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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Incontro con l’artista a Brescia, in occasione della mostra da Massimo Minini.

Teresa Lucia Cicciarella

La galleria è una tra le più conosciute e valide d’Italia, fondata quarantuno anni fa (dapprima col nome “Banco”) da Massimo Minini e da quel momento al centro dei processi di ricezione e promozione dell’arte contemporanea (dall’Arte Concettuale, Povera e Minimal privilegiate agli esordi, fino a linguaggi maggiormente volti al figurativo, alla giovane arte italiana della seconda metà degli anni Novanta ed oltre).

L’artista è Nedko Solakov (Cherven Briag, Bulgaria, 1957; vive e lavora a Sofia), sin dai primi anni Novanta internazionalmente apprezzato nonché insignito di prestigiosi riconoscimenti quali ad esempio, nel 2007, una Menzione d’Onore alla 52° Biennale di Venezia, per la complessa installazione Discussion (Property) tratteggiante, attraverso l’utilizzo di svariati media, i nodi della disputa (post-caduta del regime Sovietico) tra Russia e Bulgaria intorno alla proprietà e ai diritti di riproduzione del fucile Kalashnikov.

Lunghissima la lista di collezioni pubbliche delle quali il suo lavoro fa parte: dal Castello di Rivoli al Centre Pompidou, dalla Kunsthaus Zurich alla Tate Modern fino al Museum of Contemporary Art di Chicago e al MoMA di New York. Un curriculum di primissimo ordine, dunque, capace di intimidire l’interlocutore, se non fosse che i modi dell’artista – al di là dell’aspetto severo che rimane limitato alla prima provvisoria impressione – si rivelano presto cordiali e affabili.

L’arte di Solakov – nutrita da un iniziale percorso di studio presso l’Accademia di Belle Arti di Sofia: un iter formativo estremamente canonico, come di lì a breve ci racconterà – si esplica in una dimensione eminentemente narrativa. Dimensione che ha eletto a suo alfabeto chiave (ma non esclusivo) quello verbo-iconico composto da pensieri e descrizioni, spesso ironici, e da semplici “scarabocchi”, i piccoli doodles che si sviluppano su parete narrando storie minime. A tale linguaggio si associa la costante produzione di disegni e dipinti – il cui equilibrio formale è spesso contraddetto da porzioni di cornici e altri elementi lignei baroccheggianti, richiamanti modalità decorative postmoderne – e l’ideazione di installazioni e azioni site-specific di più spiccata derivazione concettuale. Questo il caso, ad esempio, oltre che del già citato lavoro premiato in Biennale, della notissima e precoce (se osservata nel contesto socio-politico di riferimento) opera Top secret (1989-90), sorta di autodenuncia, in forma di schedario, della collaborazione giovanile dell’artista con la polizia segreta bulgara: gesto creativo che è al contempo riflessione, forte, sul valore della memoria – personale e sociale – che si scontra con l’intenzione accentratrice – politica – di condizionare o mistificare l’agire individuale. Molti e ulteriori lavori discostano il percorso e la poetica di Solakov dalla clamorosa affermazione di Top Secret, conferendo piuttosto al corpus di opere dell’artista bulgaro il carattere lieve di un movimento sempre in bilico tra verità e simulazione, tra Storia e storie, tra accettazione e contestazione.

A Brescia, incontriamo l’artista in una delle pause dell’allestimento dell’esposizione sagacemente intitolata “A Group Show #2”: formula che immediatamente allerta e interroga sulla reale autografia del lavoro in mostra – sarà una personale o una collettiva? – e, al contempo, nell’espressa progressione numerica dichiara una continuità poetica e operativa che la posiziona nel più vasto spettro dell’attività di Solakov nonché nel quadro dei rapporti con il gallerista Massimo Minini, intercorrenti da circa un decennio.

“La mia prima mostra con Massimo Minini è stata nel 2007, la seconda nel 2011” – precisa subito Solakov, ricordando come la mostra di tre anni fa, “Beauty” (febbraio-marzo 2011), abbia poi avuto un seguito nella partecipazione della galleria ad ArtBasel/Unlimited, nel medesimo anno, con l’esposizione del lavoro A Beauty 4, scultura-oggetto dall’evidente qualità tattile (una sorta di “balena” ricoperta di peluche bianco e contenente, nel suo ventre, una piccola luna visibile solamente abbassandosi fino al livello dell’oggetto, posto a terra) e dal forte richiamo onirico.

