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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La 55 Biennale di Venezia

di Patrizia Mania

Come può la babele enciclopedica nella quale siamo immersi trovare un'adeguata comprensione? Che la sterminata mole di saperi opprima e renda superfluo ogni tentativo univoco di sistematizzazione è un dato incontrovertibile. Nel diluvio incessante di informazioni e conoscenze una possibile via d'uscita dalla vertigine dell'eccesso potrebbe consistere nel percorrere il proprio immaginario, nel dare statuto alla soggettivazione e con essa concedere spazio alla dimensione del sogno. Altrimenti detto, rendere commensurabile e possibile quel che sembrerebbe inconseguibile accettando di misurarsi con esiti parziali e limitati, anzi presupponendoli.

Questo, in forzata sintesi, l'assunto della 55 Biennale di Venezia.

Ed è probabile che proprio in questo proposito risieda la ragione per cui questa 55 edizione della Biennale di Venezia si è fin da subito distinta dalle precedenti per via di un consenso per lo più unanime. E' come se ciascuno si sia riconosciuto in questa ipotesi di arginare la corsa ansiosa e frustrante di abbracciare il tutto e abbia trovato modo di rassicurarsi nella prospettiva ritagliata. Il suo curatore, Massimiliano Gioni, sembrerebbe aver così messo d'accordo quasi tutti disegnando il suo Palazzo Enciclopedico che prendendo spunto dal progetto mai realizzato di Mario Auriti, quello della creazione di un palazzo di 136 piani dove allocare tutto il sapere, ha portato alla realizzazione di una mostra che si snoda per il Padiglione centrale ai Giardini e per l'Arsenale in percorsi plurimi di riflessione sull'immaginario possibile. In primo luogo, quello dello stesso curatore che ha esplorato partendo da Jung e dai suoi archetipi gli immaginari di eruditi, di intellettuali scomodi come Roger Caillois di cui è esposta la collezione di minerali, e di comunità e individui, con manufatti e testimonianze che in alcuni casi pur non avendo a che vedere con l'arte in senso stretto vi vengono assimilati per vocazione d'intenti. Si vedano, a tal proposito, le bambole di Morton Bartlett costruite in creta e gesso e facenti parte di una collezione esposta solo postuma e che benché descrivano del loro autore più di quanto ci sia stato tramandato hanno popolato l'immaginario di questo singolare artigiano/artista che vi aveva dedicato un'intera vita. A ben vedere l'idea prometeica di poter abbracciare tutto lo scibile facendosi guidare dalle proprie emozioni era già tutta contenuta nel pensiero surrealista ed è al surrealismo che qui si rimanda anche negli sconfinamenti praticati in un orizzonte allargato del sapere. E, se nel caso di Bartlett è il curatore a esporre un patrimonio manufatto rimasto invisibile e sconosciuto, nel caso delle 387 Houses di Peter Fritz (1916-1992), Insurance Clerk from Vienna, 1993 - 2008 sono due artisti , Oliver Croy e Oliver Elser, a riproporci uno straordinario inventario quasi enciclopedico di tutte le declinazioni degli stili architettonici provinciali realizzato da uno sconosciuto impiegato delle assicurazioni austriaco, Peter Fritz appunto, che ci ha lasciato questo enorme corpus di modellini.

Mischiare e attraversare soggetti, metodi e discipline è, vistene le premesse, difficilmente contestabile in sè, ne si può forse solo constatare l'efficacia che risulta innegabile, al di là di una contenuta implicita fatica del visitatore a attraversare sale con moltitudini di disegni, oggetti, opere, ciascuno dei quali implicherebbe un tempo proprio più consono forse alla dimensione del libro che a quella della mostra.

Forse è proprio nella bulimia di approdi di questa mostra che va colta la più significativa consonanza con l'epoca e la fruizione digitale essendo lo spettatore obbligato a "navigare" lungo il percorso della mostra selezionando le zone di suo interesse e necessariamente trascurandone altre.

