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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Irene Fraccaro
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Introduzione. Ad aprile 2024 iniziano gli incontri del progetto Superficies, quarta parete, pensato da Pasquale Polidori con Cristina Muccioli e Domenico Scudero, svoltosi tra le mura del Teatro Litta, a Milano. Nel mese di febbraio ho deciso di aderire all’iniziativa e sono stata selezionata, insieme ad altri tre colleghi, per prendere parte al progetto. Nel corso dei mesi questi incontri si rivelano la base pratica e teorica di un percorso che si proietta fino all’anno odierno, il 2025, in particolare fino alla presentazione del libro Superficies, materiali di tangenza del 9 aprile, l’oggetto della riflessione a cui è rivolto questo testo.
Il seguente resoconto è composto da una prima parte introduttiva che permetterà di cogliere gli elementi principali da cui si è partiti per lo sviluppo delle successive fasi di ricerca e una seconda parte rivolta alla presentazione del libro in Accademia. Soffermarsi sull’analisi critica dell’intera esposizione diventa funzionale non solo alla restituzione dell’iniziativa da un punto di vista artistico, ma anche alla possibilità di riconoscere nell’intero processo progettuale e performativo il nucleo centrale del discorso, divenendo un corpo unitario articolato in forme sempre diverse e sostenuto da una base comune di ricerca teorica che ha orientato ogni fase del lavoro.
Superficies / Quarta parete. Breve resoconto. La scrittura è fatta di omissioni; come il racconto di un ricordo ricco di dettagli, cercare di definire un’esperienza collettiva, discontinua e poliedrica non è né semplice né esaustivo. Dunque, come restituire una progettualità durata mesi e vissuta da più punti di vista, quelli dei partecipanti e di chi era esterno al progetto? Questa questione può fare eco alle intenzioni del presente testo e riesce inoltre a rientrare nelle domande del progetto stesso: cosa sia esponibile e cosa no; se la finalità della ricerca sia l’esposizione finale delle opere o se il suo senso sia proprio la sua progettazione; o anche se il processo, per sua natura legato in un certo senso all’impresentabilità, possa essere espresso nella sua complessità. In questa prima parte viene restituita in breve l’esperienza laboratoriale svoltasi tra aprile e luglio 2024 nella Sala Cavallerizza del Teatro Litta a Milano.
Il progetto ha preso avvio con l’intento di esporre opere di studenti e studentesse iscritte all’Accademia di Brera, affiancati da curatori provenienti dal corso di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali, al quale ho preso parte. I laboratori, concepiti come momento di formazione preparatoria alla mostra allestita all’interno del teatro, volevano essere l’occasione per indagare diverse elaborazioni concettuali artistiche: in primo luogo il tema della superficie, rievocata dalla quarta parete teatrale, la linea immaginaria tra spazio teatrale e pubblico, per cui “si può cogliere un analogo della superficie pittorica o, più in generale, della parte esposta di ogni opera d’arte.”(1); l’esponibilità artistica e l’opera d’arte come spazio di mediazione tra l’elaborato artistico e il pubblico; le problematiche essenzialmente pittoriche, quali l’investigazione del rapporto tra superficie e profondità e tra processo e ultimazione. Il vero cuore del progetto, peraltro, sono stati proprio i laboratori, che hanno reso possibile l’apertura di riflessioni e dinamiche collaborative e decisionali fondamentali per la realizzazione della mostra. Il fatto che l’esposizione dei lavori si sia svolta concretamente nell’arco di una sola giornata, il 4 luglio 2024, rende ancora più significativo il loro ruolo. La progettualità si prospettava sin dall’inizio come processo di ricerca più che come un percorso orientato alla realizzazione dell’esposizione. Era sintomatico, dunque, che durante l’intero workshop i partecipanti ricoprissero ruoli differenti e che rimanesse sempre sottintesa una collaborazione corale che tendeva a superare le tradizionali distinzioni tra artista e curatore, docente e studente. Le giornate dedicate ai laboratori erano strutturate attraverso programmi variabili in base al periodo e alle esigenze – letture collettive performative documentate da alcuni microfoni sui testi di Gina Pane; lezioni tenute dalla Professoressa Cristina Muccioli i cui temi seguivano come fil rouge il tema della superficie; dalla decostruzione del catalogo della Biennale alla messa in scena dal vivo del quadro di Courbet L’Atelier del pittore (per cui io, tra l’altro, da curatrice, ho interpretato l’artista stesso). Il tema della “superficie” e la riflessione sulla pittura attraversavano l’intero processo laboratoriale, manifestandosi come un elemento latente che progressivamente acquisiva significato. Non si trattava, tuttavia, di un sapere condiviso in modo univoco, ma piuttosto di un campo di ricerca aperto, in cui ciascun partecipante poteva confrontarsi con la tematica secondo il proprio linguaggio e le proprie modalità.
