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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Azioni concrete e metafore nell'arte

Edoardo Giustetto
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1. Rapporti di potere tra creatività e mercificazione
Il riconoscimento del valore dell’attività umana e della dignità di ognuno è diventato, in epoca contemporanea, sinonimo di una società, comunità o collettività che aspira ad una giusta ed equa organizzazione sociale. Il rapporto tra benessere societario e riconoscimento valoriale è definito, sin dalle prime comunità sedentarie del Neolitico, dal rapporto della comunità con la merce e con la conseguente accumulazione di quest’ultima, Karl Marx la definisce in questo modo:
«La merce è prima di tutto un oggetto esterno, una cosa che per mezzo delle sue proprietà soddisfa bisogni umani di qualunque specie. La natura di tali bisogni, p.es. che derivino dallo stomaco o dalla fantasia, non fa alcuna differenza.» (1)
L’idea di merce non è quindi soltanto attribuibile all’idea materialista di bene o cosa, ma amplia il suo significato a quei bisogni che Marx sostiene derivino dalla fantasia e quindi dall’attività creativa.
L’atto creativo implica una ridefinizione della realtà, ma non è da intendersi come lo spostamento di uno stato delle cose ad un altro ma è la capacità intellettuale di generare, dare origine a nuovi significati, che siano essi di natura materiale o legati a pensieri e valori di natura astratta. La differenza di significato tra creatività, inteso come atto creativo materiale (la merce), e una capacità creativa, intesa come attività artistica (l’opera d’arte), è una costruzione societaria moderna che si oppone al pensiero classico che dominava nella Grecia antica. Nell’Ellade infatti non c’era differenza tra artista ed artigiano, entrambi venivano definiti τεχνίτης (technítis) ovvero coloro che usufruivano della tέχνη (teknè) per compiere un atto creativo. L’idea di creatività greca potrebbe anche essere compresa mediante la comprensione del termine καλός (kalòs) che, letteralmente si potrebbe tradurre con la parola “bello”, ma in realtà porta seco diversi significati cui noi contemporanei abbiamo attribuito altre parole. L’idea di bello nell’antica Grecia è da ritrovarsi, non solo in ciò che esteticamente e formalmente appaga la vista e gli altri sensi, ma in una dimensione che coinvolge i concetti di bontà, moralità, giustizia e utilità pratica. Per Platone il concetto di καλοκαγαθία [kalokagathìa; parola che unisce i termini καλός (bello) e ἀγαθός (buono)] era un’idea che oggi non solo troveremo anacronistica ma anche classista e a favore di un modello aristocratico in cui le masse  non venivano prese in considerazione (nell’Atene classica su una popolazione approssimativa stimata di 430.000 persone risiedevano tra i 60.000 e i 150.000 schiavi e l’aristocrazia era solo una piccola parte della popolazione rimanente che comprendeva soprattutto cittadini liberi ma poveri):
«Chi si dedica alla ricerca scientifica o a qualche altra intensa attività intellettuale, bisogna che anche al corpo dia il suo movimento, praticando la ginnastica, mentre chi si dedica con cura a plasmare il corpo, bisogna che fornisca in compenso all'anima i suoi movimenti, ricorrendo alla musica e a tutto ciò che riguarda la filosofia, se vuole essere definito, giustamente e a buon diritto, sia bello sia buono.» (2)
Seppur appare come un consiglio medico di svolgere attività fisica se si pratica una vita prevalentemente sedentaria, in realtà si intuisce come il raggiungimento della καλοκαγαθία si può raggiungere solo mediante un lavoro legato all’intelletto; non molto diverso da ciò che Leonardo sosterrà circa un millennio dopo quando analizza la differenza tra fatica di corpo e fatica di mente dove la prima, (attribuita ad un lavoro scultoreo) sostiene sia meno virtuosa e meno intellettualmente e culturalmente interessante della seconda (l’opera pittorica). Il lavoro intellettuale, che solo nel XX secolo si è tentato di