Trasferendoci ad una prospettiva d'insieme: in questo straordinario set di mondi immaginari trovano spazio anche installazioni di forte impatto come le 90 sculture di Pawel Althamer dei suoi Venetians che ci immergono nella ritrattistica del territorio. Ogni volto delle sue spettrali figure è calco originale di un abitante di Venezia, posto lì quasi ad implorare uno sguardo. A dominare nel percorso dell'esposizione sono però prevalentemente gli archivi, ciascuno con proprie specifiche spesso spaesanti, come quello di Linda Fregni Nagler, nella sua installazione The Hidden Mother composta da foto ritratto di bambini, dalle quali è stata letteralmente cancellata la madre che lo tiene in braccio, oppure fotografati già morti, sottratti alla vita. E, a ribadire il piano di costante slittamento antropologico, sono esposti, nell'eloquenza della loro anatomica frammentarietà, anche alcuni ex voto provenienti dal santuario di Romituzzo.

L'idea dell'enciclopedia, è presente, tra gli altri, nel lavoro Plötzlich diese Übersicht [All'improvviso una rivelazione] (1981 - 2012) di Peter Fischli e David Weiss consistente in una collezione di circa 150 sculturine in argilla le cui iconografie spaziano da oggetti d'uso quotidiano alla rappresentazione dei genitori di Albert Einstein che riposano dopo aver concepito il figlio genio. Anche qui, non un filo logico a legare la dimensione reale e quella del sogno, quanto piuttosto un procedere per associazioni di idee che assomiglia propriamente all'automatismo psichico di marca surrealista. E nel percorso che privilegia il sogno assume una valenza particolare l'installazione di Rossella Biscotti I dreamt that you changed into a cat...gatto...ha ha ha : un laboratorio onirico realizzato all'interno del carcere femminile della Giudecca durante il quale l'artista ha raccolto i racconti dei sogni di alcune carcerate le cui voci si ascoltano ora tra sculture ricavate dai compostaggi dei rifiuti della prigione e che consentono alle protagoniste di rompere i limiti della reclusione per evadere e raggiungere gli spazi dell'arsenale. Sfidare i limiti fisici è da un altro punto di vista il tema proposto dal video di Arthur Żmijewski dal titolo Blindly del 2010 che esplora la pittura di alcuni non vedenti invitati a dipingere e che mostrano come la pratica della pittura riesca a trasmettere attraverso il gesto l'esperienza interiore, indipendentemente dalla presenza di una memoria visiva, letteralmente "alla cieca".

Spostandoci dalla mostra di Gioni alle partecipazioni nazionali, attraversando i numerosi Padiglioni si resta sorpresi da quanti abbiano assecondato l'idea del palazzo enciclopedico o anche solo la abbiano presupposta sottotraccia. Emblematica la rivisitazione del senso della Gran Bretagna in chiave quasi psichedelica compiuta da Jeremy Deller nelle sale del suo padiglione. Qui, il suo English Magic si propone come una reinterpretazione enciclopedica di particolari eventi o momenti del passato, del presente e di un futuro immaginato della società britannica e della sua articolata storia economica, sociopolitica e culturale. Un accento completamente diverso è quello posto sulla memoria circostanziata del territorio dalla montagna di detriti dell'installazione di Lara Almarcegui nel padiglione spagnolo. Questi cumuli di materiali, composti dai rifiuti e dagli scarichi dell'industria muraria di Murano, che invadono l'intero spazio del padiglione decostruiscono e riattivano per nuovi processi mnemonici da archeologo del presente l'invisibile che resta. A Venezia è dedicata anche l'imponente installazione di Alfredo Jaar nel padiglione cileno. Venezia, Venezia è introdotta da una gigantografia che ritrae Lucio Fontana sulle rovine del suo studio milanese distrutto da un bombardamento nel corso della seconda guerra mondiale, per poi invitarci ad una riflessione sulla caducità e la reversibilità transeunte del tutto: dalla vita di ciascuno ai grandi poteri.

