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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Parte I. La situazione delle arti 1945 – 2010
Brunella Velardi
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Questo contributo, come i “capitoli” che seguiranno, prende le mosse dallo studio delle collezioni del museo Novecento a Napoli che ha sede, dal 2010, in uno degli edifici che si ergono sulla grande piazza d’armi di Castel Sant’Elmo. Indagando i presupposti culturali e le tappe storiche che ne hanno accompagnato l’istituzione, si è avviata una riflessione sulle sue origini e sul suo retaggio, al di fuori delle sale espositive, tra il contributo alla ricostruzione di un’identità culturale frammentata e le molteplici possibilità di espansione del suo sguardo sulla città. Qui viene inquadrata la produzione e ricezione delle arti a Napoli, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, quando, intrecciata con gli accesi dibattiti che si susseguono tra artisti e critici, inizia ad emergere l’esigenza di un riconoscimento istituzionale, sulla scorta di quanto avviene in altre città italiane.
Dal punto di vista culturale, Napoli è stata nel XX secolo una città particolarmente vivace, in cui si sono intrecciati storie e personaggi che ne hanno fatto un crocevia di esperienze diverse, dalla letteratura alle arti figurative e performative. Indagate per lo più in un certo numero di studi condotti in ambito locale, le vicende dell’arte a Napoli nel Novecento hanno incontrato a più riprese le correnti, le poetiche e le estetiche nazionali e internazionali, spesso con esiti originali e di ampio respiro rimanendo, al contempo, fortemente radicate nel tessuto urbano e sociale della città. Un legame inscindibile attraversato tanto dalla saggistica quanto dalla letteratura, che mostra il ruolo fortemente identitario svolto dalla cultura artistica, in particolare dalla seconda metà del secolo (1).
Perduto il ruolo che aveva avuto nel contesto artistico tra Seicento e Settecento, Napoli resta a lungo legata agli stereotipi che il vedutismo di stampo ottocentesco aveva contribuito ad alimentare, trascinando ancora a Novecento inoltrato soggetti e stilemi ormai altrove superati da tempo. Non mancava, tuttavia, un fermento che avvicinava i giovani artisti napoletani a quanto accadeva fuori dai confini regionali e nazionali (2), ma è il secondo conflitto mondiale a segnare un vero e proprio spartiacque in questo senso: l’urgenza di una ricostruzione urbana, morale, sociale dopo la devastazione dei bombardamenti, dovette indurre gli artisti a una poderosa spinta in avanti, in una direzione comune a buona parte dell’avanguardia italiana degli stessi anni (3). Sorsero nei decenni immediatamente successivi alla guerra nuove aggregazioni che univano la propria posizione ideologica a una ricerca estetica fortemente incardinata nelle istanze del presente, con esiti assai differenti pure in seno ai singoli gruppi. Scriveva Argan nel 1965:
«La miglior prova che la cultura figurativa napoletana ha superato i limiti che ne facevano, fino a non molti anni fa, una cultura di coltivata provincia, è data proprio dal fatto che non sussiste, oggi, un problema “napoletano”. Ciò si deve all’azione iniziale e coraggiosa di qualche maestro, come Vincenzo Ciardo, che ha saputo aprire i giovani alle nuove esperienze; […] alla presenza di correnti critiche aperte e combattive; e, soprattutto, allo sforzo che i giovani artisti hanno compiuto, nel dopoguerra, per mettersi al corrente della cultura pur senza cadere in un troppo facile cosmopolitismo» (4).
I rapporti con altre realtà si fecero, in questa fase, più fitti ed espliciti (5), avviando un confronto con quanto avveniva in città come Milano e Roma, destinato a durare almeno fino agli anni Settanta, quando alle istanze della ricostruzione post bellica subentrarono quelle delle lotte sociali e di genere, mentre, sull’ultimo scorcio del millennio, poetiche e linguaggi trovavano una nuova dimensione globale.
