Adrian Paci e Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi nella mostra Travelogue al MUDEC di Milano
Patrizia Mania
Come può una scrittura espositiva rappresentare e riconfigurare il tema del viaggio nella fattispecie dei fenomeni migratori? Al di là delle diverse strade che possono essere perseguite nelle più varie proposte, la condizione per cui le “estetiche migratorie” possano dirsi efficaci è soprattutto quella di marcare la differenza nei contesti e nei modi. Non per contraddire le linee tematiche portanti ma, semmai al contrario, come ha osservato su un piano generale Peterson, per esaltarne e affinarne le direttrici (1). Da questa prospettiva dunque, la presenza di installazioni di arte contemporanea in progetti non specificamente di settore ma di più ampio orizzonte è da ritenersi tanto più convincente e incisiva quanto più si definisce al loro interno con un evidente e rafforzativo scarto semantico. In tal senso è eloquente il caso della recente mostra Travelogue (2) apertasi al MUDEC di Milano dove a esergo e post scriptum del costrutto che, come il titolo enuncia, riguarda il discorso complessivo sul viaggio, sono infatti due installazioni di arte contemporanea, incaricate di aprire e chiudere la parabola espositiva.
Con un anticipo temporale rispetto all’apertura avvenuta alla fine di marzo la mostra è stata introdotta in autunno dall’inaugurazione di un’opera di Adrian Paci che resta l’antefatto della trama espositiva la cui sezione conclusiva ospita un’installazione dei due artisti Gianikian e Ricci Lucchi.
La mostra, sottotitolata “Storie di viaggi, migrazioni e diaspore”, e curata da Katya Inozemtseva e Sara Rizzo, racconta, attraverso oggetti e documenti in gran parte provenienti dalle collezioni del museo, storie e appunti di viaggi, questi ultimi declinati estensivamente anche come migrazioni e diaspore. Assumendo come campo di riflessione una cronologia ampia che dal 1869, data dell’apertura del Canale di Suez, si distende fino a oggi, l’itinerario proposto esemplifica con rapidi passaggi alcuni snodi eloquenti. Dagli oggetti materiali dei viaggi e dai suoi souvenir, attraversando i miti, materiali e letterari; le realtà del nomadismo e della transumanza; i “viaggi della mente” legati a stati di meditazione, alterazione, sogno, qui con un affondo sulla collezione del grande sinologo Carlo Puini; e poi ancora i diari di viaggio, gli album fotografici, i quaderni di schizzi, le mappe, i mezzi di trasporto – dai caballitos de totora, dalla Lambretta di Cesare Battaglini alla minibici pieghevole, dal transatlantico Rex al Concorde – la mostra nel complesso restituisce per sineddoche un plurale universo intorno al tema del viaggio, e la formula abbreviata del rimando ben asseconda la vocazione didattica del MUDEC.
Come si accennava, ad aprire e a chiudere il percorso sono due imponenti installazioni artistiche: la prima di Adrian Paci e la seconda di Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi. Proprio a loro, è stato dunque demandato il compito di circoscrivere un racconto che, sul crinale di una differente incursione nel fotogramma, coniuga l’antefatto e il capitolo conclusivo della mostra. La poetica installazione di Adrian Paci è stata allestita sulla vetrata dell’agorà del museo e presentata fin da subito come il preludio alla mostra successiva. Il vostro cielo fu mare, il vostro mare fu cielo, questo il titolo del lavoro, ha rivestito con 250 riproduzioni ingrandite di fotografie di mare e cielo lo spazio vetrato dell’agorà del museo attraversandolo con una sequenza di istantanee come fosse un’immensa onda (3). Un movimento che, rinforzando lo spazio multicurvilineo dell’architettura della meravigliosa agorà del MUDEC progettata da David Chipperfield, delinea un orizzonte plurimo di vedute marine. Sul piano esclusivamente percettivo, la diafana pelle fotografica che riveste ciascun tassello di vetrata ne scherma la trasparenza producendo in chi vi ci si trova la disorientante sensazione di essere immersi nella foschia. Dentro al vapore dell’acqua e dell’atmosfera. Ciò non impedisce ai brani di cielo/mare di essere pienamente visibili anche se non testualmente riconoscibili sono i tratti specifici di paesaggio fotografato. L’immagine complessiva che ne deriva assomiglia ad un acquario disabitato fatto di acqua/aria e in cui ciascun tassello d’immagine si dà nel reciproco rispecchiamento di mare e cielo come un richiamo universale.