democratizzare veramente con l’accesso alla cultura e alle università (con risultati che ancora tardano ad apparire nella realtà concreta) , è sempre stato (e forse sempre lo sarà) materia e privilegio per coloro che possono permettersi, in termini economici e di tempo, di dedicarsi alla propria crescita intellettuale e culturale. La frase tratta dal Timeo di Platone è quindi non solo vera e attualizzabile alla contemporaneità del XXI secolo, ma potrebbe risultare vera e coerente anche nei secoli a venire. Finché si continuerà a promuovere discorsi e idee che garantiscono un progresso culturale a pochi, in quanto, per come è strutturata la storia della cultura occidentale negli ultimi 2500 anni, un avanzamento collettivo avviene solo se si partecipa a determinati e selezionati rituali societari (laurea in università, visita ai musei, frequentazione delle biblioteche ecc..), non si potrà parlare veramente di democratizzazione del sapere nè di una equa fruizione della cultura proposta dalle istituzioni. Non è una questione materialista legata alla possibilità fisica ed economica delle persone ma di una capacità intellettuale che mette il soggetto in una posizione curiosa e aperta nei confronti del mondo culturale che il mondo gli propone. Socrate, in una delle sue più celebri affermazioni, sosteneva di sapere di non sapere, ed è proprio questa dotta ignoranza che spinge l’essere umano a continuare a porsi e a fare domande; più ci si confronta con ciò che non si conosce più la curiosità di ognuno emerge positivamente. La curiosità però emerge soprattutto se il soggetto viene stimolato da fenomeni esterni all’io, così da trasformare questo istinto naturale ed irrazionale in un desiderio pragmatico che conduce ad interrogativi e conclusioni soggettive e diverse per ognuno. La condizione primaria di questo processo culturale è però che esista un incentivo ed una sollecitazione che avviene dalla realtà. Questa sollecitazione culturale però, dovrebbe farsi ascoltare dal soggetto in quanto tale e non in quanto prodotto mercificato ed inserito in un sistema di produzione. Se la merce, come affermato da Marx è un bisogno che deriva sia dallo stomaco che dalla fantasia, allora forse bisogna destrutturare il concetto di valorialità di un’attività culturale. Se da una parte ci si affida all’idea di istruzione pubblica, che non comprende soltanto le scuole dell’obbligo e le università ma comprende soprattutto l’offerta intellettuale e culturale proposta in una società, bisognerebbe anche pensare a cosa e come questa offerta viene proposta e poi beneficiata dalla collettività, e allora porsi la domanda: la curiosità dello spettatore è al centro del progetto culturale proposto? Il pericolo di cadere nell’ipocrisia morale della forma organizzativa come del contenuto è ben palesato in mostre, eventi e manifestazioni culturali di ogni genere. Davanti a questo ambiguo farisaismo il soggetto è legittimato a non sviluppare curiosità, in quanto, quest’ultima si fa vera quando avviene un riconoscimento etico e valoriale dell’attività presa in considerazione, viceversa, non viene riconosciuta o considerata di minor importanza in quanto appare un’evidente carenza etica da ciò che forse dovrebbe dare esempio e indicare nuove possibilità morali.
Questo atteggiamento da parte delle attività culturali non produce molto altro se non uno squarcio sempre più netto tra il pubblico e il sapere: esso diventa così soggetto di svalutazione e mortificazione da parte di quelle persone a cui l’attività culturale è dedicata.

2. Valorialità dell’attività artistica nella modernità e contemporaneità
L’idea moderna di artista si afferma nel XV e nel XVI secolo, in particolare quando due intellettuali ed umanisti pubblicano dei testi fondamentali per la storia dell’arte moderna e per l’idea contemporanea di artista: il De pictura (1435 c.a.), il De re aedificatoria (1450 c.a.) e il De statua (1462 c.a.) di Leon Battista Alberti e Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori (1550) di Giorgio Vasari.