La presente esposizione, che visitiamo in anteprima con l’artista, mantiene in parte quell’attrattiva favolistica, divenendo un percorso di scoperta attraverso piccoli nuclei di opere a firma non di Solakov ma di sette eteronimi che, in realtà, mascherano la sua stessa unica identità.

In tal senso la mostra risulta essere prosecuzione e chiarimento di “A Group Show”, tenutasi nella medesima galleria tra settembre e novembre 2007, ed è commentando quella che la breve conversazione con Solakov – in inglese, qui presentata in traduzione con il beneplacito dell’artista – ha inizio.

Spiega: “In occasione della mia prima personale da Massimo Minini, «A Group Show» appunto, ho voluto giocare con qualcosa che dai primi anni Novanta e fino alla metà di quel decennio aveva costituito un problema per me, cioè l’eterogeneità formale e la varietà di media presenti nelle mie opere. Allora il mio lavoro non era molto ben conosciuto e tale varietà era avvertita come un problema da parte di certi curatori che ritenevano si potesse riferire non solamente ad uno, ma a diversi autori e diverse poetiche. Bene, tale aspetto non costituisce più un problema – la gente accetta che tutto questo mondo d’immagini sia Solakov – e adesso, come già ho fatto nel 2007, voglio deliberatamente giocare con questo, quindi la mia mostra personale è nuovamente intitolata «A Group Show», numero 2”.

A chiarire il tutto, in effetti, concorre sin da subito il foglio d’invito all’inaugurazione – programmata per il 27 settembre, due giorni dopo il nostro incontro (la mostra sarà visitabile fino al 15 novembre) – recante la riproduzione del breve testo tracciato dall’artista sulla parete introduttiva del percorso espositivo: “I still feel sometimes like a container-creature that unifies and separates different personalities (Painter A, B, C…)”. Un artificio retorico, certo; una dichiarata finzione che, come l’artista ammette “non è realtà, è solo una storia; un gioco autoironico”.

Di seguito, sono dichiarati i nomi dei sette “artisti” presentati in mostra: A. The Pretentious Storyteller (Il Narratore Pretenzioso), B. The Zen-Master (Il Maestro Zen), C. The Naughty Artist (L’Artista Impertinente), D. The Romantic One (L’artista Romantico), E. The Conceptual Painter (Il Pittore Concettuale), F. The Modest Craftsman (L’Artigiano Modesto), G. The Site-Specific Colorist (Il Colorista Site-Specific). Ciascuno di essi, dunque, è presentato e descritto attraverso un “nome” che si fa dichiarazione di carattere e di stile operativo, preannunciando il ruolo che ogni singolo pittore ricoprirà entro l’organica finzione orchestrata da Solakov.

L’artista racconta come l’attuale progetto sia un ulteriore passo avanti nel percorso tracciato nel 2007: “Il pensiero che abbiamo commentato [I feel sometimes…], era scritto a mano nello stessa parete sette anni fa. Oggi ho aggiunto still, avverbio che ne indica la continuità e ho specificato i nomi dei sette pittori, laddove nel 2007 era indicato solamente Artist A, B, C e così via. In quella mostra ho adottato media molto differenti: c’erano disegni, pitture murali, fotografia e ancora lavori più concettuali o d’altro genere. Oggi, invece, il medium privilegiato è la tela e semmai, in sua assenza, è presente qualcosa che si relaziona comunque alla pittura, alla parete, in modo diverso. Questo il caso, ad esempio, del lavoro del Conceptual Painter”.

Il percorso espositivo si apre con la grande sala dedicata al Narratore Pretenzioso, il Pittore “A”, che sembra attingere a man bassa dal repertorio favolistico e figurativo dell’est Europa, lasciando emergere personaggi immaginari quali The Man with the Two Long Hairs o ancora l’uomo avvolto dalle fiamme dell’inferno per non essere stato una brava persona, un artista migliore, un miglior marito, padre, nonno, o ancora stupido, furbo o mediocre come molta altra gente e, infine, sufficientemente conformista per sopravvivere alla democrazia. Il testo tracciato a mano accompagna costantemente la figurazione, classicamente dispiegata ad olio su tela e graziosamente incorniciata – in parte – da frammenti di cornici vistose, color oro.