Gli artisti, che dovevano interpretare il tema proponendo progetti coerenti con il proprio approccio di ricerca e il luogo ospitante, e i curatori, che dovevano contestualizzare i lavori e creare un percorso organico e funzionale allo spazio, hanno collaborato suddivisi in diversi gruppi per poter trovare le migliori soluzioni allestitive e procedere con le ultime fasi progettuali prima dell’esposizione effettiva.
Dall’intera esperienza sono scaturiti due libri. Il primo si avvicina più ad un catalogo nel senso classico del termine, in cui avviene una documentazione più approfondita dell’intero workshop e un focus sulle opere esposte degli artisti attraverso dei testi critici (la pubblicazione è prevista entro l’anno 2025 ed è prodotta dall’accademia di Brera), mentre il secondo è il libro Superficies – materiali di tangenza, curato da Polidori e prodotto dalla casa editrice Cambiaunavirgola (Roma, 2025). Quest’ultimo nasce con l’intenzione di offrire una documentazione dei laboratori; “spunti di discussione, bozzetti di opere realizzate e non realizzate, appunti presi durante le attività di gruppo e riflessioni elaborate individualmente.”(2) I materiali archiviati e le riflessioni scaturite da queste pubblicazioni erano ricche e ancora in fase di trasformazione. La presentazione del libro appena pubblicato si configurava come un passaggio necessario. Da questa esigenza emergono alcune domande significative: come restituire questo materiale ad un pubblico che non conosce la mostra? Come riattivarla? Ma soprattutto, come partire da un libro e farlo diventare un ambiente performativo, in grado, cioè, di ricreare la forma di un discorso in cui si intrecciano contenuti diversi?
La presentazione del libro. La presentazione di un libro, per consuetudine, si rivolge a un pubblico di appassionati o uditori occasionali, spesso accomunati dall’aspettativa di assistere a un’esposizione verbale dei contenuti, osservare un giornalista prendere appunti per un eventuale articolo e concludere l’evento con un applauso, seguito da qualche scambio informale. In controtendenza rispetto a questa prevedibile ritualità – e forse proprio per metterla in discussione – il Professore Polidori, nel contesto della consueta lezione di Tecniche Pittoriche, ha scelto di trasformare la presentazione di Superficies. Materiali di tangenza in un’esperienza più aderente alla natura molteplice dell’opera, concepita non come evento promozionale, ma come atto espositivo. La forma della mostra è risultata quella più coerente con le esigenze comunicative e concettuali del progetto, diventando così il veicolo più efficace per rendere accessibile il contenuto del libro.
Tale scelta ha comportato una modalità organizzativa non convenzionale, nella quale i ruoli non erano rigidamente definiti. Polidori, ad esempio, ha agito contemporaneamente da curatore, coordinatore e artista. Anche per le studentesse e gli studenti coinvolti, il compito non si limitava alla progettazione dell’intervento: il confronto costante con il docente e con lo spazio espositivo era essenziale per la riuscita dell’iniziativa.
Uno degli elementi fondanti del processo è stato l’accordo condiviso su un principio strutturale: si trattava pur sempre della presentazione di un libro, e ogni azione doveva, in qualche modo, ricollegarsi a esso. Al tempo stesso, l’intero dispositivo espositivo doveva essere coerente e articolato nello spazio e nel tempo, secondo una logica organica. Definiti questi assunti iniziali, il lavoro è iniziato attraverso incontri preparatori, durante i quali si sono discussi i progetti e le possibili modalità di attuazione. Tale approccio metodologico si è poi riflesso nella forma finale della mostra, assumendo particolare rilievo nell’emergere dell’elemento performativo come suo nucleo centrale.