Nell’opera di Alberti dedicata alla pittura avviene che l’idea di artista inizia a cambiare nell’accezione a noi contemporanea; fino ad allora l’immaginario collettivo dell’artista era ancorato a dei concetti provenienti dal Medioevo dove l’artista era una persona di talento che però fungeva da messaggero di idee e storie per conto di Dio. Nel De pictura di Alberti viene raccontato di un artista che si stacca completamente sia dalla concezione medievale che dall’idea greca di τεχνίτης, egli si sposta verso un artista più intellettualizzato che fa della ricerca culturale un obbiettivo fondamentale tanto quanto quello del perfezionamento della propria tecnica. Il libro di Vasari invece è la prima opera, giunta fino ai giorni nostri, che tenta di delineare una storia dell’arte fatta di nomi. La soggettività dell’artista è al centro dell’opera vasariana. Nonostante ci siano svariate considerazioni e giudizi sulle opere d’arte da essi realizzate, è fondamentale l’azione di voler dare un volto alla storia dell’arte che non è costituita solo da stili e movimenti, ma soprattutto da singole personalità che hanno tentato di ridefinire soggettivamente l’idea di opera d’arte, di gusto e di bello. La figura dell’artista, così come la società occidentale, entra così nella modernità. L’artista nel XVII e XVIII secolo diventa colui che può ridisegnare il mondo, spostare fiumi e montagne e riscrivere il senso del paesaggio naturale. André Le Nôtre ridisegna completamente il territorio dei villaggi di Versailles e di Le Chesnay per far sorgere una mastodontica Reggia di circa 27 km² che comprende fiumi, canali, boschi, giardini e tre palazzi coperti da oltre 13 ettari di tetti. Un progetto quasi fantascientifico per l’epoca, che però ha mostrato come la tecnica già nel XVIII secolo avesse surclassato notevolmente la natura e l’artista in questione sia portavoce di questa tecnica. Emblematici per quel periodo sono anche i progetti di Claude-Nicolas Ledoux che realizza vere e proprie sfide ingegneristiche e architettoniche, con un’estetica che mischia gli ideali neoclassici ad idee sensibili, che forse possiamo rivedere nei quadri metafisici di inizio Novecento di Giorgio de Chirico. Anche in questo caso l’artista francese si eleva a grande architetto del mondo, che plasma e ridefinisce la realtà e le vite altrui a seconda della sua volontà.
Le rivoluzioni industriali del XIX secolo cambiano drasticamente la società e di conseguenza il modo di rapportarsi di quest’ultima nei confronti della cultura. L’industrializzazione porta ad un surclassamento ideale della tecnica scientifica nei confronti della cultura e dai quei desideri che, secondo Marx, derivano dalla fantasia. Nell’Ottocento avviene un’industrializzazione tale che mette l’individuo nella condizione contemporanea di chiedere alla tecnica la salvezza dai mali del mondo. La tecnica dev’essere all’altezza di tale desiderio e deve porsi nella condizione socratica di continuare a sapere di non sapere: più la tecnica progredisce più appaiono incognite sul sapere preso in esame. Dagli studi dello spazio alle scoperte in campo medico non c’è un modus operandi che comprenda un appagamento e un senso critico, tale da spingere a realizzare ciò che è abbastanza per il benessere sociale. Il benessere non è mai abbastanza nella società industrializzata e capitalista, non esiste un fermo alla ricerca scientifica e l’opinione comune non vede altra soluzione alla salvezza dell’umanità se non mediante una sempre maggiore ricerca e attenzione, economica e mediatica, per quello che Jean-François Lyotard definisce “sapere scientifico”.
Ad opporsi ideologicamente a questo inarrestabile ed indiscusso sapere scientifico si palesa il meno pragmatico e più labile “sapere narrativo”, così descritto ne La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere di Lyotard:
«A noi basta assumere il dato di fatto della forma narrativa. Il racconto è la forma per eccellenza di questo sapere, e ciò da diversi punti di vista.