La parete di fondo, invece, ospita un’opera di tutt’altro genere, tracciata direttamente sul muro e dunque effimera, data da sciabolate di color giallo brillante su uno sfondo celeste siglato dal secondo “autore”, il Pittore “B”, Maestro Zen. Si potrebbe dire come questa sia, a prima vista, l’entità che rispecchi meno – almeno dal punto di vista formale – l’indole di Solakov, riconoscibile invece, per forte ironia e sintesi, nella sala successiva, quella dei “grandi ritratti” realizzati dall’Artista Impertinente, The Naughty Artist. Eppure Solakov ci ricorda come la pittura murale (qui “forzata” sulla scia dell’espressionismo astratto e della pittura Informale gestuale) sia stata una tra le prime basi del suo lavoro, maturato tra il 1975 e il 1981 negli anni della formazione presso l’Accademia di Sofia: in tal senso, ricorda l’apprendistato da pittore muralista – coronato dal diploma in Mural Painting, con specializzazione nel mosaico – come la radice della sua attitudine a “lavorare con lo spazio, adattando sempre il lavoro all’architettura che lo ospiterà e che viene, comunque, sempre prima della pittura”.

Per estensione, la riflessione ben si adatta alle ulteriori piccole operazioni site-specific attuate per la Galleria Minini, assumendo le fittizie identità del Modest Craftsman (Pittore “F”) e del Site-Specific Colorist (Pittore “G”), autore di un breve arcobaleno sulla balconata esterna della galleria.

L’ulteriore eteronimo, The Naughty Artist, asseconda la dichiarata vena ironica presente nella massima parte del lavoro di Solakov qui impegnato nel delineare, a larghe pennellate, il “reale” (o presunto? l’artista lascia che il dubbio permanga nell’osservatore) particolare anatomico posteriore di personaggi quali “la giovane assistente bulgara” o, ancora, “la gallerista bulgara”. Le tele – poggiate in maniera irriverente sul pavimento della galleria – richiamano da vicino, tra l’altro, alcuni disegni presentati nel corso della pressoché enciclopedica, vastissima, retrospettiva “All in Order, with Exceptions”ospitata nel biennio 2011-2012 dalla Ikon Gallery di Birmingham, dallo S.M.A.K. di Ghent, dal Museu de Arte Contemporanea Serralves di Porto e, con il titolo “All in (My) Order, with Exceptions” dalla Fondazione Galleria Civica di Trento con la curatela di Andrea Viliani e con l’apporto sostanziale dell’artista, che ha personalmente provveduto a delineare il percorso espositivo. Mostre, tra l’altro, accompagnate dalla pubblicazione del ponderoso catalogo generale di Solakov, in due volumi editi tra il 2011 e il 2014.

La visita all’esposizione bresciana si conclude con la visione delle opere del Pittore Romantico, quattro piacevoli paesaggi nei quali la pittura ad olio si dispiega assecondando i topoi più comuni dell’estetica romantica (notturni e paesaggi marini, tuttavia associati a commenti e particolari spiazzanti, secondo il gusto e il modo espressivo peculiari di Solakov) e con un’ultima sala vuota, bianca, riservata al lavoro dell’Artista “E”, il Pittore Concettuale. Solakov ci presenta quest’ultimo come “conclusione e paradossale summa dell’intero progetto espositivo: su una parete bianca è leggermente visibile un riquadro bianco, grande, ma non si vede assolutamente nulla di altro. Sarà il foglio applicato alla parete, alla sinistra del riquadro, a suggerire cosa immaginare al posto di quel vuoto”. Un ideale incontro-scontro tra i sette artisti presenti in mostra, dunque, secondo quanto suggerito dal testo:

“Just imagine that on your right side there is this relatively large canvas (194 x 260 cm) and that the other six painters in this show worked on it. […] What about me – the Conceptual Painter?

I just came in at the end and covered all that rubbish with black, ivory black.

Just imagine: this totally pitch black canvas is on your right side”.

Attraverso la suggestione della parola, dunque, il bianco vuol farsi nero; l’uno, vuol divenire molteplice. Ciascuno tra i sette diversi autori ha partecipato – personaggio fittizio e al contempo attore in un consapevole gioco delle parti – di una messinscena che risulta completamente ricomposta alla fine della mostra, in quest’ultima sala, dedicata al lavoro dell’ipotetico “regista” – il Pittore Concettuale – il più definitivo e radicale tra gli artisti.