Solo sporadicamente rappresentati da alcune gallerie aperte nel dopoguerra, poco o per nulla sostenuti dal collezionismo locale, gli artisti napoletani d’avanguardia hanno a lungo sofferto di un provincialismo che ne relegava le ricerche più aggiornate ad episodi solitari e per lo più mal sopportati (6), al punto che, pur nell’evidenza degli sforzi in direzione di un progressivo aggiornamento, Ferdinando Bologna riconosceva: «Gli avvenimenti nuovi che vi si sono prodotti troppo spesso sono rimasti isolati dall’indifferenza e dall’inveterato scetticismo» (7). Anche per questo, tra entusiasmi e disillusioni, sull’ipotesi di istituire un museo d’arte contemporanea ci si interrogava già nell’Inchiesta sulla cultura a Napoli, apparsa nel 1965 (8). E tuttavia “la più grave iattura” la definiva Raffaello Causa, che proprio in quell’anno diventava Soprintendente alla Gallerie (9), pittore egli stesso, ma fermamente convinto della necessità di una distinzione di ruoli tra musei e gallerie nelle azioni rivolte all’arte contemporanea (10). La sua posizione si rivela comunque sintomo di crepe mai sanate nei rapporti tra artisti napoletani e istituzioni, tra differenti prospettive critiche, e, al contempo, di una visione del ruolo del museo radicalmente opposta rispetto a quella che aveva caratterizzato, fin dalla loro istituzione alla fine dell’Ottocento, realtà come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma o la Galleria d’arte moderna di Torino, nate con lo scopo di documentare gli sviluppi più attuali dell’arte nazionale e internazionale, nel primo caso, regionale, nel secondo. Se, sullo sfondo, ancora restavano irrisolte le vicende ormai secolari della “Galleria Regionale d’arte moderna” aperta negli spazi dell’Accademia di Belle Arti che avrebbe dovuto costituire il più immediato riferimento per i giovani artisti (11), vent’anni dopo, da poco scomparso Causa, sarà il suo successore – e stretto collaboratore in vita – Nicola Spinosa a riprendere le redini del discorso, annunciando la volontà di aprire due sezioni d’arte contemporanea, destinate rispettivamente a Capodimonte e a Castel Sant’Elmo (12). Da quella possibilità prospettata negli anni Ottanta, trascorrerà ancora molto tempo prima che venga inaugurato a Napoli il solo museo statale italiano dedicato all’arte contemporanea oltre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
E mentre Causa, pittore da giovane con lo pseudonimo di Mimì Gargiulo in ricordo dei suoi studi su Micco Spadaro, aveva poi scelto nel suo ruolo istituzionale di marcare una esplicita distanza dalle esperienze napoletane contemporanee, salvo comunque seguirne le vicende da osservatore esterno (13) ed avviare, solo dieci anni più tardi, una serie di affondi sull’arte contemporanea nei locali di Villa Pignatelli, Spinosa – pur con una formazione da ‘modernista’ che lo porterà ad un approccio più intuitivo che meditato al contemporaneo – appare invece ben presto spinto da passioni personali ad affacciarsi all’arte dell’attualità,
«un mondo irto di difficoltà e sicuramente ‘minato’, per il quale oltretutto – a norma di legge e perché così ci è stato detto – non avremmo né competenze né obblighi di natura istituzionale. Ma al quale tuttavia, pur con le sue evidenti ‘miserie’ e i suoi reiterati opportunismi, con le sue infinite suddivisioni in clan contrapposti e feroci, i suoi spesso effimeri e ingiustificati contrasti per tendenze e scelte diversamente orientate, con le sue interminabili beghe d’interesse critico e mercantile […] non ci sentiamo di poter rinunciare» (14).
Così scriveva il soprintendente, presentando il catalogo della collezione d’arte contemporanea costituitasi tra gli anni Ottanta e Novanta a Capodimonte, senza tralasciare il riferimento a quelle ‘beghe’ cui, prima ancora che da funzionario, aveva assistito da ragazzo al seguito del padre pittore. Dissidi dai quali egli stesso non prendeva fino in fondo le distanze, proseguendo il suo discorso dalle esplicite pieghe autobiografiche su queste note:
«Forse perché da ragazzini […] a Porta Capuana e a Rua Catalana (altro che via Gemito!) abbiamo respirato esalazioni d’acquaragia e trementina, forse perché giovanissimi ascoltammo, nascosti in un angolo della Galleria Medea o della San Carlo, le urla di Domenico Spinosa e di Armando De Stefano […]; per poi far notte, in un piano terra di via Tasso, con Gianni Pisani, Mathelda Balatresi, Rosa Panaro o Giannetto Bravi a parlare delle frustrazioni e delle incomprensioni di sempre; o perché in un ‘sotterraneo’ di via Schipa, tra il ’65 e il ’70, studiavamo a contatto di gomito e d’orecchio con Carmine Di Ruggiero ed Errico Ruotolo, aspettando che arrivassero gli eterni ‘scontenti’[…]» (15).
La testimonianza di Spinosa dà, del contesto artistico napoletano, vissuto da una visuale più intima che esterna, uno spaccato fatto di rivalità, spesso alimentate da frustrazioni, da cui anche nella delicata veste istituzionale è arduo svincolarsi. Gli stessi luoghi dell’arte divengono tramite di contese e rivendicazioni, in mancanza di uno spazio di riferimento intorno al quale gravitare. ‘Altro che via Gemito’, scrive Spinosa, dove il pittore Federico Starnone aveva il suo alloggio in qualità di ferroviere:
«Quando il vecchio pittore Vincenzo Ciardo raccontava di come si pittava bene in via Cesare Rosaroll (16), il Quartiere latino di Napoli; quando ne raccontava Alfredo Schettini che ora faceva il critico d’arte ma che da giovane in via Rosaroll era stato pittore anche lui; mio padre si torceva per l’invidia e schiattava di rabbia pensando: “Perché mi è toccato di pittare qui, nel palazzo dei ferrovieri, in via Gemito 64?”» (17).
