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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La vasta retrospettiva sull’artista americano alla Tate Modern

Patrizia Mania
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Lungo un arco temporale di quasi quattro decenni la variegata esplorazione della realtà condotta dall’arte di Mike Kelly ha avuto costantemente per oggetto i modi con cui i media e le più popolari forme di comunicazione orientano la costruzione e la comprensione delle narrazioni di ogni singolo individuo. Per Kelley non si è trattato semplicemente di metterli a fuoco ma di processarli riconoscendovi l’origine di tanta incompiutezza e sofferenza che in primo luogo ha riguardato lui stesso. Non dunque una supina presentazione dello status quo ma una rielaborazione critica, una denuncia, una messa al vaglio senza assoluzione. La sua ci appare infatti una critica efferata alle ideologie dei consumi che regolano appartenenze di genere, di status sociale, di desideri. Una critica per certi versi disperante in cui ha messo in scena con estrema lucidità le fragilità identitarie del suo e del nostro tempo riservando una particolare attenzione alle valenze traumatiche che le accompagnano. Il bersaglio è la dominante cultura pop americana cui guarda con disincanto mostrando scetticismo nei confronti dei suoi dogmi e denunciandone le ipocrisie di fondo. Un sistematico atto d’accusa e di rivolta attraverso il quale sembrerebbe aver provato a esorcizzare i suoi stessi latenti traumi.
Su questo sfondo motivazionale, Kelley ha sviluppato un lavoro polisemico nel quale l’uso indiscriminato delle materie del quotidiano e l’utilizzo di vari differenziati linguaggi ne hanno fatto uno degli artisti più influenti del suo tempo. Dalla performance all’installazione, dal disegno alla pittura, dalla fotografia al video, dal suono e dalla partecipazione a gruppi musicali – nei primi anni ’70 farà in particolare parte della formazione proto punk Destroy All Monsters - al testo e alla scrittura, l’espressione artistica di Kelley non ha disdegnato nulla servendosi di volta in volta del linguaggio ritenuto più adatto.
L’eredità di questo artista complesso, impossibile da classificare, è tutta racchiusa nella vasta retrospettiva itinerante coinvolgente per un biennio quattro città europee – Parigi, Düsseldorf, Londra, Stoccolma - in un omaggio postumo di particolare rilevanza (1). Ghost and Spirit, questo il titolo della mostra che, nella terza tappa ora in corso alla Tate Modern di Londra per la cura di Catherine Wood e Fiontán Moran, ripercorre tutta la produzione di Kelley dagli inizi agli ultimi lavori. Il filo conduttore della scrittura espositiva è nella puntata londinese la sceneggiatura di Under a Sheet/Existance Problems (2) una sua performance mai realizzata che introduce allo stretto imprescindibile legame intercorso tra la sua arte e la sua esistenza. Ed è da questo doppio laccio che prende le mosse una straordinaria immersione nei suoi lavori.
Nativo del Michigan, Mike Kelley (1954–2012) è divenuto nel tempo una delle espressioni più eloquenti dell’anima critica di una certa parte dell’arte della West Coast. Kelley si forma negli anni ‘70 al California Institute of the Arts (CalArts) noto per l’approccio concettualista teso principalmente a favorire la teoria rispetto alla produzione di oggetti. Fondamentale e concomitante sarà per lui in quel periodo l’incontro con la scena artistica del femminismo degli anni ’70 particolarmente attiva a Los Angeles. Tra questi due poli proprio a Los Angeles sceglierà di vivere e poi anche di morire.
Nell’impossibilità dunque di separare l’arte di Mike Kelley dalla sua esistenza, da questa prospettiva occorre guardare alla sua arte non solo e non tanto per l’attrito e le ripercussioni che le diverse esperienze provocheranno in lui, quanto soprattutto perché la sua arte, agli inizi soprattutto performativa, si collocherà sempre in quell’attimo esistenziale del presente ineludibile e determinante.