In primo luogo, queste storie popolari raccontano esse stesse quelle che potremmo chiamare delle formazioni (Bildungen) positive o negative, vale a dire i successi o le sconfitte in cui si risolvono i tentativi degli eroi, e questi successi o queste sconfitte legittimano determinate istituzioni sociali (funzione dei miti), oppure rappresentano modelli positivi o negativi (eroi felici o infelici) di integrazione nelle istituzioni consolidate (leggende, favole). Da una parte questi racconti consentono dunque di definire i criteri di competenza propri della società in cui sono raccontati, dall’altra di utilizzare tali criteri per valutare le prestazioni che in essa si realizzano o possono realizzarsi». (3)
La narrazione quindi differisce dal racconto scientifico in quanto non si impone mai come verità dimostrata, nè rivendica un’attenzione particolare nei confronti degli altri saperi. La capacità del racconto di essere interpretabile e generare pensieri e considerazioni soggettive è qualcosa a cui il sapere scientifico non può ambire per definizione. La narrazione tecnico-scientifica, fomentata in un sistema di libero mercato dagli Stati che ambiscono ad eccellere nei vari campi del “sapere scientifico”, ha dunque portato ad un asservimento di alcuni stati nei confronti degli altri, volto a mantenere quello status-quo che permette al mondo occidentale di perpetuare il benessere materiale raggiunto e ad un riconoscimento sociale maggiore di alcuni studi nei confronti di altri. La valorialità, economica e intellettuale, del percorso di studi cambia radicalmente in base alla scelta di una facoltà di natura tecnico-scientifica o di una artistico-culturale. La contemporaneità ha dimostrato che tra un modus operandi razionale, pragmatico, solido (ma anche escludente, elitario e narcisista), e un modus operandi idealistico, astratto che promuove la soggettività e sviluppa la coscienza dell’io (ma forse troppo labile e mutevole), si è sempre scelta la via tecnico-scientifica. Ma l’individuo contemporaneo che, come sostiene Heidegger, richiede alla tecnica di salvarlo dai mali del mondo da lui stesso creati, non può che affidarsi a ciò che più nell’immediata concretezza propone soluzioni provvisorie per tentare di arginare i danni dell’umanità.
L’umanità quindi, affranta e rassegnata dal male della storia, chiede alla tecnica di salvarla da sé stessa, ma perché il “sapere narrativo” non può aspirare a questa salvezza? Perché non ammettere che il “sapere scientifico” ha portato problemi di carattere sociale e comportamentale nell’individuo contemporaneo? E perché queste difficoltà non si possono estirpare con la tecnica ma, di contro, utilizzare metodi vicini al mondo estetico e poetico?
Il “sapere narrativo” si dovrebbe così far carico dell’esperienza del vissuto e provare a definire dei mali assoluti. Ma sia l’arte contemporanea, che la cultura novecentesca più in generale, hanno dimostrato come l’eterogeneità delle soggettività che si approcciano al mondo artistico e culturale sono contraddittorie tra loro e quindi non solo non aspirano alla ricerca di una salvezza in senso heideggeriano, ma devono sentire quella libertà di azione che permette di ripensare, modificare e ritornare sui propri passi. La cultura narrativa, a differenza del sapere tecnico-scientifico, non si dovrebbe mai porre nella condizione di volersi far ascoltare a tutti i costi e, soprattutto, non dovrebbe sostenere mai di possedere verità assolute. L’arte però ha la possibilità di problematizzare il mondo secondo un soggettivo punto di vista, quello dell’artista, che non ambisce a cambiare il mondo subito e ora, ma a disvelare e a raccontare idee e situazioni che smuovono la coscienza e l’intelletto di ognuno.

3. Efferatezza sociale esplicitata e progetti educativi sperimentali: esperienze artistiche concrete
Fino a che punto l’attività artistica però risulta essere interessata alle problematiche sociali? E soprattutto, in che maniera incide concretamente nel migliorare o almeno nel rapportarsi con suddette problematiche?
Lavorando prevalentemente in modo troppo astratto, effimero e distante dalla realtà, (ma portando sul tavolo delle discussioni tematiche legate alla società contemporanea quali guerre, asservimento, postcolonialismo…) l’arte ha proposto metafore estetiche dei significati sociali trattati ma spesso distanti da un intervento reale sulla collettività. Riconoscendo assoluto e alto valore culturale e artistico alla condivisione di idee e alla consapevolizzazione del prossimo su determinate tematiche (vedi Guernica di Pablo Picasso), bisogna riconoscere che, a partire dal Novecento, sono emersi artisti che hanno lavorato sull’ambiguità dell’azione concreta nel reale e sull’azione artistica intesa come metafora di qualcos’altro. 
Qual è il senso di esaminare problematiche sociali reali e risolvere esteticamente l’opera senza un minimo di incidenza sul reale? Se un’opera mi parla della problematica della fame nel mondo ha senso che usi del cibo vero per la realizzazione di tale azione artistica? Come può il pubblico condividere la problematica della denutrizione se egli è il primo che usa il cibo per scopi che non saziano lo stomaco di nessuno?
