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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Parte III. Museo e identità culturale

Brunella Velardi
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Una città è, al di sopra di ogni altra cosa,
il suo contenuto culturale, artistico, il suo significato.
Per le nostre città, le grandi città italiane, è quindi necessario,
prima di tutto, avere consapevolezza del proprio ethos,
delle proprie radici, del proprio senso storico,
della propria memoria.
Massimo Cacciari (1)
 
Solo perché si mettevano contro se stessi
e perché erano sempre contro se stessi,
è riuscito a tutti loro di resistere.
L’ottimismo partenopeo, di cui si farnetica,
attesta una vocazione al dolore.
Lea Vergine (2)
 
Sebbene non costante né lineare, il rapporto tra la città e il suo contesto artistico ha avuto un ruolo significativo nella definizione dell’identità culturale di Napoli, con momenti di grande fertilità tanto dal punto di vista dell’offerta e della partecipazione, determinate spesso da forti politiche di investimenti e da sinergie istituzionali, quanto dal punto di vista del dibattito sullo stato dell’arte.
Del primo aspetto la città raccoglie ancora i frutti, come testimonia la cospicua presenza di interventi nel tessuto urbano, di installazioni in quello infrastrutturale, e di spazi dedicati, pubblici e privati, che rivelano una concentrazione non comune rispetto ad altre realtà (3). Numerose poi sono state le occasioni di ricognizione e di confronto sulla situazione della cultura in città, dimostrazione di una volontà di scambio anche in una prospettiva progettuale, e a più riprese il dibattito culturale si è intrecciato con la questione identitaria. Ma la tradizionale adesione dell’immagine di una città a quella del suo centro storico trova, a Napoli, precipua corrispondenza in un patrimonio ereditato e continuamente aggiornato, reinterpretato, incrementato, nell’incessante scambio tra la città contemporanea e il proprio passato (5). L’ormai consolidato dialogo tra arte contemporanea e contesti storici, infatti, sembra assumere qui un carattere di inevitabilità, trovando una programmatica applicazione proprio nelle mostre di artisti viventi allestite nella residenza ottocentesca di Villa Pignatelli, per poi sfociare nel caso ‘eclatante’ della mostra di Alberto Burri al Museo di Capodimonte nel 1978 (6) e fino all’innesto, in quello stesso museo, della prima collezione permanente d’arte contemporanea tra prestigiose raccolte d’arte antica. Un dialogo non sempre o non solo accostabile al concetto di rigenerazione urbana (7), che di fatto si è declinato sempre su scale diverse, penetrando sia nel tessuto architettonico (8), sia nel tessuto urbano secondo modalità tanto informali quanto istituzionali (9) e alimentando la già complessa stratificazione della memoria culturale nei luoghi della città.
D’altra parte, il nesso, già messo a fuoco, tra storia dell’arte e storia della città, può ben chiarire quanto gli sviluppi urbani e sociali siano intrinsecamente correlati alle vicende politiche da un lato, a quelle artistiche dall’altro, in un continuum che si è rivelato particolarmente evidente in alcuni snodi della recente storia di Napoli. Se è vero che «una città è essenzialmente ‘memoria’, che di tale memoria è permeata la cultura della comunità e del territorio, che memoria e cultura sono insostituibili ‘conferitori’ di identità» (10) e che, nel centro storico di Napoli, specchio della sua identità, sono proprio le opere d’arte – dipinti, sculture, obelischi, architetture, impianti urbanistici, secondo quella progressione di scala che Giulio Carlo Argan leggeva come priva di cesure disciplinari – a configurarsi come testimoni di una storia che ancora oggi permea il carattere più profondo della città, si chiarisce allora come l’espressione artistica sia essa stessa tramite dell’individualità della città, in epoca contemporanea come in passato; o, in altre parole, come «[…] i prodotti artistici sono quelli che qualificano la città in quanto tale» (11).