Sempre sul versante di un'archeologia del presente è la proposta dell'artista Akram Zaatari in una complessa installazione nel padiglione libanese che mutua il titolo da una lettera di Albert Camus Letter to a Refusing Pilot per interrogare le aporie della storia, le sue amnesie, e le conseguenze etiche di un rifiuto che, nel caso in esame tratta del rifiuto di un pilota israeliano a bombardare l'area di una scuola. Un caso, riabilitato dalla leggenda alla storia, che ci viene restituito da questa complessa video-installazione come atto rigenerante.

L'esemplarità del frammento storico che rinvia a pensieri più distesi e sistemici sulla scia dell'immaginario possibile è un po' anche la chiave di lettura di uno dei dialoghi formulati nel padiglione Italia: quello che combina sistema/frammento e imbastisce una convivenza tra il laboratorio Piccolo sistema di Gianfranco Baruchello e l'installazione  The Dry Salvages di Elisabetta Benassi. Qui le forze interagenti del laboratorio di Baruchello basate su un pensiero di eco-sostenibilità coniugato alla dimensione onirico creatrice convivono con la dimensione paradossalmente estesa del frammento mnemonico che nell'installazione di Benassi richiama nella mutuazione del titolo da T.S.Eliot l'idea critica del salvataggio dei grandi archivi dei residui spaziali alludendo al loro potenziale catastrofismo.

Si vede bene come la memoria storica sia aspetto ineludibile di prospettive di rilettura plurali.e a questo proposito, particolarmente efficace è da ritenersi il progetto del padiglione rumeno. Con un impianto autoreferenziale sulla storia della biennale stessa la curatrice del padiglione Raluca Voinea ha dato vita ad un progetto di rivisitazione piuttosto originale e significativo, An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale nel quale i due artisti coreografi invitati, Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş, hanno svolto una serie di performance di risimulazione delle opere d'arte che hanno contraddistinto la storia della biennale stessa. Un remake monumentale dell'effimero che traduce la memoria in gesti e azioni, proponendola come storia agìta del presente.

L'idea del rifacimento, del rimettere in vita, del reenactement, così presente nelle pratiche del contemporaneo è anche alla base di uno degli eventi collaterali di maggiore interesse di questa biennale. "A ready made: When Attitudes Become Form" così Germano Celant intitola il suo saggio nel catalogo della mostra alla Fondazione Prada da lui stesso curata insieme a Thomas Demand e Rem Koolhaas. L'intento dichiarato è stato quello di "affrontare un discorso sull'irripetibilità di un'impresa che è un intreccio tra storico e poetico, connesso ai suoi artefici, che ha dato corpo al desiderio di un travolgimento linguistico e visuale, sviluppatosi nel territorio dell'arte, connesso alle conseguenze sociali e processuali di un periodo radicale" Delle insidie di quest'operazione è ben conscio lo stesso curatore che mette in guardia da possibili scivolamenti feticistici e trova una via d'uscita nell'intento didattico dell'operazione, "Pertanto avendo deciso di ricreare una "differenza" perduta" - così afferma- "l'operazione di ricreare e di ricostruire "When Attitudes Become Form" presuppone un aspetto pedagogico e divulgativo, come un'operazione culturale affettiva che non è connessa ad una dimensione feticistica e narcisistica, ma offre lo specchio di una realtà che è passata ed è stata cancellata(...) Tale assunzione per diventare una riflessione ha bisogno di sollecitare un nuovo significato dell'esposizione e questo è stato cercato assumendo l'esposizione come un ready made prelevando la totalità di "When Attitudes become Form" per innestarla come una citazione archeologica". Proprio le giustificazioni fornite, consentono a onor del vero di evidenziarne le aporie. Talché al visitatore della mostra tale rifacimento appare, per certi versi, un ostinato e pervicace intento di cultuale preservazione del residuo reliquiale. Ciò non ne inficia la validità dell'aver posto la questione nella complessità dei piani plurimi che la caratterizzano e che rendono il presente sempre meno risolvibile in percorsi assoluti, sempre più necessariamente riconducibile a memorie relative e circostanziate.