Frustrazioni, appunto, reiterate nel tempo e che ritornano nel cinismo delle parole di Gianni Pisani quando, interrogato anch’egli sulla possibilità di un museo d’arte contemporanea a Napoli, risponde: «Dato l’andamento attuale delle cose, i vecchi pittori commerciali di Napoli avrebbero finalmente la sede ufficiale per l’esposizione permanente dei loro quadracci» (18). Un simile atteggiamento di sfiducia andava di pari passo con i contrasti che animavano l’ambiente dell’Accademia, fucina di incontri tra i più vivaci e proficui e, al tempo stesso, luogo di asfittica conservazione di istanze inattuali, contro le quali a più riprese i suoi frequentatori si erano scagliati con insofferenza, e incarnate, fra gli altri, dallo stesso Ciardo che nel dopoguerra aveva assunto un ruolo di potere diventando direttore della scuola di paesaggio, attraverso la quale doveva evidentemente esercitare una forte influenza nella direzione di derivazione post-impressionista intrapresa nei suoi dipinti dell’epoca. Così, se da un lato maestri come Emilio Notte e Manlio Giarrizzo proiettavano nell’insegnamento un’apertura alle esperienze nazionali e internazionali che di grande stimolo risultava per i loro allievi, dall’altro molti studenti finivano per ripudiare l’appartenenza all’Accademia, troppo incline sul fronte istituzionale a soffocare ogni slancio di novità, di fatto assecondando un mercato che, ancora negli anni Sessanta inoltrati, restava sostanzialmente fermo a quelle estetiche ottocentesche cui il pur scarso collezionismo era ancora irrimediabilmente legato (21). Una insofferenza correlata peraltro al più strutturale problema dell’insegnamento delle arti, incardinato entro canoni e classificazioni che risultavano decisamente obsoleti in una società in piena corsa, tra progresso tecnologico e nuove esigenze estetiche (22).
È intanto proprio in questo periodo che iniziano a registrarsi a Napoli segnali di una maggiore apertura alle esperienze contemporanee sia locali che internazionali. Se alcune gallerie attive già dal secondo dopoguerra avevano poi iniziato, negli anni Cinquanta, ad affacciarsi con discontinuità all’arte ‘moderna’ – la San Carlo, la Medea e, soprattutto, Al Blu di Prussia avevano proposto opere del M.A.C. napoletano e poi del Gruppo 58, eppure presso gli artisti il giudizio di questo impegno restava assai duro (23) – il decennio successivo vede l’inaugurazione di nuovi spazi caratterizzati da un interesse esclusivo verso le ricerche del secolo corrente. La galleria Il Centro di Dina Carola apre nel 1960 a via San Pasquale (24) con la I mostra di artisti italiani contemporanei, opere di Giovanni Brancaccio e Vincenzo Ciardo accanto a Carrà, De Pisis, Morandi, Rosai, Sironi, Tosi, per poi rivolgere in breve tempo lo sguardo anche ai più giovani Renato Barisani e Andrea Bizanzio, Elio Waschimps e Gianni Pisani, con mostre personali allestite nella sede di Ischia inaugurata l’anno successivo, «luogo di esposizione […] anche di artisti locali, quasi un modo per sperimentare la validità di certe scelte, prima dell’ammissione ai circuiti cittadini», almeno fino alla stagione del 1963-1964, quando vengono presentati a Napoli Barisani, Biasi, Pisani e Fergola (25). Nel 1964 si tiene la prima delle mostre che si susseguirono nella saletta rossa della Libreria Guida a Port’Alba (26), dal titolo Nuove realtà della pittura a Napoli, con opere di Barisani, Guido Biasi, Enrico Bugli, Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Luca (Luigi Castellano), Pabi (Pino Biasi), Carlo Del Pozzo, Bruno Di Bello, Salvatore Paladino, Franco Palumbo, Mario Persico, Tony Stefanucci e Stelio Maria Martini. Nel 1965, in estate, sarà la volta della Libreria Minerva in via dei Greci e, dall’ottobre, della Modern Art Agency di Lucio Amelio in via del Parco Margherita: dal 1966 – quando espone i lavori di Carlo Alfano – in poi, moltissimi saranno gli artisti napoletani e campani a lui vicini, da Ernesto Tatafiore a Mimmo Paladino, da Pisani e Bruno Di Bello alle femministe napoletane del collettivo Gruppo XX (Rosa Panaro, Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello e Mimma Sardella) e altri ancora. Un susseguirsi di iniziative, dunque, che segna l’ingresso sulla scena cittadina di un mercato dell’arte contemporanea decisamente proteso verso il panorama nazionale e internazionale, ma vigili anche sulla situazione locale (27). I nuovi galleristi non esitano a proporre i grandi nomi dell’arte italiana accanto ai napoletani contemporanei, e in più di un’occasione le iniziative vengono curate – o seguite con sguardo attento – da giovani critici accorti a quanto accade anche fuori dai confini nazionali: Lea Vergine, Achille Bonito Oliva, Filiberto Menna. Significativamente, tutti e tre, nel ’66, nel ’68 e nell’’80, si allontaneranno per stabilirsi definitivamente a Milano o a Roma. Ma negli stessi anni avviene pure che vengano chiamati da Marcello Rumma Renato Barilli, Alberto Boatto e Germano Celant, a curare le Rassegne di Amalfi tra il ’66 e il ’68 (28), inaugurando anche a Salerno un nuovo corso per le vicende dell’arte contemporanea (29). Eppure l’impegno militante di un critico come Filiberto Menna, teso a «collegare le più significative esperienze dell’arte a Napoli con quelle attive in Italia, tra Roma, Milano e Torino, rompendo una condizione di isolamento e di solitudine propria della cultura del Mezzogiorno» (30), lascerà un’impronta – e un lascito culturale, attraverso i suoi allievi all’ateneo salernitano e la fondazione a lui intitolata – più significativa a Salerno che a Napoli, dove pure era stato assai attivo, ma dove più diffusamente si proseguirà nel solco filologico della scuola di Ferdinando Bologna (31), nonostante le (o forse anche in ragione delle) sue «analisi rigorose e, talvolta, impietose sul corpo dell’arte a Napoli tanto da scontentare, fin dall’avvio, l’establishment, scuotendone ambizioni e mettendone in dubbio cultura e gusto» (32) dalle pagine de Il Mattino.