Il docente, nel corso dei numerosi confronti, ha più volte chiarito il significato del “performare”, soffermandosi, in particolare, sulla distinzione tra teatro e performance artistica. Se nel teatro l’attore segue un copione predeterminato all’interno di uno spazio scenico definito, nella performance, invece, l’artista si muove verso obiettivi autonomamente stabiliti, da realizzare entro un tempo e in uno spazio reale, temporaneamente investito di valore artistico. È in questa prospettiva che anche la progettazione della mostra ha assunto un carattere performativo, orientandosi verso obiettivi condivisi anziché seguire uno schema predefinito, elemento che ne ha rappresentato, probabilmente, il suo punto di forza.
Questo approccio ha generato una continua trasformazione dei progetti stessi, costantemente rimodellati nel dialogo tra il docente, gli artisti e lo spazio. Utilizzando una metafora musicale, la metodologia adottata può essere paragonata all’improvvisazione jazzistica: la mostra si è sviluppata a partire da un tema comune, offrendo a ciascun partecipante la possibilità di articolare un’espressione personale e consapevole, ben oltre la semplice rappresentazione del libro. Il volume ha così trovato una forma espansa, traducendosi in opere e interventi che, come accordi individuali in una partitura collettiva, ne hanno dispiegato i contenuti nello spazio e nel tempo. In modo simile a un’orchestra che dà corpo alla partitura in un’esecuzione unica e irripetibile, la mostra è divenuta un tutto coerente nella sua performatività.
Dopo circa due mesi di confronti, il concept principale degli allestimenti era stato definito, dunque rimaneva necessario verificare la coerenza e la funzionalità dell’insieme. Nella progettazione di una mostra che comprende opere eterogenee – dalle performance ai video, fino alle installazioni – diventa imprescindibile valutare attentamente la fattibilità dell’esposizione. Ciò implica alcune considerazioni tecniche, come la disponibilità di prese elettriche, la percorribilità degli spazi e la gestione delle interferenze sonore tra le opere, ma anche riflessioni di carattere percettivo, legate all’impatto visivo e all’equilibrio complessivo del progetto, cercando di prefigurare l’esperienza finale nella sua totalità.
La collaborazione con figure esterne è stata di rilevante importanza e di significativa valenza. Considerata la natura performativa e audiovisiva dell’evento, caratterizzato da una forte componente temporale, la documentazione video si è rivelata indispensabile non solo per fini archivistici personali, ma anche come possibile testimonianza di una metodologia espositiva alternativa, potenzialmente replicabile. Di notevole importanza è stata inoltre la partecipazione di un’artista esterna al gruppo di lavoro, Nura Saccaro, coinvolta in una fase avanzata del progetto. Il suo contributo ha consentito di risolvere alcune criticità emerse durante le riflessioni finali, apportando un elemento di equilibrio all’intera struttura espositiva. Questa decisione si inserisce in un momento in cui il docente ha riconsiderato il proprio ruolo all’interno della mostra: inizialmente previsto come lettore del libro, si è reso conto della necessità di una figura che potesse accogliere il pubblico e facilitare l’interazione con le opere. Da questa riflessione è scaturita la scelta di affidare tale funzione a Saccaro, con esiti positivi sull’efficacia complessiva dell’allestimento.
Un altro aspetto altrettanto importante era costituito dalla promozione dell’evento tramite la newsletter dell’accademia, le locandine fuori dall’aula 8, alcuni testi critici dei lavori esposti – scritti e curati da Polidori – da presentare come foglio di sala e una grafica per i social. Una volta confermate tutte le informazioni relative alla presentazione e gli scritti, recuperati i materiali dal magazzino dell’accademia e aver confermato ogni operazione artistica, la progettazione poteva considerarsi conclusa.
La mostra si è tenuta il 9 aprile 2025, dopo più di un anno dall’inizio dei laboratori per la prima mostra a teatro Litta. il giorno antecedente alla mostra si è organizzata una prova generale sia degli allestimenti sia degli interventi performativi, seguito dal disallestimento degli stessi, essendo un’aula prevista anche per altre lezioni. Il giorno seguente, alle otto di mattina, abbiamo iniziato ad allestire nuovamente concludendo attorno alle dieci. Il progetto è iniziato attorno alle dieci e trenta ed è durato tre ore, fino alle tredici e mezza.
I lavori esposti. I lavori esposti, come già anticipato, sono stati di diversa natura; accanto a lavori inediti concepiti a partire dai contenuti del libro, sono stati presentati anche materiali preesistenti, quali fotografie e video realizzati durante i laboratori e la mostra che hanno preceduto la pubblicazione, ospitata presso il Teatro Litta. Tale scelta espositiva mirava a restituire la complessità e la continuità del progetto Superficies, non limitandosi a una riflessione a posteriori sull’opera pubblicata, ma riproponendo l’esperienza originaria che ne ha costituito il fondamento. In questo modo si è voluto instaurare un dialogo interno al progetto stesso, in cui elementi del passato venivano riattualizzati nel presente e messi in relazione con nuove produzioni.