Inciso, quest’ultimo, che svela una forma di reciprocità nel pensiero di Argan quando, pochi giorni prima che si chiudesse la sua vicenda di sindaco di Roma, affermava che «[…] le differenti arti formano sistema in quanto tutte insieme, con le loro diversità categoriali, procedurali e di livelli quantitativi e qualitativi, costituiscono la città, che dunque può considerarsi il campo où tout se tient» (12). Fuori da insostenibili paragoni, la confluenza di una esplicita e strutturata lettura della città in chiave storico-artistica (13) nell’esperienza a capo dell’amministrazione comunale e lo statuto dell’arte come tratto identitario della città, riportano alla considerazione di Napoli come ‘città d’arte’, quale si è andata delineando a partire dalla seconda metà del secolo scorso e, ancor più, negli ultimi decenni del secolo, in concomitanza con una serie di iniziative istituzionali che, affiancandosi ad un lavorio già avviato da gallerie e imprese private, ne hanno ridefinito il volto dopo decenni di decadenza politica e sociale.
In molte occasioni, e non senza retorica, si è parlato di un nuovo corso per la città, a partire dalla prima metà degli anni Novanta. Senza volerci addentrare in un tema ampiamente dibattuto (14), basterà qui sottolineare, con la distanza storica di oltre due decenni, il ruolo che le iniziative in ambito culturale intraprese tra gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Duemila, tanto nel campo dell’iniziativa privata quanto nell’ambito della gestione pubblica – e ancor più laddove le due realtà hanno saputo operare in stretta sinergia – hanno avuto nella ridefinizione di una identità della città che, al di là di suggestioni oleografiche o letterarie (15), ha avuto sempre come proprio cardine, appunto, l’eredità culturale e artistica in particolar modo.
Un’identità, peraltro, mai specificamente locale, ma semmai fatta di continue negoziazioni e contaminazioni. «I contributi fondamentali di studiosi come Roberto Pane e Raffaello Causa hanno chiarito esaurientemente come la cultura artistica napoletana non sia in nessun modo autoctona, delimitabile nell’ambito di “scuole” locali o, più precisamente, come le scuole locali si caratterizzino per una straordinaria capacità di assunzione ed elaborazione, spesso sottilmente critica, di apporti esterni. È evidente che le radici del non-autoctonismo della cultura artistica napoletana possono ricercarsi nella storia più antica della città» (16). Questo aspetto, pur riferito alle arti in epoca moderna, può tuttavia facilmente estendersi ad una lettura delle arti nel Novecento, quando la ricezione di prassi e la circolazione di correnti ideologiche si è declinata a Napoli in forme profondamente radicate al contesto locale (17) o, viceversa, in esiti del tutto autonomi (18), rivelando sempre una forte impronta osmotica, capace di esprimere e ricevere, rispettivamente, radici profonde e stimoli esterni. Impronta che, d’altro canto, proprio nelle dinamiche del mondo dell’arte contemporanea di fine Novecento trovava le sue massime declinazioni (19).
In questa prospettiva, il ruolo del museo d’arte contemporanea, «centro vivo della cultura visiva» e, in quanto tale, «componente attiva dello studio e dello sviluppo della città» (20), ne esce ulteriormente circostanziato, in quanto collettore e produttore di identità, luogo di riconoscimento e autorappresentazione insieme della collettività. Una possibilità di indagine sul secolo da poco concluso, dunque, ma anche una forma di museo della città, che di questa tipologia si configuri come branca disciplinare, o sezione, in grado di valorizzare, accanto alla collezione, i suoi contesti (21).
Nel più ampio panorama nazionale, d’altro canto, l’esigenza di raccogliere e studiare le testimonianze dello scorso secolo appare rappresentata da numerose istituzioni di diversa natura, tra le quali basterà citare il Museo del Novecento di Milano, in primis, e quello di Firenze, aperto più di recente, mentre, allargando lo sguardo dal campo artistico a quello più esteso della memoria culturale, il Polo del ‘900 a Torino e l’M9 a Mestre rivelano appunto una consapevolezza storica del recente passato e, al contempo, la necessità di salvare dalla dispersione le testimonianze delle più dirette radici del presente. Un’esigenza retrospettiva comprensibile, a maggior ragione, in relazione all’umana necessità di riconoscere quei tasselli che compongono l’identità individuale, nella consapevolezza che questi si danno compiutamente nello scorrere del tempo (22).