Negli anni Settanta, mentre lo stesso Menna denuncia la mancanza nel Mezzogiorno di una ‘galleria d’arte moderna’ che possa proporsi come luogo di interlocuzione diretta e tempestiva con gli episodi più avanzati dell’arte italiana (33), aprono nuove gallerie dedite esclusivamente alla promozione di artisti contemporanei: Lia Rumma a via Vannella Gaetani, Studio Trisorio alla Riviera di Chiaia, Studio Morra a via Calabritto – tra le più longeve, attive ancora oggi – si affermano accanto a Carola e Amelio. Ma una svolta è rappresentata, nella seconda metà del decennio, dal progressivo ingresso dell’arte contemporanea nei musei statali, segno dell’interesse che tanto Causa quanto Spinosa, sia pure con atteggiamenti diversi, rivolgevano alle ricerche più recenti. Al museo di Villa Pignatelli, la stagione di mostre dedicate ad ‘artisti viventi’ inaugura nel 1976 con una mostra personale dedicata a Mario Merz, seguita da esposizioni di Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis e, dal ’78, dei napoletani Carlo Alfano, Barisani, Domenico Spinosa, Pisani, Mimmo Jodice, Carmine Di Ruggiero, Raffaele Lippi con personali tenute a ritmo serrato fino alla metà del decennio successivo. Il 1978 è l’anno della grande mostra di Alberto Burri al Museo di Capodimonte, inaugurata con una conferenza di Cesare Brandi e al cui catalogo, edito da Amelio, partecipa Giulio Carlo Argan.
Due anni più tardi inizia quello che Achille Bonito Oliva definirà «un decennio di euforia che attraversa tutto il paese e investe anche Napoli. È un decennio di ottimismo, di produttività, diciamo pure di decongestione ideologica e di apertura, forse anche di cinismo politico, di superamento delle ideologie, di governabilità personalizzata. Per quanto riguarda l’arte, vive un momento anche di riconoscimento in quanto c’è un’economia favorevole» (34). Il terremoto del 23 novembre 1980 costringe il museo di Capodimonte alla chiusura; sarà riaperto solo l’anno successivo, dopo interventi di rinforzo statico e di riordino delle collezioni (35). Nel frattempo Lucio Amelio avvia la raccolta di Terrae Motus, una delle più importanti collezioni d’arte contemporanea italiane, costituita chiamando a raccolta artisti di fama internazionale; vi partecipano anche Alfano, Di Bello, Pisani, Enzo Cucchi, Sergio Fermariello, Nino Longobardi, Silvio Merlino, Mimmo Paladino, Ernesto Tatafiore.
L’azione di Amelio è lungimirante, il suo impegno nel fare di Napoli una capitale dell’arte contemporanea è inedito; nel 1981 organizza lo storico incontro tra Andy Warhol e Joseph Beuys immortalati in locali festanti (36) e fra i leoni di Piazza dei Martiri, dove nel frattempo ha trasferito la sua galleria (37). È con lui che, già sperimentato il sodalizio a Villa Pignatelli, inizia anche l’avventura delle mostre d’arte contemporanea a Capodimonte; dopo la collaborazione per l’esposizione dedicata a Burri, sarà la volta degli stessi Warhol (1985) e Beuys (1985-1986) (38), in entrambi i casi con opere e installazioni realizzate sulla scorta di suggestioni napoletane. L’operazione proseguirà poi con la collaborazione, alla programmazione del Museo sul contemporaneo, di Lia Rumma, degli Incontri Internazionali d’arte di Graziella Lonardi Buontempo (tra i sodalizi più duraturi), dello Studio Trisorio, di Alfonso Artiaco. La direzione intrapresa a Capodimonte corre decisa verso una prospettiva nazionale e internazionale, mentre ai napoletani sono per lo più riservate altre sedi della Soprintendenza, sopra tutte, come si è detto, Villa Pignatelli.
