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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Conversazione con Francesco Impellizzeri
 
Patrizia Mania e Lucilla MeloniIcoPDFdownload

In occasione della sua personale Rewind nello spazio TRAleVOLTE di Roma abbiamo incontrato l'artista e ripercorso insieme un passaggio cruciale della sua ricerca tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta (1)

P.M. - L.M.
Con questa mostra ci presenti una sorta di autobiografia: le prime mosse in campo artistico di quel giovane artista che eri, alla fine degli anni Ottanta. Riavvolgiamo il filo della tua storia come si riavvolgeva un tempo il nastro delle musicassette per riascoltare un brano e riguardando i lavori di quegli anni partiamo dunque dai tuoi inizi di artista. Siamo alla fine degli anni Ottanta e ti muovi sul crinale di una ricerca pittorica che guarda al segno e al colore in formati poco comuni. Triangoli isosceli, tondi... Che relazione istituivi tra la pennellata che mostra di essere libera ma particolarmente controllata e la forma del supporto? Quanto ti riconosci, oggi, in quelle immagini astratte?
F.I. L'avvento della pennellata libera è stato nel 1984, quando il colore bianco ha totalmente coperto la pittura figurativa e ha permesso un dialogo col supporto che, tornato neutro, si è istaurato attraverso segni colorati. Molti album sono stati testimoni di questi esercizi che mi hanno portato, dopo un paio d'anni, a trovare la giusta direzione anche grazie alle canzoni ascoltate e cantate durante l'esecuzione dei dipinti. Il tutto ha preso così forma e i segni sono diventati partiture impaginate, grazie alle vocalità dei cantanti che ascoltavo ed emulavo, che venivano custodite dentro le forme spigolose o curvilinee dei telai. Geometrie che contenevano gli acuti vocali e le morbide scale musicali. Bozzetti realizzati su cartoncino mi sfidavano quando dovevo riprodurre il gesto sulle grandi superfici, con sovrapposizioni di colore che ne emulavano la leggera e libera espressività.
Una grande sfida che la tecnica pittorica studiata in accademia mi ha aiutato a vincere, mentre la musica, che accompagnava la stesura dei colori sulle superfici, suscitava un’emozione che permetteva l’elaborazione di vibrazioni cromatiche.
Ho rivisto le opere che ho esposto con uno sguardo distante, in occasione del trasloco del mio studio che ho lasciato dopo trent’anni, e mi sono chiesto se erano qualitativamente capaci di sostenere la visione di nuovi fruitori. Non nascondo di avere avuto timore a mostrare opere datate, come se il mio lavoro non avesse ancora oggi uno sviluppo.
P.M - L.M. Da qualche anno, la ripresa della linea astratta aveva avuto una formulazione singolare nella teoria dell'Astrazione povera elaborata da Filiberto Menna che per qualche verso ci pare possa dirsi un presupposto delle tue scelte di quegli anni. Lì dove si potrebbe sostituire l'agognato silenzio perseguito da quella compagine con un incedere inversamente incline ad ospitare il suono cristallino del segno e del colore. In nuce ravvisandovi la scelta di accompagnare i segni sui quadri con la tua voce...
F.I. Ho conosciuto Filiberto Menna nella galleria dei Banchi Nuovi di Roma in occasione delle mostre da lui curate. Fulvio Abate gli aveva mostrato alcune foto dei miei quadri e aspettavamo che stesse meglio per fare un incontro a studio ma purtroppo non è stato possibile.
Forse la scelta cromatica di quei lavori bianco neri avrebbe favorito l’inserimento all'interno della sua squadra ma la mia pittura forse era troppo lirica e poetica in rapporto a quella degli artisti del gruppo.
Nel 1986 avevo mostrato i primi dipinti astratti a Italo Mussa il quale asseriva che l'astrazione non era l'espressione del momento ma che avrei dovuto seguire la Nuova Figurazione che lui portava avanti. Consiglio che ho rifiutato. Così ho continuato a stratificare danze di segni e colori che si stendevano sulle grandi tele dipinte per terra. Fulvio Abbate scrisse poi la presentazione per la mia prima personale a Roma del 1988 in cui ho esposto grandi opere piene di ritmi sudamericani e mediterranei dedicate alle cantanti Yma Sumac e Om Kalsoum.
Credo che molti artisti creino una sorta di coreografia mentre eseguono le proprie opere: ho avuto modo di vedere, ad esempio, Toti Scialoja che dipingeva tra salti e urla.
Nel mio caso si può invece parlare di una sorta di regia, dove tutte le componenti sono ordinate e pronte per l’esecuzione.
P.M. - L.M. La dimensione performativa che è sostanziale nel tuo lavoro mette insieme arte visiva, musica, teatro, identità e ognuno di questi aspetti è intrinsecamente legato agli altri. E in occasione della prima personale alla Temple University Gallery di Roma nel 1990 che presenti Strilli la tua prima performance canora dove nasce UNPOPOP, personaggio che canta d'arte contemporanea e che irride giocosamente i suoi tic e le sue insensatezze. Questa tendenza al travestitismo, indossando panni che evocano alcuni famosi interpreti canori ha una radice estremamente pop ma al contempo sembra dettata da scelte ritmiche che trovano corrispondenze nella pittura. Quale dialogo vi è a monte?