L’istituzione del Museo Novecento a Napoli a Castel Sant’Elmo nel 2010 (23) appare, allora, come frutto di una necessità almeno duplice. Da un lato, come atto di resistenza a fronte di un mondo dell’arte orientato alle regole di un mercato che, in città, più che le spinte innovatrici dei suoi artisti, ha favorito troppo a lungo l’impostazione conservatrice dell’Accademia e, in seguito, ha avuto più forza nella promozione di un’arte “di importazione” (24); dall’altro, come doveroso riconoscimento di una creatività locale che è stata in grado di contribuire al dibattito intellettuale e, non di rado, di farsene promotrice.

Gennaio 2024
1) Massimo Cacciari, Non potete massacrarmi Napoli! Conversazione con Massimo Cacciari, in Claudio Velardi (a cura di), La città porosa. Conversazioni su Napoli, Napoli, Cronopio, 1992, p. 160.
2) Lea Vergine, Acre la gioia dell’ombra, in AA.VV., Fuori dall’Ombra. Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal ’45 al ’65, catalogo della mostra, Napoli, Elio De Rosa editore, 1991, p. 468.
3) Particolarmente significativa la presenza di gallerie, piccole, medie e grandi, in grado di favorire un’offerta culturale di ampio raggio, configurandosi come costante opportunità di confronto con esperienze italiane e straniere: «[…] impossibile elencarle tutte, le gallerie attive in questi anni in città, che per altro hanno fatto, e fanno, di Napoli la città con maggiore concentrazione e la più diversificata proposta galleristica in Italia, insieme a Milano (primato non scontato e forse, soprattutto, non sufficientemente percepito», Andrea Viliani, La capitale delle arti contemporanee, in Ottavio Ragone (a cura di), Quaranta voci per Napoli, «Quaderni del Circolo Rosselli», anno XXXVI, fascicolo, 124, 1-2, 2016, p. 190.
4) Se una fotografia assai eterogenea soprattutto nelle posizioni emergeva nell’Inchiesta sulla cultura a Napoli della metà degli anni Sessanta, cfr. Lea Vergine (a cura di), Inchiesta sulla cultura a Napoli, «Marcatré», n. 14-15, maggio-giugno, 1965, altrettanto diversificate apparivano le proposte presentate durante la rassegna “La settimana nel castello”, quando, ormai accantonato ogni progetto di demolizione del forte e avviati i lavori di restauro, si aprì il dibattito sulla destinazione di Castel Sant’Elmo, nel quale confluirono istanze economiche, sociali, urbanistiche, cfr. Beni ambientali e culturali: esperienze e proposte, atti della rassegna “La settimana nel Castello”, Napoli, Società editrice napoletana, 1980. E ancora, la prospettiva urbanistica ha svolto un ruolo centrale all’interno del numero che i «Quaderni del Circolo Rosselli» dedicavano a Napoli alle soglie del nuovo millennio, in cui si raccoglievano riflessioni stimolate dalle politiche attuate dall’amministrazione Bassolino, cfr. Pasquale Coppola (a cura di), La Napoli del 2000, «Quaderni del Circolo Rosselli», anno XIX, n. 64, 14, 1999.
5) Questa reciproca relazione tra eredità e contemporaneità viene chiarita da Spinosa quando afferma, parlando di Napoli, che è una città dove «il patrimonio artistico convive con le realtà sociali, economiche, commerciali. Dove cioè il patrimonio artistico non è visto come un museo ma come parte di una vita in continua trasformazione, con le sue ombre, le sue luci, la miseria e la nobiltà», Nicola Spinosa, Napoli. Voci per una città, a cura di Enzo Marzano e Antonella Ciancio, Adriano Gallina Editore, Napoli, stampa 1994, p. 29.