L’esposizione ha visto la partecipazione di vari artisti, quali: Menghuixin Cao, Irene Fraccaro, Alice Galizzi, Francesco Gennaro, Yuxin Wu, Yihan Zhang, Yiyang Zhou, oltre alla gentile partecipazione di Nura Saccaro e Yufei Tong, e all’inclusione di vari materiali provenienti dal laboratorio Superficies.
Mi soffermo brevemente sui lavori cercando di restituire e ampliare ulteriormente la stratificazione di intenzioni che ha avuto questo progetto.
Yihan Zhang presenta il suo sguardo sul mondo con la performance Benvenuti nel mio mondo; il suo intervento ha previsto una partenza all’interno dell’aula 8 con il monologo del suo lavoro per proseguire nei corridoi dell’accademia, in cui accompagnata da un telo oro (rimando allo sfondo pittorico dei quadri quattrocenteschi), declamava il suo monologo distribuendo bigliettini con sopra per ognuno un estratto dal libro, per poi tornare in aula e ripetere i passaggi. Francesco Gennaro ha lavorato a un adattamento di S-partitura per le sedici voci, una lettura corale di Lettre à un(e) inconnu(e) di Gina Pane, uno dei testi fondamentali della body-art, che durante il seminario è stato oggetto di varie letture di gruppo dirette a sviluppare una coralità musicale e collettiva. Per la presentazione il testo è stato decostruito e ricomposto con alcune parole tratte dall’opera. Progetto Studios di Yiyang Zhou è la documentazione del progetto installato al Teatro Litta, in cui oggetti scelti dal deposito del teatro si mescolano ad altri provenienti dai luoghi di lavoro di ciascun partecipante al laboratorio, per cui gli oggetti acquisiscono autonomia propria. Alice Galizzi ha presentato la Teoria della busta, con una composizione di buste reali che determinano la creazione e la possibilità di poter ottenere altre dimensioni spaziali, e dei teli in vinile da pittura murale che giocano sul concetto di ambiguità. Ombra di farfalla si presenta come un’installazione performativa e cinematografica in cui l’artista, Yuxin Wu, inscena il loop di un sogno, quello della protagonista del video, in cui l’immagine è in continua trasformazione, come a suggerire che lo schermo a cui assistiamo in realtà “è un processo, più che un oggetto rispondente a criteri definiti.”(3) Ispirata all’opera di Yuxin e pensata appositamente per la presentazione del libro in aula 8 è la ninna nanna cantata da Menghuixin Cao – Dormi, oh mio amore –, un testo scritto collettivamente in cui la cantante/artista si relaziona con la proiezione del video attraverso gestualità e manufatti di stoffa e cartoncino bianco. Il risultato è l’amplificazione dei contenuti ipnotici del video onirico e la volontà di “mettere a dormire” elementi materiali e immateriali che compongono la realtà dell’Accademia; “una comunità intera su cui cala un sonno profondo, l’ipnosi che conduce all’inconscio della didattica artistica, faccia a faccia con l’utopia dell’arte.”(4) Nura Saccaro si è prestata alla lettura del libro interpretando i testi che casualmente prelevava dai vari contributi, senza che questi venissero letti con un intento narrativo o esplicitando il contesto, interrompendo le frasi e le parole a metà.
Infine il mio intervento, di cui parlerò in modo più approfondito nelle ultime parti del testo e intitolato Teatro della pittura, è un’installazione performativa che unisce i contenuti del libro con alcune domande di indagine sulla pittura.
La performance ha rappresentato il dispositivo attraverso cui si è costruito, nel corso dell’intera presentazione, uno spazio condiviso e partecipato in cui gli interventi si sono intrecciati in maniera corale, dando origine a una sorta di rituale improvvisato e polifonico. I diversi ambienti e le opere esposte hanno generato una resa musicale e visiva spontanea e autentica dei contenuti del libro. Ne è emersa così una narrazione complessa ma armonica, in dialogo costante con lo spazio e con lo sguardo del pubblico presente.