Non bisognerebbe cadere nell’incongruenza teorico-pratica che si viene a creare in una parte di opere di arte contemporanea. L’atto realizzativo dell’opera è parte morale del significato finale dell’opera stessa, non si può solamente considerare vera l’accezione finale data dalle parole dell’artista; l’opera è composta sia dalla teoria che dalla pratica, ed entrambe dovrebbero riconoscersi come punto di forza l’una dell’altra.
Nel 1968 un artista argentino di nome Oscar Bony realizza una performance in cui unisce l’azione artistica ad una reale esplicitazione delle problematiche di miseria e povertà in Argentina. Il suo approccio però non è un atto caritatevole nei confronti dei più indigenti ma una sottolineatura marcata della problematica sociale.
Rappresentata per la prima volta alla mostra “Experiencias 68” all’Instituto di Tella di Buenos Aires, La Familia Obrera presenta una famiglia operaia seduta su una pedana posta al centro di una stanza vuota. Dopo aver risposto ad un annuncio di lavoro su un quotidiano locale la famiglia venne assunta per tutto il tempo dell’esposizione per otto ore al giorno, un vero e proprio orario di lavoro. I tre protagonisti non avevano ricevuto azioni precise da compiere, dovevano comportarsi come ritenevano consono:
«Cambiavano continuamente posizione al centro della sala espositiva - mangiando, fumando, leggendo e parlando in mezzo al pubblico che reagiva perlopiù in modo ostile e scandalizzato; in particolare, al bambino restava difficile starsene sul piedistallo e spesso correva in giro per la mostra.» (4)
La didascalia che accompagnava l’opera però è più potente ed esemplificativa della volontà artistica di Bony che della famiglia stessa: “Luis Ricardo Rodriguez, pressofonditore professionista, sta guadagnando due volte il suo salario abituale solo per stare seduto in mostra con sua moglie e suo figlio”.
Il desiderio dell’artista di non utilizzare dei performer ma di utilizzare una reale famiglia operaia di Buenos Aires, trovata mediante un annuncio di lavoro su un quotidiano e quindi assunta per una vera attività lavorativa, mette il pubblico, prevalentemente borghese e spesso accompagnato dalla propria famiglia, in una condizione contraddittoria di superiorità ed inferiorità sociale allo stesso tempo. La famiglia assunta per il lavoro è, nonostante il contenuto della didascalia, elevata ad icona della famiglia operaia contemporanea e la famiglia venuta in mostra paga per vederla. Quando poi lo spettatore si accorge di cosa tratta l’opera, del fatto che il pubblico è l’antagonista della famiglia esposta, si crea un cortocircuito intellettuale volto a far vivere in prima persona e in maniera ancora più palesata realtà e situazioni sociali:
«Benché la famiglia venga letteralmente e simbolicamente elevata, è comunque soggetta all’esame minuzioso di un pubblico principalmente borghese andato lì per vederla, com’è evidente negli scatti dell’installazione: una famiglia “perbene” di tre persone ispeziona quella di livello inferiore e vestita meno bene, che distoglie lo sguardo.» (5)
La realizzazione artistica dell’opera avviene in questo caso mediante un utilizzo concreto della realtà. La Familia Obrera è realmente, nella contemporaneità, una famiglia in cui il padre lavora come pressofonditore. Non sono performer che metaforicamente simboleggiano altri significati; quando il pubblico guarda la famiglia Rodriguez si manifesta una situazione concreta in cui le reazioni da entrambe le parti sono autentiche e dettate da una volontà e una sensibilità soggettiva, non da un atto coercitivo che suggerisce al performer e al pubblico delle linee guida di comportamento dettate dalla narrazione artistica. L’opera non si limita quindi a enunciare e problematizzare determinate dinamiche sociali, essa, come principale obiettivo, stimola la curiosità intellettuale di ognuno in quanto l’esperienza reale e soggettiva ha sicuramente suscitato più πάθος (pathos) nella forse massima espressione del concetto di hic et nunc benjaminiano.