6) Alberto Burri, a cura di Raffaello Causa, Napoli, Museo di Capodimonte, maggio – settembre 1978. La continuità tra antico e contemporaneo che a Capodimonte, più ancora che con la mostra, ebbe un esito del tutto inedito con l’allestimento del Grande Cretto Nero realizzato da Burri appositamente per il museo, diverrà costante con le installazioni in situ degli anni Ottanta, confluite poi nella sezione permanente.
7) Cfr. Anna Detheridge, Arte e rigenerazione urbana in quattro città italiane, in Carlo Birrozzi e Marina Pugliese (a cura di), L’arte pubblica nello spazio urbano. Committenti, artisti, fruitori, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 39-61. A proposito delle installazioni nelle stazioni della metropolitana, l’autrice scrive: «il tema della rigenerazione urbana a Napoli assume una valenza progettuale e strutturale per l’intero territorio regionale e la produzione di arte e architettura di qualità acquista l’importanza di un manifesto politico in difesa della democrazia», ivi, p. 40.
8) Palazzo Donnaregina con il Museo Madre, Castel Sant’Elmo con il Museo Novecento a Napoli, Palazzo Cassano d’Aragona con Casa Morra, una delle sedi dell’omonima fondazione, Palazzo Caracciolo di Avellino con la Fondazione Morra Greco, Villa Pignatelli con la Casa della Fotografia sono solo alcuni dei casi tra i più significativi di edifici storici aperti alle più recenti sperimentazioni dell’arte.
9) Si pensi alla massiccia presenza di opere di street art nel centro antico, agli interventi di artisti come Jannis Kounellis (Mulino, Napoli, via Ponte di Tappia, 1998) e designer come Riccardo Dalisi (Napoli, Rua Catalana, 1999; Vico San Nicola a Nilo, 2001), alla stagione delle installazioni in Piazza del Plebiscito (1995-2009) o, ancora, alle performance di Shozo Shimamoto a Piazza Dante (Un’arma per la pace, 2006) e di Rosy Rox sulla Scala Montesanto (Monumento di passaggio, 2015).
10) Guido d’Agostino, Napoli: un’idea di città, in id., Napoli, Mezzogiorno, Europa, Napoli, Liguori, 2008, p. 73.
11) Bruno Contardi, Premessa, in Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte come storia della città, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 7. Per chiarire tale posizione, l’autore prosegue: «esisterebbe Corinto, quale noi la conosciamo, senza la produzione vascolare che ne diffonde il nome in tutto il Mediterraneo o, nel Medioevo, si riconoscerebbe la città senza quegli straordinari segni urbani che sono le cattedrali e, più tardi, senza il monumento che, della città, e della sua storicità, è la più compiuta autorappresentazione?», ivi, pp. 7-8.
12) Giulio Carlo Argan, Città ideale e città reale (1979), ivi, p. 85.
13) Precedentemente, lo studioso aveva scritto: «Come attività collegata fin dalle più remote origini […] alla borghesia, l’arte appare come, l’arte appare come attività tipicamente urbana: e non soltanto inerente, ma costitutiva della città, che infatti è stata considerata per molto tempo (fino all’attuale degradazione del fenomeno urbano, dovuta appunto alla sconfessione e all’abiura, da parte della borghesia capitalista, dello storicismo borghese), l’opera d’arte per antonomasia», Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte (1969), ivi, p. 50.
14) Si vedano, per un quadro non esaustivo ma indicativo del dibattito sorto in seno alla politica culturale messa in atto dall’amministrazione comunale in quegli anni, Antonio Bassolino, Napoli e la cultura, in «Lettera internazionale», anno 12, n. 50, ottobre-dicembre 1996; AA. VV., Verso un rinascimento napoletano, Napoli, Liguori, 1997; Pasquale Coppola (a cura di), La Napoli del 2000, cit.; Ottavio Ragone, 'Il Rinascimento napoletano? Bassolino lo ha interrotto', in «La Repubblica», 6 ottobre 2000: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/10/06/il-rinascimento-napoletano-bassolino-lo-ha-interrotto.html (consultato il 5 gennaio 2024); Federico Geremicca, Napoli, rinascimento e declino, in «La Stampa», 6 gennaio 2008: https://www.lastampa.it/opinioni/editoriali/2008/01/06/news/napoli-rinascimento-e-declino-1.37112537 (consultato il 5 gennaio 2024); Benedetto Gravagnuolo, Napoli dal Novecento al futuro, Napoli, Electa Napoli, 2008, p. 141.