Quando intorno al 1976 Kelley si affaccia decisamente al mondo dell’arte le ricerche e le esperienze che in termini ineludibili attraggono la sua attenzione sono quelle della Body Art e, come già si è detto, delle pratiche femministe. Tre anni prima dell’esordio a Los Angeles aveva già cominciato a sperimentare in direzioni affini: ne fa fede una performance del 1973 quando ancora a Detroit presenta insieme a Jim Shaw The Futurist Ballet, un remake delle pièces dei Balli plastici di Fortunato Depero. Nel suo stile autocritico e autoironico Kelley ricordò come nel corso di questa performance tenutasi all’Auditorium della Michigan University la maggior parte del pubblico si alzò subito e i pochi rimasti lasciarono comunque la sala prima della conclusione. La negativa accoglienza di questa sortita non ci impedisce di riconoscervi la sua prima performance (3) e dunque di anticipare la sua attività performativa ad anni precedenti la stessa iscrizione alla CalArts di LA.
Di pari passo all’interesse per il remake performativo e alla crescente attenzione per le mitologie, negli anni della formazione si fa strada in lui una particolare fascinazione per le idee dell’incarnazione, della spiritualità, delle credenze. Idee che in qualche modo erano nell’aria e che troveranno nella sua sensibilità un fertile terreno di accoglienza. Vi intravide fin da subito un legame con gli interessi sorti e coltivati nell’adolescenza – i sogni, i desideri, lo spossamento – ed è proprio a questa fase che andrà costantemente a riferirsi eleggendola a sua peculiare materia identitaria (4). L’incontrollabilità, l’emergenzialità, l’inaccettabilità, la fragilità e la fascinazione per la trascendenza sono alcuni degli aspetti scoperti nei suoi anni adolescenziali e che lo accompagneranno costantemente. Ne spiegano il ricorso sistematico quasi si trattasse di una fase della vita che di tutto questo offre a ciascuno una condensazione speciale e della quale lui per primo proverà a serbare la memoria.
Il tema della memoria e della non memoria, i fantasmi e i traumi del passato con cui convive si affacciano di continuo nella sua variegata produzione generando plurime espressioni e conformazioni. Consapevole del suo contesto di appartenenza scrisse: “I was part of TV generation. I was mediated…I was ‘pop’. I didn’t feel connected in any way to my family, to my country, or to reality for that matter: the world seemed to me a media façade, and all history a fiction – a pack of lies”. Pienamente cosciente delle peculiarità del suo tempo dunque che avverte false, estranee e disfunzionali.
A partire dal 1995 crea Educational Complex, un’articolata serie di lavori in cui esplora il ruolo svolto dalle istituzioni nel plasmare l’identità e il comportamento di ciascuno. Snodo centrale della sua riflessione che lo conduce inizialmente a decidere di realizzare un grande modello scultoreo di ogni luogo in cui aveva studiato.  A rispecchiare la sua propria esperienza, partendo dall’osservazione di come la mappatura di un territorio possa favorire la connessione con la memoria di ciascuno, realizza Sublevel (1998): un modellino dell’edificio di CalArts. In gioco è la memoria e l’amnesia e le porzioni di spazio che Kelley non riesce a riportare alla memoria vengono demarcate con una resina cristalliforme color rosa. Trattandosi della rappresentazione di un ‘sotto livello’ dell’edificio si configurano simbolicamente come un antidoto ‘sovversivo’ alle attività ufficiali dell’istituzione artistica. A chi gli chiedeva perché avesse utilizzato il cristallo rosa, rispondeva: “Because, everyone knows, regardless and meaningless, exterior coloration, it’s all pink inside”. L’interesse per i fenomeni mnesici è il perno sul quale avrà modo di tornare adottando numerosi e diversificati punti di vista.
Sempre a proposito di memoria singola e collettiva e della relazione con l’architettura in Kandor Series (1999 – 2011) sposta la sua indagine all’immaginario fumettistico del supereroe Superman. Lo fa in particolare nelle rappresentazioni della città di Kandor, la leggendaria capitale di Krypton il pianeta distrutto da un cataclisma da cui proviene Superman. Stante quanto ci racconta l’autore del fumetto, Kandor in qualche modo sopravviverà ma in versione ridotta, miniaturizzata sotto una campana di vetro. In questo focus sulla città del supereroe l’interesse di Kelley è principalmente indirizzato all’immaginario dell’autore del fumetto che nel corso degli anni aveva fornito diverse descrizioni della città di Kandor rappresentativa ciascuna di un passato non più recuperabile e di cui Kelley realizza un rifacimento delle sue varie versioni. Ma l’interesse non è per la storia del fumetto in sé, né Kelley si dichiarò mai un fan del supereroe, mostrandosi piuttosto semplicemente interessato al peso del passato che grava su ciascuno, in maniera esemplare su Superman costretto a vegliare per sempre sulla sua città natale. In più non va trascurato il fatto che la città sottovetro allude all’impossibilità, all’alienazione ed in questo può essere facilmente vista come un’efficace metafora dei limiti congiunturali dai quali Kelley si sente schiacciato. “With Kandors, Kelley continued with his quasi anthropological exploration of America’s unconscious  neuroses: the theory of repressed traumatic memory and the vulnerability of myths, through the entangling of fiction and reality”(5).