Se da una parte, l’arte che problematizza la società si fa vera quando inserisce nell’opera una reale e concreta situazione nel vissuto, dall’altra l’attività laboratoriale e partecipativa ha una valenza collettiva che stimola in maniera significativa la curiosità e la consapevolezza dello spettatore su tematiche scelte dalla volontà dell’artista. Uno dei più longevi progetti pedagogici degli anni Duemila è stato Cátedra Arte de Conducta (Corso di arte comportamentale) di Tania Bruguera. La volontà dell’artista cubana è quella di proporre un progetto volto a consapevolizzare giovani artisti sulla responsabilità politica e sociale dell’attività artistica. Bruguera era appena stata a Kassel per “Documenta 11” (2002). All’interno della manifestazione tedesca di arte contemporanea aveva proposto una performance in cui si ricreava uno squadrone della morte che, interagendo con il pubblico, rendeva tangibile e concreta la repressione e la violenza politica. Torna a Cuba con:
«Un senso di insoddisfazione per le limitazioni imposte al creare esperienze artistiche per gli osservatori. L’artista desiderava, invece, dare un contributo concreto alla scena artistica cubana, in parte in risposta alla sua mancanza di strutture istituzionali e infrastrutture espositive, e in parte in risposta alle continue restrizioni dello Stato sui viaggi e sull’accesso all’informazione dei cittadini cubani. Un terzo fattore era il nuovo e rapido consumo di arte cubana da parte dei turisti statunitensi sull’onda della Biennale de L’Avana del 2000, quando molti giovani artisti avevano assistito all’acquisto in blocco dei propri lavori e alla loro rapida integrazione all’interno di un mercato occidentale su cui essi non avevano alcun controllo.» (6)
Nasce così da queste volontà e preoccupazioni di Bruguera il modulo semi-autonomo di due anni, sotto l’egida dell’ISA (Instituto Superior de Arte) de L’Avana, chiamato Arte de Conducta. Sebbene letteralmente “conducta” sia traducibile in “comportamento”, il focus dell’artista cubana era:
«L’arte che si impegna nel reale, in modo particolare l’interfaccia tra utilità e illegalità - dato che l’etica e la legge sono, per Bruguera, ambiti che richiedono continuamente di essere messi alla prova.» (7)
Così i giovani artisti che parteciparono al corso di Bruguera cominciarono a realizzare opere in cui si riflette su problematiche e situazioni sociali legate alla libertà del proprio corpo, alla burocratizzazione delle identità umane, all’affrancamento dal lavoro e alla libertà di espressione: Susanna Delahante, rivendicando la soggettiva e imprescindibile libertà di scelta sul proprio corpo, espone delle fotografie, intitolate El escandalo de lo Real ( Lo scandalo del reale, 2007), che rappresentano il momento della fecondazione dei propri ovuli con il seme di un uomo deceduto da poco; Celia e Yunior realizzano Registro de Poblaciòn ( Registro della popolazione, 2004) in cui, sfruttando una scappatoia legale per cui è possibile richiedere più volta le carte d’identità, rimettono in discussione la valorialità certificata del sistema in merito all’identità dei soggetti.
Il corso prevedeva diversi artisti esterni che, come in un’Accademia di belle arti occidentale ma comunque locata in un paese molto rigido sulla libera espressione, attribuivano lavori e azioni: Dan Perjovschi chiese di realizzare un quotidiano indipendente; Artur Zmijewski chiese un adattamento personale di un film polacco di propaganda comunista; Sislej Xhafa propose agli studenti di compiere azioni in alberghi per turisti (dove ai cubani era proibito entrare), al Museo de la Revoluciòn e in varie attività locali.
Ma perchè il progetto di Bruguera è da intendersi come un’opera d’arte piuttosto che come un corso di alta formazione artistica a L’Avana? In primo luogo c’è la rivendicazione artistica di Bruguera dell’ideazione e della realizzazione del progetto. La scuola in sè è ciò che Bruguera definiva “arte util” (arte utile), dove si rifiuta la definizione occidentale di fare arte per l’arte. Il fatto che il progetto sia fruibile a chiunque voglia partecipare, che non ci siano studenti e insegnanti ma membri e ospiti, che la casa a L’Avana Vecchia dell’artista sia biblioteca e sede centrale della scuola e che spesso gli studenti si fermino anche a dormire a casa di Bruguera, destruttura completamente il dispositivo foucaultiano che si crea all’interno di qualsiasi istituzione scolastica occidentale. L’attività laboratoriale diventa così opera d’arte. Pratica artistica che tenta di rivendicare la propria autonomia dal mercato dell’arte e, più in generale, dal libero mercato, proponendo attività volte all’arricchimento spirituale e critico delle persone e non all’accumulazione spasmodica e categorizzata di oggetti definiti opere d’arte, in quanto semplicemente esposti in un’istituzione preposta all’attività artistica.