F.I. Nella mia famiglia c’è sempre stato un rapporto con la musica. Mio padre suonava il violino e mia madre, oggi novantaduenne, suona ancora il pianoforte. Da ragazzo mi portavano ai concerti di musica da camera e alle opere liriche.
Già negli anni settanta mi facevo fotografare adottando travestimenti e pose per fermare un’idea attraverso la foto e ho anche partecipato ad un paio di spettacoli musicali, ma è stata la pittura a prendere il sopravvento.
Ad un certo punto, queste esperienze giovanili sono diventate necessità.
I dipinti che portavano nomi di canzoni o cantanti non mostravano a pieno le mie capacità. C’è però un episodio che ha dato il la al cambiamento.
Ad una cena milanese a casa di Lisa Ponti, tra gli artisti invitati c’erano anche Marisa e Mario Merz. La serata non decollava e Lisa mi chiese di mettere su un disco.
Scelsi quello di Lucio Amelio e Marisa Merz mi domandò cosa ne pensavo. Risposi che cantavo meglio. Mi chiese di dimostrarlo e subito dopo Mario Merz mi chiamò dicendomi: la canzone è una grande comunicazione!
L’anno successivo ho realizzato la prima performance musicale in galleria.
Tutto si è compattato, i dipinti avevano acquisito una voce, ma non poteva essere soltanto una mera esibizione. Dopo la prima performance alla Temple Gallery ho sentito così la necessità di entrare nei panni del cantante creando una figura che raccontasse del sistema “Arte contemporanea”.
Per la performance successiva ho scritto, con l’aiuto di Antonello Dose e Enzo Pitta, “Vernice, vernissage” canzone che parla delle inaugurazioni e delle figure che ruotano attorno all’arte.
Dal quel momento sono nati una decina di personaggi che mi hanno permesso di evidenziare malesseri sociali. Ho ripreso il rapporto con la fotografia, supportata dalla pittura, e utilizzato l’ironia travestita e rivestita di Kitsch per catturare l’attenzione.
Un eterogeneo mondo che, attraverso differenti discipline artistiche, mostra il mio pensiero ludico, ironico e critico.
P.M. - L.M. Il titolo dato alla mostra, Rewind, è una metafora del tempo cui rinvia ma incrocia anche il doppio registro di pittura e musica che da un certo momento in poi può dirsi non aver mai abbandonato le tue traiettorie artistiche. Dal punto di vista performativo la tua è chiaramente una poetica degli omaggi: un'identificazione momentanea con un autore, con un brano musicale, con un abbigliamento, con un tempo. Una rivisitazione che a volte ha il sapore della nostalgia, ma che corre sempre su una linea sottile che divide sentimento e ironia.
F.I. Il rapporto nostalgico e malinconico è proprio delle opere realizzate fino al 1990, periodo in cui ascoltavo musica jazz, blues, leggera italiana o francese.
Si trattava di un particolare momento introspettivo, ma ricco di un romantico coinvolgimento con la pittura anche se segnato dal difficile dialogo con gli operatori del settore.
Dopo di che, avendo impugnato l’ironia, sono riuscito a muovermi con maggiore destrezza e intrecciare rapporti con le più importanti gallerie romane del momento come La Nuova Pesa, Oddi Baglioni, Il Ponte Contemporanea fino a quelle fuori confine come Espacio Minimo di Madrid con cui ho collaborato per 10 anni.
Lo sviluppo successivo alle opere esposte da TRAleVOLTE è stato caratterizzato dalla creazione di stereotipi che ho interpretato attraverso tableaux vivants, piccole rappresentazioni dalla breve durata, simile a quella che può catturarti la visione di una qualsiasi opera d’arte.
Queste figure, corredate da costumi, coreografie e musiche realizzate appositamente, mi hanno aiutato a far vivere il mio pensiero critico.
P.M. – L.M. L’aspetto ludico “scanzonato” è un costante grimaldello cui ricorri per muovere la tua critica sarcastica al prendersi troppo sul serio. Un modo anche per “farsi innocente”. La voce, il segno, la parola…In quali ulteriori direzioni ti sei mosso successivamente?
F.I. L’utilizzo della parola cantata ha permesso di dare “voce” al mio lavoro che, con i “Pensierini” realizzati dal 2003, è diventato testo scritto con calligrafia infantile: ulteriore performance in cui mi metto nei panni di un bambino per evidenziare il malcostume sociale anche attraverso il disegno e la precisione tecnica con cui sono stati eseguiti.
P.M. – L.M. In quarant’anni di lavoro hai dunque tenuto fede ai momenti iniziali della ricerca, aggiungendo, specificando, dando evidenza cristallina e continuità di metodo e contenuto a quei primi passi nell’arte…
F.I. Negli ultimi anni altri testi, dipinti con font a pallini argentati, si sono posati su dipinti astratti che ricordano quelli della prima ricerca. Questa serie di opere “Per l’Appunto” racconta la mia visione del quotidiano anche dipingendo su supporti trasparenti attraversati da fonti luminose che si proiettano sulle pareti.
A questo punto sarebbe il caso di proporre altri Rewind per mostrare così le numerose sfaccettature del mio lungo percorso.

Aprile 2024
1) Francesco Impellizzeri, Rewind, Associazione Promozione Sociale TRAleVOLTE, Roma, 20 febbraio - 22 marzo 2024.