Come per la serie su Kandor, alimentano di continuo il suo immaginario frammenti di memorie proprie e altrui, ciò accade esemplarmente anche nel suo primo lavoro video The Banana Man del 1983 che segna peraltro una scelta molto specifica non essendo una ripresa documentaristica di una performance ma la messinscena di un testo da lui scritto due anni prima e appositamente progettato per il video. Il lavoro interroga le relazioni tra video e memoria ed è basato su un’esperienza di quando lui bambino aveva udito a scuola altri bambini parlare del personaggio “The Banana Man” apparso in Captain Kangaroo, una serie televisiva per bambini andata in onda tra il 1955 e il 1984. Kelley che non aveva mai visto quella serie prova a immaginare questo personaggio interpolando al proprio immaginario caratteri che frammentariamente aveva dedotto dai racconti degli altri bambini.
Su questa falsariga e su questo modo di procedere costruirà molti ulteriori progetti come The Monitor and the Merrimac (1979); Confusion: A Play in Seven Sets, Each Set More Spectacular and Elaborate Than the Last (1982/3); The Sublime (1984) che, secondo Wood, rappresenterebbero metaforicamente un modo di attraversare il mondo convenzionale delle mostre d’arte come una specie di cerimonia che si appella di volta in volta a diversi sistemi filosofici e teorici e in cui è l’artista a agire interpellandoli quasi come fosse uno sciamano (6). Un aspetto, quest’ultimo, che connota fortemente il tipo di impronta registica con il quale si muove. In un’intervista pubblicata nel 1984 su High performance è lui stesso a descrivere queste sue performance come se agisse in uno stato di trance o fosse stato praticato un esorcismo sul suo corpo (7). Un ruolo aggiuntivo nella loro costruzione è giocato dalla forte influenza esercitata su di lui dall’educazione cattolica che gli era stata impartita e che evoca sistematicamente con il ricorso a rituali contrassegnati dall’inquietudine derivante dalla presenza/assenza del corpo sacrificale. In realtà le componenti sono plurali e fondamentalmente le sue performance si muovono tra rituali di chiesa e rituali di star del rock come Iggy Pop, anche se non manca, forte e irrinunciabile, il richiamo a artisti della performance art come Joseph Beuys o Joan Jones e forse soprattutto, al francese Guy de Cointet stanziatosi a Los Angeles e considerato l’iniziatore di un impiego semantico surreale di “objets props” nella narrazione artistica.
Ci sono poi le pratiche delle performances delle attiviste femministe a cui già si accennava e che spontaneamente confluiranno nelle sue esperienze trattandosi in particolare di manifeste contrapposizioni alla cultura maschilista che è, a ben guardare, la ragione prima che muove il suo dissenso. Come è stato detto la performance, non solo per lui, consentendo travasi fluidi e significativi all’insegna di condivise istanze, è stata il grande livellatore di genere Di questo aspetto Kelley si fa eccezionale interprete.
Da questo ulteriore punto di vista, nel suo anarchico e irriverente mondo giocano un ruolo cruciale gli animali di peluche o fatti a mano, all’uncinetto o di pezza, proprio quelli che configurano l’aspetto più noto del suo lavoro (8). Come suggerì lui stesso, la presenza di oggetti realizzati artigianalmente deve ritenersi lo specchio di una precisa presa di posizione e contrapposizione alla cultura maschilista che di fatto li ha sempre esclusi, marginalizzati, confinandoli in una categoria minoritaria. In ogni caso, nella loro componente ludica questi oggetti artigianali non sono scelti perché portatori di una falsa retorica sull’innocenza; mirano piuttosto a sottolineare il potenziale di inquietudine che deriva dalla loro messinscena. I giocattoli sono oggetti transizionali e nei suoi lavori nel loro disporsi inquieto e ingiustificato alludono non tanto e esclusivamente al sentimento di perdita quanto a rappresentare un fittizio surrogato dei sentimenti stessi.