Eppure, come ci suggerisce il titolo, quel mare e quel cielo sono appartenuti a qualcuno. A chi e a cosa si è rivolto l’artista? Più che nell’esito, la risposta va cercata a monte del procedimento messo in atto per sceglierle. I ritagli di foto sono infatti frutto di un prelievo conseguente un attento lavoro di spoglio di immagini preesistenti. Questo grande mosaico di mare/cielo trae la sua origine da fotografie, ritagliate e ingrandite, pubblicate in articoli di cronaca relativi a naufragi di migranti nel Mediterraneo. Il riferimento non è a uno soltanto ma a tanti episodi che nell’insieme appaiono indistinguibili visto che l’artista ha avuto cura di tagliare dalle immagini qualsiasi esplicito rimando all’evento documentato. Nessuna imbarcazione, nessuna figura umana, nessun salvagente o dispositivo per trarre in salvo. Non la cronaca dunque, ma il suo sfondo. Il mare e il cielo. Paci fa leva su un d’après che pur non didascalicamente riferito dall’immagine in essa vi è contenuto inerendo di fatto la sua stessa ragion d’essere e che proprio il titolo dell’opera sottintende incaricandosi di specificare. Inscindibile dall’opera, il titolo Il vostro cielo fu mare, il vostro mare fu cielo, nel “fu” del suo passato remoto, non rende praticabili ulteriori e diverse interpretazioni.
Proprio in ragione della matrice generativa di ciascuna immagine, il paesaggio che poeticamente compongono può dirsi insieme naturale e politico. Se infatti la natura, il mare/cielo, è la condizione ambientale, la politica è il contesto espunto al quale rinviano. Le testate da cui Adrian Paci ha tratto le immagini sono state, tra le altre, Il Sole 24 Ore, The New York Times e Die Zeit. Dalle foto degli articoli pubblicati sono stati cancellati i rimandi didascalici a specifici naufragi, non apparendovi di per sé alcun palese rimando. Si direbbe dunque che di fatto l’artista abbia astrattizzato la cronaca. L’immagine, pur non parlandoci del naufragio, ne è comunque la sua documentazione. E sull’impronta dei panorami dei grandi dipinti circolari in voga nell’Europa del XIX secolo, la sequenza delle immagini, l’una accanto all’altra, qui, diversamente da quelli, tassellizzata e modulata nei riquadri, dà vita a un paesaggio immersivo che in virtù della processualità seguita ci parla e testimonia appunto non di un qualsiasi cielo o di un qualsiasi mare ma di quei tanti attraversamenti alla ricerca della libertà tragicamente scontratisi con la durezza della realtà del Mediterraneo odierno che hanno poi fatto la notizia.
Icasticamente il Mediterraneo, proprio a causa delle migliaia di persone che, animate dalla speranza di approdare a condizioni di vita migliori, vi hanno spesso trovato morte e sepoltura, è stato definito un immenso “cimitero liquido”. Sono stati soprattutto migranti e rifugiati in fuga da guerre, persecuzioni e povertà a perirvi nel tentativo di attraversarlo. Stando ai dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) si calcola che solo negli ultimi dieci anni siano annegate nel Mediterraneo 28000 persone ma, considerando che di molti naufragi non è pervenuta traccia alcuna, si può ritenere che questi dati siano solo parzialmente attendibili. Molti di questi viaggi della speranza si sono infatti interrotti e conclusi nel naufragio ma nessuno li ha intercettati. Spesso a causa di condizioni meteo avverse, ma anche dell’intempestività dei soccorsi, le imbarcazioni utilizzate, per lo più instabili e sovraffollate, non hanno condotto i loro viaggiatori a destinazione. Va aggiunto che la pericolosità e il rischio di questi attraversamenti si ritiene siano stati accresciuti anche da alcune repressive politiche migratorie messe in atto allo scopo di scongiurare quella che da molti è stata avvertita come una vera e propria invasione.
Del mare e del cielo di questi migranti ci parla l’opera di Adrian Paci. Un artista, il cui background abita da sempre proprio queste esperienze e la cui sensibilità al tema è ulteriormente ribadita da questo lavoro.