15) Si è, a più riprese, cercato di legare i caratteri intrinseci di Napoli ad una presunta ‘napoletanità’, o alla sua ‘porosità’; in entrambi i casi, si stratta di definizioni suggestive e tuttavia descrittive solo in parte della sua composita vitalità, degli umori e delle tensioni che la attraversano. Ma, accanto all’impossibilità di tracciare una descrizione lineare della città, la narrazione storica e quella letteraria contribuiscono a restituire un ritratto lucido e sentimentale insieme. Cfr. Paolo Macry, Napoli. Nostalgia di domani, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 165-183; Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994; Walter Benjamin, Immagini di città (1963), Torino, Einaudi, 2007, pp. 3-13.
16) Giulio Carlo Argan, Napoli nell’Europa delle capitali (1975), in id., Storia dell’arte come storia della città, cit., pp. 193-194.
17) Ci riferiamo, solo per fare alcuni esempi, alle modalità con cui sono state recepite le esperienze futuriste, le istanze del Movimento Arte Concreta milanese con il Gruppo napoletano arte concreta, l’informale materico di Renato Barisani e Domenico Spinosa, l’ideologia femminista – legata in artiste come Rosa Panaro ad una tradizione gestuale e alla Pop Art.
18) Basti pensare a figure come quelle di Augusto Perez, Elio Waschimps, Stelio Maria Martini, Carlo Alfano, Luciano Caruso, Vincent D’Arista, Salvatore Emblema, Gianni Pisani, Giuseppe Zevola, il cui lavoro, non sempre o non del tutto ascrivibile a traiettorie codificate, ha conservato comunque tratti di estrema originalità, con esiti spesso di indubbia qualità.
19) «[…] l'esperienza della galleria di Lucio Amelio è stata importantissima sia per ragioni artistiche sia per il fatto che Lucio è un napoletano, ma capace di aperture cosmopolite. Da Lucio ho avuto modo di conoscere, di vedere l'arte dei nostri anni... l'arte che esponeva mi ha dato degli orizzonti, mi ha improvvisamente fornito indicazioni, sollecitato delle aperture che non avrei mai supposto... Lucio è un personaggio proiettato sulla scena internazionale, molto libero. Al tempo stesso, però, è un uomo che non rinnega la sua appartenenza a Napoli, un personaggio insomma profondamente napoletano. Ecco, questo è importante: capire che esiste un mondo, una cultura vasta, diffusa, aperta, libera, e che al tempo stesso in quel mondo si può incidere da Napoli, non rinunciando al proprio essere napoletani. [...] Lucio, Mario Franco con la cineteca Altro, Vittorio Lucariello con Spazio libero. In modi diversi queste persone, questi luoghi mi hanno fatto intendere che Napoli era parte del mondo, non era una città chiusa rispetto al mondo», Mario Martone, Il fantasma della città. Conversazione con Mario Martone, in Claudio Velardi (a cura di), La città porosa, cit., pp. 55-56.
20) Giulio Carlo Argan, Città ideale e città reale, in id., Storia dell’arte come storia della città, cit., p. 90.
21) Cfr. Daniele Jalla, Il museo della città. I modelli del passato, le esigenze del presente, in Eloisa Gennaro (a cura di), Il museo, la città e gli uomini: la ricerca antropologica al servizio dell'educazione museale, Ravenna, Provincia di Ravenna, 2009, pp. 11-16: 13.