Come ampiamente argomentato, questo progetto nella sua totalità ha dimostrato di essere complesso tanto sul piano concettuale quanto su quello metodologico. Tra gli aspetti più significativi, a mio parere, si distingue il ruolo centrale del fare che produce altro fare, inteso come generatore di ulteriori azioni. La pratica, spesso considerata come semplice applicazione di teorie preesistenti e statiche, diventa un metodo autonomo, capace di produrre conoscenza a partire dall’esperienza stessa del fare. “Da cosa nasce cosa” diceva Bruno Munari. Con questo non voglio far intendere una svalutazione del pensiero teorico; quando viene integrata alla pratica e le lascia più margine d’ azione, è possibile che quest’ultima possa offrire nuove prospettive e forme di conoscenze. La didattica contemporanea si sta muovendo in quella direzione, mentre l’arte, da sempre, ne ha suggerito il potenziale, sebbene spesso trascurato. Il progetto Superficies e la successiva pubblicazione hanno dato vita a una catena di riflessioni che, oltre a dimostrare il valore delle questioni fondanti dell’iniziativa, sottolineano l’importanza di un approccio critico alle pratiche artistiche. Tali pratiche necessitano di essere trattate attraverso modalità transdisciplinari e con approccio analitico, in modo da poter ottenere un contesto in cui poter fare della ricerca il senso del fare arte.
Metodologia. Un percorso discorsivo. Interrogarsi su ciò che implichi la performance e sui tipi di discorsi critici che essa può attivare in questo caso specifico costituisce un’opportunità per individuare concetti rilevanti all’interno della pratica artistica messa in atto. Sebbene non sia intento di questo scritto proporre una definizione di performance, risulta tuttavia significativo osservare le modalità attraverso cui essa è stata applicata nella mostra/presentazione del 9 aprile e comprendere il motivo per cui essa è stata una scelta necessaria.
All’interno di tale contesto, la performance può essere letta come atto discorsivo, in quanto media tra la dimensione scritta dei testi e quella orale, incarnata dai performers. La struttura narrativa dell’esposizione e la sintassi specifica di ciascun intervento – accompagnata dalla propria morfologia espressiva – si collocano in linea con la concezione foucaultiana di discorso, inteso come insieme articolato di segni (5). In questa prospettiva, la performance assume i tratti di un atto enunciativo, legato alla parola e alla grammatica, in cui diversi linguaggi e sistemi simbolici si manifestano all’interno di un tempo definito, generando un discorso complesso e transdisciplinare.
Appare dunque utile ampliare la nozione stessa di performance, considerandola non soltanto come dispositivo linguistico, ma come pratica conoscitiva (6). In tal senso, come evidenziato dall’artista e regista Jacopo Miliani, lo studio della performance si configura come una metodologia di ricerca, in cui l’analisi della pratica stessa permette di avvicinarsi al significato intrinseco del verbo "performare" (7). Questo passaggio risulta decisivo nel momento in cui si riconosce all’atto performativo una funzione propedeutica all’apprendimento di saperi o teorie. In quest’ottica, nella modalità con cui è stata organizzata, ovvero quella della presentazione performativa del libro, l’atto performativo si configura come strumento didattico. Attraverso i diversi interventi, l’opera è stata illustrata nelle sue componenti a un pubblico che, progressivamente, ne ha colto i contenuti senza seguire una narrazione lineare. A differenza della presentazione tradizionale, in cui il messaggio è veicolato principalmente attraverso la parola e, quindi, filtrato dall’unico punto di vista del relatore, l’impiego di molteplici linguaggi – tra cui la performance – e la disseminazione dei contenuti in differenti forme espressive hanno reso possibile una fruizione del testo personale e diversificata, pur mantenendo coerenza con i contenuti dell’opera.
Si delinea in questo modo una forma di conoscenza collettiva, in cui il pubblico, pur non condividendo necessariamente lo stesso sapere al termine dell’incontro, diventa portatore di molteplici punti di vista che, insieme, contribuiscono alla comprensione complessiva della pubblicazione.
L’aspetto didattico e dialettico, dunque, emancipa la performance da una sua definizione univoca, contribuendo a suggerire le potenzialità reinventive di questo mezzo. Queste considerazioni, dal mio punto di vista, scaturite come riflessioni nate dall’osservazione di una progettualità che ha previsto spontaneamente questi mezzi didattici e artistici, non vogliono essere risolutive o essere un modo per definire e costringere in ulteriori discipline le modalità adottate; voleva essere una restituzione del modo di operare, progettare, riflettere criticamente sul mezzo performativo e dare rilievo a questa specifica occasione in cui l’esposizione performativa ha potuto materializzare il linguaggio scritto, divenendo esso stesso linguaggio interdisciplinare.