Non c’è dubbio che gli anni Ottanta abbiano costituito il terreno fertile su cui si sarebbero innestate le operazioni degli anni Novanta e Duemila, tanto per quella condizione di ‘economia favorevole’ di cui parlava Bonito Oliva, quanto per una sempre più proficua sinergia tra istituzioni pubbliche e realtà private cui si sommerà, negli anni successivi, una felice congiuntura di visioni sulle politiche culturali portate avanti dalla Soprintendenza e dalle amministrazioni locali. Sono gli anni in cui «Napoli viene conquistata da un linguaggio internazionale, ma al tempo stesso diventa vetrina, fa crescere i suoi artisti. […] Non sarebbero esistiti Piazza del Plebiscito (39) e il Madre se non ci fosse stata questa attività negli anni Ottanta» (40). Ed è vero: Napoli partecipa ora alla pari di altre città europee e non solo al dibattito artistico; nell’ultimo decennio del secolo, mentre inaugurano nuove gallerie – Raucci/Santamaria, Scognamiglio & Teano, Vera Vita Gioia, Giusi Laurino, Umberto Di Marino, Theoretical Events che «scommettono senza remore e, talvolta, come si conviene, fino all’azzardo su situazioni, artisti, proposte e progetti fortemente innovativi» (41), per lo più emersi tra le fila dei diplomati all’Accademia napoletana – le istituzioni aprono sempre più spazi urbani e infrastrutture a interventi d’arte contemporanea. Una grande rappresentanza hanno gli artisti napoletani in quel grande e prezioso museo diffuso che sono le Stazioni dell’Arte, curate da Bonito Oliva. È un momento chiave, le cui scelte determineranno l’andamento delle vicende a venire. Napoli è in una positiva controtendenza (42), eppure molti nodi restano irrisolti: la scena è abitata da
«Signori dell’arte che, per affrontare con danni sopportabili il loro lavoro, hanno pensato (e si sono convinti) di dovere svolgere anche alcune funzioni di supplenza. […] La questione fondamentale è stata quella di colmare un vuoto da vertigine: la mancanza assoluta di spazi pubblici destinati alla ricerca artistica contemporanea. Nella città dei Grandi Musei e delle Opere Straordinarie non si sono mai trovati le risorse, il tempo e la pazienza per una struttura pubblica adeguata alle richieste del sistema internazionale dell’arte. […] in quest’ultimo decennio, si è costruita una rete d’informazione sull’arte contemporanea, in particolare sugli svolgimenti del secondo dopoguerra, di grande rilevanza. […] Fare più robusto questo disegno significa renderlo stabile, duraturo, continuo […]. Vuol dire annodarlo alla nostra tradizione, sottolineando così che il contemporaneo non è solo il frutto di follia (o creatività), ma lavoro assiduo e doloroso. È su quest’integrazione, e non sulle divisioni, che ci si dovrà impegnare, senza isteria e divismo. Ma con lucidità e passione» (43).
Così Angelo Trimarco puntava il dito contro l’assenza di un impegno istituzionale programmatico nei confronti dell’arte contemporanea che fosse destinato a durare nel tempo. In effetti, dopo la grande ricognizione di Fuori dall’ombra tra il 1991 e il 1992, l’attenzione dei musei ai napoletani sembra affievolirsi e anche le mostre di artisti contemporanei a Capodimonte perdono lo slancio sperimentale del decennio precedente, mentre sempre maggior protagonismo assumono le iniziative che coinvolgono lo spazio urbano.
Nel frattempo, i confini dell’‘arte napoletana’ si sono ormai definitivamente sfrangiati: si è verificato quell’«allineamento generale, un necessario prendere atto dell’hic et nunc che è alla base dei movimenti più dirompenti dell’arte attuale […]. Si tratterà, per i critici e per gli artisti, di rimettere a registro la propria storia, vita e cultura, di mettersi al passo col mercato, di confrontarsi sempre più col ‘villaggio globale’» (44). Lo confermano, fra l’altro, mostre come Castelli in Aria. Arte a Napoli di fine millennio, curata da Angela Tecce nel 2000 e Napoli Anno Zero. Qui e ora, curata da Gianfranco Maraniello nel 2002, entrambe a Castel Sant’Elmo, in cui temi e linguaggi perdono ogni specificità territoriale per confrontarsi direttamente con quanto avviene nel resto del mondo. La stessa fortezza inizia a configurarsi, proprio dai primissimi anni del nuovo millennio, come osservatorio sullo stato dell’arte in città, ospitando, senza soluzione di continuità e fino ad oggi, mostre personali e collettive dedicate ad artisti napoletani o attivi a Napoli. Intanto, nel 2005 viene inaugurato il Museo Madre, una nuova istituzione pensata sul modello dei grandi musei d’arte contemporanea europei, ma che raccoglie il testimone di un modus operandi consolidato: installazioni site-specific e mostre temporanee di grandi artisti. È il suggello di quanto si è fatto fino a questo momento per proiettare la città sulla scena internazionale. Le sue vicende resteranno a lungo, più di quanto si sarebbe voluto, vincolate a quelle politiche, ma tra alti e bassi il museo resta, insieme con le ormai numerosissime gallerie, un’autorevole vetrina della contemporaneità, ora più defilata, ora in vivace e aggiornata attività (45).
Delle vicende che porteranno, cinque anni più tardi, all’apertura di un nuovo museo dedicato al Novecento napoletano si tratterà nei prossimi numeri. Basterà qui soffermarsi sugli sforzi che, pur in misure e con esiti diversi, seguendo oscillazioni inscindibili dall’andamento della vita politica e sociale della città, sono stati fatti perché Napoli si aprisse alla cultura artistica contemporanea e uscisse, insieme con l’arte, ‘fuori dall’ombra’, offrendo sempre più occasioni di respiro internazionale, senza però lasciare all’oblio le fatiche della sua storia. Il Novecento a Napoli è una strada irta, sul piano artistico e culturale, verso l’affrancamento da uno stato di marginalità. Verso la fine del secolo, poi con una velocità esponenziale dall’inizio del Duemila, non vi è più differita con il resto d’Italia e del mondo, né si può più dire che gli artisti napoletani non trovino, almeno in parte, i loro spazi di espressione e riconoscimento. Negli anni Dieci, artisti napoletani di generazioni diverse trovano sostegno in numerose gallerie e sono presenti in mostre che si tengono in quasi tutti i musei della città. Al contempo, la geografia di questa presenza sembra assumere, tra scelte progettuali e occasioni contingenti, caratteri sempre più definiti; accanto a Castel Sant’Elmo e a Villa Pignatelli, la Certosa di San Giacomo a Capri e il Museo Duca di Martina in Villa Floridiana divengono nuovi spazi di documentazione delle arti contemporanee. I linguaggi sono decisamente al passo coi tempi, la sua diffusione in una città ormai aperta al mondo è capillare.