 
4. L’azione artistica come intervento diretto sul reale
La principale premessa per approcciarsi a quel tipo di arte, che si preoccupa concretamente di agire per tentare di cambiare determinate situazioni sociali, è quella di non imporsi mai come portatori di un’unica verità ma di essere sempre aperti ad ascoltare le esperienze e i punti di vista del prossimo in un dialogo volto all’accrescimento di entrambi. Così diventano di assoluto valore artistico, in un’arte partecipativa e preoccupata alla condizione sociale di chiunque, quelle esperienze che rendono possibile il dialogo tra sconosciuti e in cui si tenta di collaborare con persone mai viste prima. Dagli anni Sessanta ad oggi si sono moltiplicate le attività artistiche che rendono partecipi, protagonisti dell’opera d’arte gli spettatori: Augusto Boal e il Teatro dell’Oppresso, dove il regista brasiliano va a consapevolizzare (mediante espedienti performativi e teatrali) le persone del Sud America della loro condizione di oppressi; Thomas Hirschhorn realizza i suoi Monuments, dove coinvolgendo le realtà locali ridà vita e speranza a quell’umanità di quartiere oggi forse perduta definitivamente; Theaster Gates compra, nel difficile quartiere del South Side di Chicago, dalle pubbliche istituzioni un palazzo per 1$ in cui realizzerà gratuitamente laboratori artistici, stamperie, e luoghi di ritrovo per i giovani ragazzi del South Side; così come Paul Chan, Pawel Althamer, Anton Vidokle e molti altri.
Per allontanarsi dall’ipocrisia contemporanea di un’arte fruibile da tutti ma poi elitaria per contenuti e modalità di esecuzione, bisognerebbe forse propendere per un tipo di attività artistica che rivendica il desiderio di interagire con le persone. L’artista dovrebbe staccarsi dall’ideale romantico ed espressionista del genio che racconta le volontà dell’arte; dovrebbe invece porsi in una condizione di stimolazione positiva e culturale della curiosità dello spettatore. Troppo spesso nell’arte contemporanea si assiste a questo incolmabile baratro che intercorre tra artista e spettatore, ma la domanda da porsi potrebbe essere: chi dei due interlocutori pecca di negligenza? L’artista che esplica male le proprie idee o lo spettatore poco propositivo al nuovo? Il pubblico contemporaneo è sicuramente rassegnato al fatto che l’offerta culturale proposta dall’arte contemporanea sia elitaria (basta leggere i dati sull’immensa affluenza nei musei quando invece si propongono retrospettive su artisti di oltre un secolo fa); allo stesso tempo è quindi sbagliato sostenere che il pubblico non è abbastanza colto per comprendere determinate situazioni. L’artista contemporaneo ha la problematicità di confrontarsi con pregiudizi costruiti su una legittima lettura dello spettatore dell’arte negli ultimi sessanta/settanta anni. Lo spettatore contemporaneo forse vede l’artista come uno sciamano che unisce concettualmente due mondi (il concreto e l’astratto) e realizza nel reale quelle opere che non suscitano la curiosità del pubblico. L’esperienza artistica partecipativa invece, invita lo spettatore ad esporre le proprie idee, a confrontarsi direttamente con l’artista, a porsi interrogativi in un ambiente che favorisce il dialogo e la collaborazione. La riconciliazione tra pubblico e arte contemporanea potrebbe avvenire quando gli artisti fanno della loro presenza diretta parte fondamentale dell’opera proposta, quando si mette da parte l’orgoglio del creativo baciato dal talento e si inizia a ragionare in modo veramente democratico tra artista e spettatore, in una crescita collettiva e comunitaria volta a tentare, passo dopo passo, di immaginare insieme il futuro del mondo.

Gennaio 2024
 
1) Karl Marx, Il capitale, Newton Compton editori, Roma, 2023, [1867] p. 53
2) Platone, Timeo, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2003, [ca. 360 a.C.], p. 38
3) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2022 [1979] p. 40
4) Claire Bishop, Inferni artificiali, la politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella Editore, Milano 2015 [2012] p.123
5) Ivi, p. 124
6) Ivi, p. 250
7) Ivi, p.251