Dalla pratica alla teoria. L’approccio alla ricerca si fonda spesso sulla tesi che la conoscenza emerga primariamente dalla teoria, che costituisce il presupposto di un processo gnoseologico capace di sostenere l’esercizio investigativo. Sebbene la pratica artistica possa effettivamente scaturire da una formalizzazione teorica, è possibile, al contrario, che da essa possa originarsi una vera e propria epistemologia? Nel caso della performance, come già discusso, tale processo concettuale inverso è ampiamente riconosciuto da numerosi artisti e teorici.
Se si pensa alla storia dell’arte si considera una disciplina occidentale che si è strutturata attraverso l’analisi teorica delle opere, contribuendo a datarle, inscriverle e legittimarle in una narrazione storica che ha progressivamente fondato il sapere artistico. Tuttavia, è fondamentale ricordare che, prima ancora dell’elaborazione teorica, è stata l’opera stessa a generare forme di conoscenza, agendo come matrice esperienziale e concettuale.
Da queste cornici teoriche sono emersi paradigmi estetici che hanno influenzato profondamente la lettura delle opere, spesso imponendo uno sguardo omologante, incapace di cogliere le epistemologie specifiche che esse veicolano alcune produzioni nate all’interno di specifici contesti culturali e storici. Questo stesso approccio ha prodotto, nel tempo, una serie di esclusioni sistemiche: molte opere sono state marginalizzate o rimosse attraverso filtri critici e passaggi storici funzionali alla definizione di ciò che potesse essere riconosciuto come “arte”, determinando così i confini di legittimità del discorso artistico.
In tale contesto, mi chiedo se la performance – così come altre pratiche artistiche nate con l’intento di liberare l’espressione individuale e di mettere in discussione le dinamiche istituzionali, come le esperienze derivanti dai collettivi artistici (8) – possa dunque configurarsi come un modello di resistenza epistemologica. Essa può essere vista come una forma che contribuisce a mettere in discussione le strutture conoscitive istituzionali e a proporre una rilettura critica dei ruoli: i contenuti possono passare anche dal corpo e quel corpo, che produce segno e senso, è del performer. Ne deriva di conseguenza una metodologia che apre a una concezione complementare della produzione e dell’apprendimento del sapere, fondata sull’esperienza, sul corpo e sulla temporalità dell’atto creativo.
Il teatro della pittura. Una breve esperienza personale. Tra performance e gesti teorici. Il mio percorso formativo a Brera inizia dal corso di Pittura e si conclude con il Biennio di Visual Cultures e pratiche curatoriali. Nel mio percorso accademico, pratica e teoria hanno sempre proceduto a passi alterni, suscitando frequentemente interrogativi sulla loro reciproca affinità. Ho a lungo considerato la loro complementarità come un dato acquisito, ma ho poi compreso come il dibattito su questi temi sia in realtà più complesso e articolato su più livelli di quanto immaginassi. Ho avuto inoltre modo di toccare il tema in diverse occasioni e ho trovato nella presentazione del libro l’occasione di poter continuare la riflessione attraverso il mezzo performativo in dialogo con gli interventi presentati.
L’idea nasce dal contributo proposto nel libro Superficies materiali di tangenza, in cui presento una intervista fittizia rivolta alla impersonificazione della Pittura nei panni di una nota artista internazionale. L’intervista è accompagnata da alcune immagini scattate personalmente in cui sono presenti opere pittoriche in vari contesti dell’arte, come musei e fiere, sempre in presenza ed osservati da figure umane viste di schiena. Le domande da tipica inchiesta giornalistica e le presunte risposte date dall’interlocutore sono tutte derivanti dalla stessa persona, seguendo una logica dettata dal mio bagaglio culturale senza alcuna pretesa di esaustività o realismo. Inoltre, rispetto alle pagine del libro, questo contributo è ribaltato sottosopra; perciò, il lettore è costretto a girare il libro; come la pittura si intromette a volte anche in modo scomodo ai discorsi, così l’intervento si presenta in forma di stortura (della pittura). Per la presentazione ho deciso di soffermarmi principalmente sul ruolo che l’atto stesso di porre domande ha costituito per quell’intervista, cercando di continuare l’indagine ampliando e amplificando l’interrogazione sulla pittura e sulla possibilità di poterne trarre una conoscenza diretta. Infatti, uno degli obiettivi era di porre in primo piano proprio la domanda come elemento di partenza per la ricerca e luogo di indagine sul significato profondo del fare.