Resta la valutazione in retrospettiva di quanto si è fatto per raggiungere l’obiettivo; delle spinte e delle resistenze, delle passioni e delle pigrizie, delle ingenuità e degli azzardi, delle aspirazioni e degli impedimenti. Sarà opportuno, in altra sede, analizzare con attenzione il peso che alcuni passaggi degli ultimi due decenni hanno avuto sulle iniziative legate all'arte contemporanea a livello locale: in particolare, la riforma del Titolo V (2001), l’esternalizzazione di servizi e competenze e le Riforme Franceschini (2014, 2016, 2019). Certamente hanno determinato trasformazioni significative nella capacità di offerta dei singoli musei, sotto il profilo tanto delle disponibilità finanziarie, quanto delle risorse professionali. In questo quadro l'arte contemporanea ‘napoletana’, sulla quale è ormai caduto ogni pregiudizio istituzionale, riesce comunque a trovare la sua collocazione, sebbene attraverso compromessi ed equilibrismi. Guardando alla situazione attuale delle arti da questo punto di vista, così come sul piano dell’aggiornamento dell’espressione artistica e della caduta di tabù sulle ricerche più recenti, per riprendere le parole di Argan, ‘non esiste, oggi, un problema “napoletano”’; se vi è un ‘problema’, va piuttosto ricercato nel più ampio sistema globale dell’arte, nelle sue ricadute al livello locale, nelle scelte di politica culturale pubblica.

Luglio 2023

1) Questo aspetto viene affrontato sia in alcuni cataloghi di mostre, sia in scritti critici, ed emerge con chiarezza in romanzi e racconti di autori come Domenico Starnone, Anna Maria Ortese, Ermanno Rea. Tra i contributi storico-critici, cfr. AA.VV., Fuori dall’ombra. Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal ’45 al ’65, catalogo della mostra, Napoli, Elio De Rosa editore, 1991; Nicola Spinosa, Angela Tecce (a cura di), 9cento. Napoli 1910-1990 per un museo in progress, Napoli, Electa Napoli, 2010; Angela Tecce (a cura di), Rewind. Arte a Napoli 1980-1990, catalogo della mostra, Napoli, Arte’m, 2014; Angelo Trimarco. Napoli. Un racconto d’arte 1954/2000, Roma, Editori Riuniti, 2002; Vitaliano Corbi, Quale avanguardia? L'arte a Napoli nella seconda metà del Novecento, Napoli, Paparo Edizioni, 2002; Benedetto Gravagnuolo, Napoli dal Novecento al futuro. Architettura, design e urbanistica, Napoli, Electa Napoli, 2008; Renato De Fusco, Arti&Altro a Napoli dal dopoguerra al 2000, Napoli, Paparo Edizioni, 2009.
2) Nella sua recensione alla mostra In margine. Artisti napoletani fra tradizione e opposizione, curata da Mariantonietta Picone a Villa Pignatelli nel 1986, Angelo Trimarco scriveva, soffermandosi sulla stagione futurista a Napoli: «Un gomitolo di episodi e di fatti, fra letteratura e arti figurative, che fanno affiorare sicure vocazioni ed esiti affinati. Ricerche che la Tradizione si è poi incaricata di coprire di polvere e di oblio», Angelo Trimarco, Artisti napoletani fra tradizione e opposizione 1909-1923, in «Paese sera», 4 agosto 1986, ripubblicato in id., Napoli ad arte 1985-2000, Milano, EM, 1999, p. 117.
3) Delle esperienze sorte in questi anni e nei successivi, si è detto: «appartengono, da tempo, al racconto, non soltanto napoletano, ma italiano», Angelo Trimarco, Fuori dall’ombra, recensione della mostra, in «Il Mattino», 3 dicembre 1991, ripubblicata in id., Napoli ad arte, cit., pp. 125-126.
4) Giulio Carlo Argan, in Lea Vergine (a cura di), Inchiesta sulla cultura a Napoli, «Marcatré», n. 14-15, maggio-giugno, 1965, p. 19.
5) «Dopo i timidi tentativi di rinnovamento, che si ebbero nel 1944 con la prima esposizione della Libera associazione degli artisti napoletani alla galleria Forti, segnali di novità vennero dalla rivista “Sud” (1945-1947) […]. Il programma ambizioso era quello di riannodare i fili della cultura napoletana con quella italiana ed europea», Mariantonietta Picone Petrusa, L’arte a Napoli nella prima metà del Novecento, in Nicola Spinosa, Angela Tecce, 9cento, cit., p. 47; sulle vicende dell’arte nell’immediato dopoguerra si vedano anche il saggio di Angela Tecce, Tra due crisi, nello stesso volume e AA.VV., Fuori dall’ombra, cit., in part. pp. 31-90.
6) Cfr. Maria Teresa Penta, Attività delle istituzioni, in AA.VV., Fuori dall’Ombra, cit., pp. 91–106: 93-94.
