposta allo stesso processo di velature che ne impedisce una evidente lettura. A quale necessità, a cosa corrisponde la sua presenza?
G.T. Ho sempre amato la fotografia e ho iniziato a praticarla negli anni Ottanta. Più tardi ho avvertito la necessità di inserire nei quadri immagini fotografiche o frammenti di esse scattate in tempi diversi. Fotografie “asservite” al quadro. Un segno aggiuntivo al dipinto. Ho sperimentato questa connessione perché mi interessava il possibile legame fra i ritmi lenti della pittura e l’istantanea fotografica e se e come potessero convivere. L’ulteriore necessità di rendere il soggetto della foto meno reale, evanescente, ha implicato la scelta di intervenire sulla fotografia con sottili velature di cera bianca. Come un’apparizione muta, più leggera e lontana da un’eventuale rappresentazione o narrazione. Uno dei modi per ri-significare l’immagine fotografica. Parallelamente ho realizzato alcuni progetti di lavori esclusivamente fotografici, inediti e mai esposti.
L.M. Oltre che con l’articolazione dello spazio della superficie, ti sei confrontato più volte con lo spazio reale. Solo per citare alcuni esempi, penso all’installazione ‘In A Vaxy Silence’ che hai presentato nel 2021 alla Villa di Massenzio sull’Appia Antica, oppure a ‘Doni’, la superficie e lo spazio ospitata a Roma nel 2012 nella Sala di Santa Rita, o a ‘Il Bel gioco’, realizzata al Museo delle Mura a Roma nel 2015. In tutti questi casi hai progettato i lavori in stretta relazione con le strutture architettoniche, come del resto avevi proposto già nel 2007 in occasione della mostra ‘La pesantezza, la leggerezza’, tenutasi presso l’Associazione Culturale TRAleVOLTE a Roma nel 2007, dove avevi riempito di fieno una nicchia, intitolando quell’operazione: ‘Taglio’. I tuoi interventi sul già dato non sono mai aggressivi, autoritari, ma sempre giocati su un fine dialogo. Ti chiedo quale linea di continuità esista tra la creazione ex novo dello spazio “pittorico” del quadro e la ri-definizione di un luogo architettonico e come, secondo te, l’arte possa rapportarsi a forme già costituite.
G.T. Non so se esista una linea di continuità tra la creazione di un quadro e la ri-definizione di un luogo o si percorrano strade parallele. Forse, ancora una volta, per trovare un nesso si può ricorrere al concetto di tempo. Nel caso del quadro è tempo quotidiano, dilatato, intimo. La concentrazione su quel perimetro, richiede un’immersione in un altro tempo e in un altro spazio. Nel secondo caso, è un tempo collegato al luogo, alla memoria, suscettibile di mille suggestioni relative allo spazio che “abiterai” per un po’… Hai definito i miei interventi all’interno di un’architettura sempre in un dialogo e mai aggressivi o autoritari ed è esattamente ciò che sento di mostrare e desidero trasmettere. Un gesto lieve, quando non addirittura quasi assente. “Fare silenzio” ed “assentarsi” è il solo dovere etico e in parte anche estetico dell’artista di oggi. Di essere presente con la propria assenza, di “non esserci”, per contrastare le eccessive molestie di questo tempo. Invoco una sorta di militanza silenziosa, un defilarsi dalla quantità di manifestazioni ed espressioni pseudo-culturali, dal proliferare di un attivismo sterile, inconsistente quando non completamente falso, che non produce autentica cultura o riscatto sociale ma solo spettacolo mediocre.
Tornando alla tua domanda, l’arte può rapportarsi a forme già costituite se è in grado di esprimere una forte dialettica con il luogo in cui si mostra e stimolare l’osservatore a riconoscere nell’opera una concatenazione di spunti, elementi, sensazioni, che vadano a toccare le corde più sensibili dell’essere umano.

Aprile 2023