Nei ruoli di una intellettuale e artista intervistatrice, ho interrogato la pittura con domande dirompenti dettate ad un tono alto in modo casuale, intervallando la costante cantilena della ninnananna di Huixin Cao e il suono delicato della voce di Nura Saccaro che leggeva estratti del testo del libro. Ogni domanda veniva applicata al muro, creando una intervista indiretta e interconnessa fatta di sole domande, alcune inedite, alcune prese dal libro: C’è sempre una componente simbolica nel tuo lavoro? Quanto è importante la tecnica? Si vuole nascondere o manifestare? Come consideri la tua condizione oggi? Spesso ribaltavo le domande anche sul muro e poi le rigiravo. Ad intervalli casuali, mi mettevo a disegnare un vaso di fiori - soggetto caro alla pittura e, in questo specifico caso, richiamo alle composizioni floreali di Henri Latour - che continuavo a rivelare o celare fisicamente agendo su un sipario costituito da un telo da imbianchini. Oltre alle domande, alla teoria scritta, per me era fondamentale che l’interrogazione prendesse corpo anche nella pratica, essendo io impegnata a replicare sempre lo stesso soggetto floreale, abbozzandolo a matita su dei fogli e poi applicando i vari disegni tra la rete di domande affisse al muro. A fianco era presente anche un foglio da disegno di grandi dimensioni su cui progressivamente realizzavo un dipinto di forme vegetali (losanghe come petali di margherite, linee che suggerivano un fogliame) con della pittura nera, tornando all’opera e separandomi da essa come fosse un supporto alle varie altre azioni in cui ero impegnata. Ogni tanto mi muovevo nello spazio, giocavo con la sedia che si trovava su un bancale, mi alzavo e sfioravo la luce che si trovava vicino al vaso facendola muovere e scomponendo le ombre dei fiori che osservavo, mentre dietro di me a terra appariva lentamente la frase TEATRO DELLA PITTURA, dipinta da Alice Galizzi con della pittura bianca a terra. Le parole del Professor Polidori fanno emergere gli intenti della performance: “In forme ampliate, nell’ambiente dell’aula 8, questa intervista si presenta ora nei modi di un teatro dell’inchiesta, al cui centro vi è ancora la pittura come oggetto di speculazione sia metodologica e sia filosofica. Possiamo dire che si tratti di una allegoria drammatizzata, che si inserisce in una certa tradizione di raffigurazione pittorica della pittura stessa: sistema, materiali, strumenti e modi, ragioni, relazione con le altre forme espressive e in generale il suo posto nel mondo. Oppure è la variante performativa di un saggio sulla pittura, forse una tesi d’accademia, affidato alle potenzialità della finzione — poiché solo nella finzione si materializzerà l’interrogazione impossibile del corpo-fantasma della pittura, presenza invocata. In questo teatro, non ci sono risposte. Valgono solo le domande. Lo spettro della pittura non si rivela che nella sospensione delle soluzioni.” Teatro della pittura è il titolo dell’intervento; mi interessava riattualizzare il luogo in cui era nato e cresciuto l’intero progetto e quindi inserirlo in un contesto coerente con il libro stesso ma anche avere la possibilità di fare qualche considerazione sull’etimologia della parola “teatro”. Il termine “teatro” nasce dal greco antico, théatron, cioè "luogo di pubblico spettacolo" che a sua volta origina dal verbo theàomai, "osservo", "guardo". È interessante sottolineare che théatron ha la stessa radice di theoreo, da cui deriva la parola "teoria” (9). Il teatro e la teoria hanno quindi in comune una caratteristica significativa dal punto di vista fenomenologico ed empirico, cioè l’osservazione. Lo sguardo, che rappresenta un altro grande tema dell’intero progetto Superficies, ha molteplici ruoli nella performance ma anche nella presentazione dei progetti esposti; nel mio intervento esso crea il collegamento tra quelle parti che costituiscono il discorso, composto dalle diverse azioni, le domande e le rappresentazioni del vaso di fiori; nello spazio espositivo lo sguardo è decentrato e l’occhio si muove seguendo le voci e i suoni che richiamano la sua attenzione, come se stesse leggendo diverse righe del libro. Un altro occhio che trovo interessante riportare è stato quello di un artista, nonché un mio caro amico, Luca D’Elia, presente durante la performance. Come il commentatore che arriva ad un certo punto della “storia” (della pittura, dell’artista, dell’opera) e cerca di trarne uno scritto, registra ciò che cattura il suo interesse. L’obiettivo, in questo caso, è la documentazione trascritta mediante un flusso di pensieri che, seppur apparentemente disordinato, ha mantenuto una propria coerenza interna e che è sfociata in una descrizione “informale” incentrata sui suoni e i colori. La riflessione si articola interrogandosi sul limite e sulla relazione che intercorre tra artista e pubblico all’interno del contesto creato. I partecipanti alla presentazione entravano a far parte della situazione ma per un certo limite di tempo, a differenza delle dinamiche previste per una presentazione tradizionale. Cosa implica quindi un intervento temporale che non ha un tempo assoluto in cui si manifesta nella sua interezza e che per sua natura la completezza appartiene al suo stesso svolgimento? Quali sono i limiti di questa progettualità? Diventa necessario un testo, come il presente, che spieghi la complessità degli interventi e, se così fosse, qual è il valore della presenza del pubblico nel qui e ora della presentazione? Dal mio personale punto di vista, la riflessione sulla mostra-presentazione del 9 aprile restituita attraverso questo scritto rientra nel prosieguo del progetto stesso; è l’ulteriore intervento che esiste attraverso un mezzo ancora differente - quello digitale e pubblicato su una rivista specializzata – che, oltre a documentare, contribuisce a sollecitare nuove riflessioni sulle questioni discusse. Come accennato all’inizio del testo, la scrittura è fatta da omissioni e sarebbe impossibile pretendere che questa non sia filtrata dalla mia esperienza e dalle mie conoscenze specifiche. Dunque, trovo che il mio ruolo di scrittrice, artista, performer, curatrice del lavoro performativo possa anche essere un caso di esemplificazione del lavoro stesso avvenuto grazie al progetto Superficies, materiali di tangenza. Il micromondo creato nella mia progettualità può rappresentare le modalità stesse della presentazione, che si discosta da ruoli predefiniti e vede la performatività come mezzo epistemologico e dialettico.
(Ri)epilogo. Questa esperienza ha rivestito un ruolo significativo nella mia ricerca, poiché ha saputo integrare diversi aspetti della mia formazione, emersi in modo del tutto inatteso. Con queste poche righe desidero esprimere la mia gratitudine a tutte le persone che ho avuto l’opportunità di incontrare e con cui ho collaborato nel corso di questo progetto. La dimensione progettuale all’interno delle accademie offre l’opportunità di ricerche molto significative, soprattutto quando si sviluppa grazie alla collaborazione e al dialogo tra diversi dipartimenti; un risultato reso possibile dall’impegno congiunto di docenti e studentə. Auspico che l’intera esperienza possa restituire il senso dell’importanza di superare la concezione di un ruolo rigidamente definito, mostrando come la collaborazione, il dialogo e il pensiero critico artistico siano fonti ricche di possibilità. L’accademia, in questa prospettiva, può così configurarsi come uno spazio aperto alla sperimentazione libera e in dialogo con le necessità che richiede la ricerca contemporanea.

Luglio 2025

1) Tratto dal pieghevole della mostra/presentazione Superficies, materiali di tangenza.
2) Polidori P., Superficies, materiali di tangenza, edizioni Cambiaunavirgola, Roma 2025,  p. 5.
3) Tratto dal pieghevole della mostra/presentazione Superficies.
4) Tratto dal pieghevole della mostra/presentazione Superficies.
5) Michel Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Parigi 1969, p. 141.
6) Per ulteriori approfondimenti sul tema consultare il libro di Jacopo Miliani Performance come metodologia: gesti e scritture, Postmedia Books, 2020.
7) Ibidem, p. 10.
8) Per approfondire i collettivi artistici di seguito sono riportate alcune letture consigliate: Art.comm. Collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità acefale nella pratica dell’arte: oltre la soggettività singolare (2002) di Gabriele Perretta; Collectivism after Modernism: The Art of Social Imagination after 1945 (2007) di Gregory Sholette e Blake Stimson; Le ragioni del gruppo: un percorso tra gruppi, collettivi, sigle, comunità nell’arte in Italia dal 1945 al 2000 (2020) di Lucilla Meloni
9) Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, 1907, p. 1414.