7) Così Ferdinando Bologna in Lea Vergine (a cura di), Inchiesta sulla cultura a Napoli, cit., p. 20.
8) Ivi, p. 52.
9) Cfr. Dizionario biografico dei soprintendenti storici dell'arte, 1904-1974, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per il patrimonio storico artistico e etnoantropologico; Centro studi per la storia del lavoro e delle comunità territoriali, Bologna, Bononia University Press, 2007, pp. 183-193: 186.
10) «[…] ci deve essere la storia che seleziona, e successivamente a distanza di anni, queste gallerie possono trasformarsi in musei. Non sono mai riuscito a riconoscere la qualifica di museo ad una galleria di arte moderna. Inevitabilmente una galleria d’arte moderna deve essere composta, per buona parte, di paccottiglia della quale la critica e la sensibilità devono fare presto o tardi giustizia», Raffaello Causa, vd. supra, nota 7.
11) Cfr. Anna Caputi, Storia della Raccolta, in Anna Caputi, Raffaello Causa, Raffaele Mormone (a cura di), La Galleria dell’Accademia di Belle Arti in Napoli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1972, pp. 89-97.
12) Cfr. Nicola Spinosa, Un patrimonio da riconquistare, in «AD/Napoli», supplemento a «AD Architectural Digest», 1986, pp. 10, 140.
13) Cfr. Maria De Vivo, Raffaello Causa e il “vigile amore” per l’arte contemporanea, in Fabrizio Vona (a cura di), In onore di Raffaello Causa, Napoli, Arte’m, 2015, pp. 80-87.
14) Cit. Nicola Spinosa, prefazione a Angela Tecce (a cura di), Museo Nazionale di Capodimonte. Arte contemporanea, op. cit., p. 10.
(15) Ibidem. Domenico Spinosa (Napoli, 1916 – 2007), padre di Nicola, Armando De Stefano (Napoli, 1926 – 2021), Gianni Pisani (Napoli, 1935 – 2022), Mathelda Balatresi (Carcare, Salerno, 1937), Rosa Panaro (Casal di Principe, Napoli, 1935 – 2022), Giannetto Bravi (Tripoli, 1938 – Cislago, Varese, 2013), Carmine Di Ruggiero (Napoli, 1934), Errico Ruotolo (Napoli, 1939 – 2008): i nomi citati sono di artisti napoletani, per lo più attivi a partire dalla fine degli anni Cinquanta e dai primi anni Sessanta.
16) Via Cesare Rosaroll è una delle principali vie che si snodano dalla zona di Porta Capuana, citata da Nicola Spinosa, NdA.
17) Domenico Starnone, Via Gemito, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 140. Nel romanzo, vincitore del Premio Strega nel 2001, lo scrittore, figlio del pittore Federico Starnone (Napoli, 1917 – Luino, Varese, 1998), traccia la figura di un padre irascibile e frustrato, in perenne scontro con un mondo in cui non vede riconosciuto il suo talento.
18) Gianni Pisani in Lea Vergine, op. cit., p. 52.
19) Cfr. Maria Teresa Penta, op. cit., pp. 91-98.
20) Cfr. Fernanda Capobianco, Vincenzo Ciardo, scheda, in Nicola Spinosa, Angela Tecce (a cura di), 9cento, cit., p. 150.
21) La lucida analisi di Maria Teresa Penta, che inserisce la situazione delle arti nel più ampio panorama sociale e culturale della città, sembra così chiarire il ‘peccato originale’ della questione napoletana: «Non va sottovalutata la situazione socio-politica della città in questo giro d'anni; è il momento del laurismo e dell'avanzata di una borghesia che non si distingueva certo per acume o cultura e che non aveva interesse a creare strutture efficaci capaci di programmare sistemi di partecipazione ai problemi che l'arte contemporanea andava ponendo. Arroccata attorno ad una tradizione conservatrice, la società napoletana mostrava la massima indifferenza, se non addirittura fastidio, verso l'arte contemporanea e ingrossava le fila del collezionismo di vecchia maniera. [...] Sicché anche dagli ambienti in cui si vantava un presunto amore per l'arte non poteva derivare nessuna spinta ad un discorso nuovo», Maria Teresa Penta, op. cit., p. 99.
22) Cfr. Lea Vergine, Il significato dell’Accademia, in id., Inchiesta sulla cultura a Napoli, cit., p. 48 e Filiberto Menna, Per una riforma delle Accademie di Belle Arti, in «Il Mattino», 30 gennaio 1973.
23) Cfr. Lea Vergine, Le gallerie – Il collezionismo – Il mercante d’arte, in id., op. cit., pp. 59-64.
24) Per un approfondimento sull’attività della galleria Il Centro, vd. Stefania Zuliani, Il centro 1960-2005. Storie ed eredità di una galleria, Napoli, Electa, 2006.
25) Katia Fiorentino, Gli spazi dell’espressione, in AA.VV., Fuori dall’ombra, cit., pp. 116-117.
26) Per una ricostruzione dell’attività espositiva della Libreria Guida, vd. Maria De Vivo, La saletta rossa 1963-1974. Dieci anni d'arte alla Guida, Napoli, Guida, 2008. Oltre all’elenco delle mostre presentate alla saletta rossa, il volume contiene in appendice anche il calendario delle mostre tenute alla Libreria Minerva. Per una più ampia disamina sull’attività culturale della Libreria Guida, si rimanda a AA.VV., Una libreria per la città. Guida a Napoli, Napoli, Guida, 1988.