Su un diverso piano, al termine di un vivace percorso espositivo costellato da oggetti e (s)oggetti migranti è come si diceva un’altra video installazione: Prigionieri della guerra di Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi (4). La loro singolare tecnica di costruzione e composizione delle sequenze che mischia filmati d’archivio a riprese autoriali viene qui proposta attraverso alcuni episodi delle serie Frammenti elettrici e Esodi (5). Una tecnica analitica, “notre caméra analitique” l’hanno definita loro stessi, nella quale hanno rifilmato filmati d’archivio e poi sottoposto i singoli fotogrammi a diversi interventi di espansione, colorazione, contornazione e eliminazione. Un lavoro di scavo archeologico che disvela significati nascosti e si pone l’obiettivo di ricostruire e scrivere una nuova storia spesso distante dalle sue intenzioni originarie. Lo straordinario itinerario che riunisce qui alcuni precedenti lavori si sofferma in questa occasione in particolare sui gitani, comunità di viaggiatori per eccellenza. Filmati d’archivio privato sono le riprese filmiche fatte con una cinepresa di 8mm da una famiglia della borghesia milanese che registra alcuni momenti di vita di un gruppo di nomadi accampati sulle rive del lago di Como. Siamo alla fine degli anni Quaranta e solo da poco il popolo rom era tornato libero dopo la persecuzione e i genocidi nazisti. (6) L’esotismo di allora che spinge a documentare il quadro è agli occhi della nuova narrazione proposta l’antefatto della discriminazione razziale che ostenta l’oggi visto che, riflettono gli artisti, proprio i luoghi di quelle immagini sono ora quelli dove si registra un’accentuazione dell’intolleranza razziale contro i nuovi immigranti. Specificamente ad anni di guerra si riferisce invece una breve incursione dei due artisti nella vitalità di una comunità nomade. Era il 1995 e durante una tregua di una settimana, nei pressi della città assediata di Sarajevo, i due artisti dopo aver scoperto su una collinetta una luce proveniente da un piccolo edificio all’interno del quale era in corso l’elezione della zingara più bella decidono di riprendere da dietro il vetro questa festaiola vitalità della comunità (7). In tempi di guerra, la vita nonostante tutto. I filmati d’archivio, “frammenti elettrici” del passato, ritornano in un altro episodio con il prelievo di un diario di viaggio alla scoperta della Gypsy Road di Nashik a Maharashtra in India. Siamo nel 1935-36, e un gruppo di cacciatori italiani e tedeschi incontra lungo il suo tragitto un accampamento nomade. “Cacciatori e prede, uomini e animali si confondono mentre scene pacifiche di donne e bambini immersi nella vita quotidiana scorrono e si contrappongono a quelle dell’intrattenimento occidentale” (8) E ancora ulteriori “frammenti elettrici” ci portano in Afghanistan quando nel 1978 prima della guerra e dell’invasione dell’Armata Rossa passando per la valle del Bamiyan, quando erano ancora intatte le statue dei Buddha, filmano il movimento lento di una carovana di Kuchi, popolazione rom, che appare, come scrivono, “simile a quella di una grande creatura vivente”.(9) Le domande che si pongono gli artisti sono: “Le carovane viventi sono sopravvissute? Dove emigrano adesso i nomadi, in cerca di pascoli e al ritmo della successione delle stagioni, secondo il costume biblico?” (10) Infine, ancora gli “esodi” in un filmato trovato negli archivi zaristi testimonia del massacro del popolo armeno nel 1915. “Immagini metaforiche – scrivono gli artisti – di tutti gli esodi del secolo” –.
Questi travelogues di Gianikian & Lucchi Ricci, così pregni di memorie storiche e improntati a imperativi etici e politici, ripensano nel fotogramma traslato alle memorie proprie e altrui testimoniando del potere narrativo di uno straordinario e pionieristico lavoro di scavo e di riscrittura.
E se Dentro al fotogramma è il titolo di un volume di Robert Lumley dedicato a Gianikian e Ricci Lucchi (11) che sintetizza efficacemente la loro pratica operativa ben si può prestare anche a descrivere l’installazione al MUDEC e in una prospettiva allargata può estendersi a contemplare su un differente piano anche l’indagine sul fotogramma svolta da Adrian Paci. Per lui un prelievo circostanziato dalle immagini di cronaca che rinviano ai viaggi della speranza dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Per Gianikian e Ricci Lucchi un’esplorazione delle memorie di viaggi in chiave di riscrittura storica. In comune la scelta di riprocessare la realtà in chiave etico politica attraverso il fotogramma.
Aprile 2025
1) Anne Ring Peterson, Migration into art. Transcultural identities and art-making in a globaliside world, Manchester University Press, 2017, p. 113.
2) Travelogue. Storie di viaggi, migrazioni e diaspore, a cura di Katya Inozemtseva e Sara Rizzo, MUDEC, Milano, 20 marzo – 21 settembre 2025.
3) Adrian Paci, Il vostro cielo fu mare, il vostro mare fu cielo, MUDEC, Agorà, Milano, 27 novembre 2024 – 21 settembre 2025.
4) Il titolo è ripreso dal loro primo lungometraggio: Prigionieri della guerra, 1995, 16 mm e 35 mm, colonna sonora di Giovanna Marini, 67’.
5) Spesso i titoli compongono serie reiterate distinte da numeri in sequenza in funzione di una catalogazione di contesti e modalità operative.
6) Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Frammenti Elettrici n.1 – Rom (Uomini), 2002, 13’09”. Musiche originali di Djivan Gasparian.
7) Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Esodi n.1 – Rom in Sarajevo during the war, 2025, 5’50”.
8) Yervant Gianikian & Angela Lucchi Ricci, Frammenti elettrici n.8 – Shooting Party, 2012, 8’50”.
9) Yervant Gianikian & Angela Lucchi Ricci, Frammenti elettrici n.7 – Afghanistan before the wars, 2012 7’12”.
10) Yervant Gianikian & Angela Lucchi Ricci, Esodi n.2 – il Libro della Storia, 2025, 9’28”.
11) Robert Lumley, Dentro al fotogramma. Il cinema di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Feltrinelli, 2013 [titolo originale: Entering the Frame, 2011].