22) «Il chiudersi di un secolo - e quale secolo, sia esso "breve" o "lungo" - certo non definisce di per sé la scansione periodizzante del movimento della storia […]. Però non è dubbio che tutti, studiosi o no, siamo propensi, fosse pure soltanto per acquiescenza psicologica e comportamentale, a vedere nel chiudersi dei cento anni una cesura, o quanto meno il raggiungimento di una tappa nel cammino dell'umanità. Figurarsi poi quando il chiudersi di un secolo segna anche il chiudersi di un millennio». Così scrivevano i direttori di un’opera, purtroppo incompiuta, nata con lo scopo di realizzare una “cronaca” del Novecento a Napoli e in Campania che raccogliesse tutto quanto fosse accaduto nei diversi campi della conoscenza in quel secolo. Vd. Alda Croce, Fulvio Tessitore, Domenico Conte, Presentazione, in Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo, vol. II, Napoli, Liguori, 2007.
23) Si rimanda, per la trattazione sulle origini del Museo, ai “capitoli” precedenti dell’articolo sul Novecento a Napoli, pubblicati su questa rivista da chi scrive: Parte I. La situazione delle arti 1945 – 2010, in «Unclosed», Numero 39, anno X, del 20/07/2023: https://www.unclosed.eu/rubriche/documenti/documenti-archivi-dati-testimonianze-imprese/433-novecento-a-napoli.html e Parte II. Dalle mostre temporanee all’istituzione del museo nel ‘sistema’ Castel Sant’Elmo, in «Unclosed», Numero 40, anno X, del 20/10/2023: https://www.unclosed.eu/rubriche/documenti/documenti-archivi-dati-testimonianze-imprese/443-novecento-a-napoli-2.html.
24) Sul delicato discorso sui rapporti tra l’ambiente artistico napoletano e le altre realtà italiane, sulle radici e la persistenza di un provincialismo da cui la città non si è ancora del tutto affrancata, vale la pena riportare la riflessione di Penta che, sebbene riferita a oltre mezzo secolo fa, aiuta a chiarire la natura degli scambi che hanno a lungo improntato le dinamiche del mercato e del collezionismo, determinando il posizionamento di Napoli nel contesto culturale italiano: «Rimaneva però l'emarginazione non solo e non tanto rispetto alla città [...], ma in uno con essa rispetto al paese; si percepiva proprio negli anni del boom economico la progressiva divaricazione fra le due Italia. Erano gli anni del governo laurino [...]; unica attività produttiva sembrava essere quella edilizia, che si riduceva a pura speculazione; era il momento delle "mani sulla città" che comportò lo sfacelo urbanistico, e ad esso strettamente collegato lo stabilizzarsi di un disagio sociale profondo e irreversibile [...]. Questo significò anche che il lento avanzare di un mercato artistico aperto alla sperimentazione e al nuovo, nel deprimente panorama tradizionalista, presentava un'insidia: quella di essere l'avamposto di una operazione di colonizzazione dal nord. L'arrivo massiccio, da un certo momento in poi, di opere del centro-nord, non favoriva tanto il contatto o una possibilità di conoscenza e di dialogo per gli artisti napoletani, quanto piuttosto mirava a creare nuovi territori di conquista e di sfruttamento, senza dare nulla in cambio. I critici, lamentava Raffaello Causa, di fama nazionale erano troppo pigri per uscire dalle conoscenze milanesi e romane, e fare lo sforzo di scendere al sud a cercare personalità nuove. C'è da chiedersi se questa "pigrizia" non fosse invece funzionale al sistema del mercato che non aveva interesse a spostarsi al sud; gli bastava qualche rappresentante locale cui fare arrivare mostre o opere di buon livello, ma già "consumate" e quindi con il loro potenziale di novità e di polemica già scontato. Al mercato nazionale non interessava creare un ambiente di dibattito culturale, ma guadagnare consensi per vendere; semmai cooptare gli artisti, chiamandoli a trasferirsi al nord. [...] Più che crisi di disagio esistenziale di singoli artisti che non riuscivano a recuperare le fila della propria identità in un contesto che poggiava su di un enorme vuoto progettuale, la crisi è appunto storica», Maria Teresa Penta, Attività delle istituzioni, in AA.VV., Fuori dall’Ombra, cit., pp. 91–106: pp. 105-106.