27) Cfr. Katia Fiorentino, Gli spazi dell’espressione, cit., pp. 107-118.
28) Cfr. Angelo Trimarco, Amalfi. La rassegna di pittura. 1966 – 1968, in id., Napoli. Un racconto d’arte 1954/2000, cit., pp. 53-59. Alla figura di Marcello Rumma è stata recentemente dedicata la mostra I sei anni di Marcello Rumma. 1965-1970, a cura di Gabriele Guercio e Andrea Viliani, Napoli, Museo Madre, 14 dicembre 2019 – 13 aprile 2020.
29) Cfr. Stefania Zuliani (a cura di), La costruzione del nuovo. Salerno 1966 – 1976: documenti immagini testimonianze, catalogo della mostra, Salerno, Edizioni 10/17, 2005.
30) Angelo Trimarco, Filiberto Menna. L’esperienza di un critico d’arte militante, in id., op. cit., p. 139.
31) «Napoli era legata alla scuola di arte moderna di Ferdinando Bologna, mentre Salerno con Menna si apriva alle arti contemporanee», ricorda Trimarco in Renata Caragliano, Angelo Trimarco: «Io nella squadra vincente con Menna e Bonito Oliva», in «Repubblica», 8 gennaio 2012: https://ivoltidinapoli-napoli.blogautore.repubblica.it/2012/01/08/angelo-trimarco/ (consultato l’8 luglio 2023).
32) Angelo Trimarco, Filiberto Menna, cit., p. 143.
33) Cfr. Filiberto Menna, La ricerca artistica in Italia meridionale e le strutture sociali della comunicazione estetica, in Ricognizione ’71. Giovane arte meridionale, catalogo della mostra, Roma, Morara, 1971. A commento dell’esposizione il critico scrive: «questi artisti operano all'interno delle più avanzate tendenze dell'arte d'oggi, pervenendo non di rado a risultati convincenti, ma la lontananza geografica, la perifericità della loro condizione intellettuale fanno pure sentire le loro conseguenze, traducendosi spesso, sul piano concreto delle opere, in una lieve sfasatura rispetto ai tempi operativi di altre situazioni più "centrali"», Filiberto Menna, Giovane arte meridionale a S. Maria Capua Vetere. Una rassegna sistematica di una più complessa condizione culturale problematica – Lo scacco e la riuscita degli artisti, in «Il Mattino», 17 novembre 1971, p. 11.
34) Renata Caragliano, “Un decennio di euforia”. Intervista a Achille Bonito Oliva, in Angela Tecce (a cura di), Rewind, cit., p. 34.
35) Vd. Raffaello Causa (a cura di), Le collezioni del Museo di Capodimonte, Milano, Touring Club Italiano, 1982, p. 14.
36) All’incontro organizzato da Amelio è dedicata una puntata del programma Variety del 1981: https://www.raicultura.it/arte/articoli/2018/12/Andy-Warhol-Una-giornata-come-tante-912b490a-935b-4283-aeb4-beebf1b4248a.html (consultato l’8 luglio 2023).
37) Cfr. Andrea Viliani (a cura di), Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982): documenti, opere, una storia…, catalogo della mostra, Milano, Mondadori Electa, 2015.
38) Vesuvius by Warhol, Napoli, Museo di Capodimonte, 18 luglio – 31 ottobre 1985 e Joseph Beuys. Palazzo Regale, Napoli, Museo di Capodimonte, 23 dicembre 1985 – 30 marzo 1986.
39) Piazza d’Arte fu il titolo della serie di interventi site-specific promossi dal Comune di Napoli e realizzati da artisti italiani e stranieri in Piazza del Plebiscito tra il 1995 e il 2009, con la regia di Achille Bonito Oliva ed Eduardo Cicelyn, NdA. Vd. Eduardo Cicelyn (a cura di), Piazza d’Arte. Napoli 1995-2009: Quindici anni di installazioni in Piazza del Plebiscito, Napoli, Arte’m, 2010.
40) Nicola Spinosa in Olga Scotto di Vettimo, La collezione d’arte di Capodimonte e gli anni Ottanta, in Angela Tecce (a cura di), op. cit., p. 28.
41) Angelo Trimarco, Una cartografia dell’arte sulla soglia di due millenni, in id., op. cit., p. 132.
42) «mentre in altre importanti città le gallerie chiudono per la crisi sempre più pungente, a Napoli, negli ultimi due o tre anni, nuovi “spazi” si sono affiancati ai luoghi dell’arte più consolidati e conosciuti», scrive Angelo Trimarco nell’articolo Gli spazi dell’arte apparso su «La Voce» nel 1995 e ripubblicato in id., Napoli ad arte, cit., pp. 133-134.
43) Ibidem.
44) Angela Tecce, 1955-1965. Un decennio di impazienza, in AA.VV., Fuori dall’ombra, cit. p. 89.
45) Per un’articolata, sebbene ormai datata, disamina delle realtà attive nel contemporaneo in città, si rimanda a Stefania Zuliani (a cura di), Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del museo d’arte contemporanea, Torino, Bruno Mondadori, 2006, pp. 127-162.