Ed è dal 1990 che realizza una serie di lavori a pavimento composti da giocattoli e coperte realizzati artigianalmente intitolandoli Arena, Afghans, Dialogue. Come fossero dei set teatrali per i suoi animali di pezza e peluche chiamati a imbastire gli uni in rapporto agli altri una drammaturgia.  Allusivamente rinviano al mondo dell’infanzia ma va ribadito come qui non ci sia posto per nessun afflato nostalgico sentimentale e quindi finiscono per veicolare principalmente irrequietezza e incomprensione, quasi si trattasse di residui testimoniali di un Paradise Lost, compromesso anche dal loro dissennato accumulo. A tal proposito, nel suo più famoso toy collage More Love Hours Than Can Ever Be Repaid and The Wages of Sin (1987) assembla giocattoli di pezza con ricami e manufatti all’uncinetto costipandoli in un affastellato rettangolo dove ha compresso a forza la loro coabitazione alludendo all’eccessiva compulsiva presenza di oggetti nell’odierno consumo.
Ancora l’artigianato densamente rivissuto appare in Memory Ware Flat#17 (2001) dove si appropria di quella tradizione folkloristica che si è mostrata in grado di trasformare alcuni banali articoli domestici come bottoni e perline in componenti di decorazione per allestire cerimonie funerarie. Si ispirò come disse proprio agli apparati decorativi allestiti da alcune comunità afro americane degli inizi del secolo scorso per commemorare i propri defunti. Un’estetica del riuso che a ben guardare offre uno spunto di suggestione ulteriore ponendo la ricerca di Kelley per certi versi anticipatrice e in ogni caso consonante con gli assemblages di oggetti riciclati in economie simmetricamente agli antipodi dell’eccesso consumistico da lui abborrito.
Su un altro piano, è difficile escludere che siano state proprio le pratiche femministe a suggerire a Kelley l’utilizzo di oggetti realizzati artigianalmente. Lo lascia intendere Suzanne Lacy osservando che se a lui va senz’altro riconosciuto il merito di aver saputo sublimare tali pratiche, oggi tributategli come sue invenzioni formali, non va misconosciuto il fatto che all’origine del fenomeno ci siano state verosimilmente artiste donne (9).
In tutto questo, come entrano in gioco lo spirito e i fantasmi?  A provare a chiudere il cerchio è ancora il rinvio alla performance mai realizzata che si è detto far da filo conduttore della mostra e che è un testo, un foglio dattiloscritto in cui Kelley constata che un fantasma è qualcuno che scompare, aggiungendo poi “sono un fantasma e sono scomparso cosa prova agli altri la mia esistenza? Se è la memoria che conservano di me, sono un fantasma che aspira a essere uno spirito”. In questo sottile passaggio, la chiave di volta della suggestione iniziale.
E quanto, su un piano parallelo, fosse per lui seducente la possibilità stessa di farsi medium spiritistico lo attestano alcuni autoritratti fotografici in cui trasmette l’immagine di sé come fosse un ectoplasma. In The Poltergeist del 1979 la sequenza di sette scatti in cui si autoritrae stigmatizza la fascinazione per il trascendente, l’extra sensoriale, lo spiritismo. Il tema è di mettersi in comunicazione mediatica con gli spiriti. Così a fornirne un’immagine icastica fa in modo che lunghe strisce di batuffoli di cotone fuoriescano dalle sue narici come ectoplasmi generati dal suo stesso corpo. L’iconografia si ispira a quelle immagini di sedute spiritiche in voga nel XIX secolo e autoritraendosi in questo modo pone sé, l’artista, a medium della comunicazione con gli spiriti. In una serie analoga cui lavora dal 1978 al 2009 il titolo scelto è direttamente Ectoplasm. In questo caso gli scatti sono quindici e per la maggior parte in bianco nero. Qui come nell’altra sequenza è evidente una predilezione per l’informe, per le forme scultoree indeterminate, per le materie e le immagini sfuggenti e viscose, ma anche per quelle sporche e per gli ectoplasmi appunto. Qualcosa di cui si serve per sottolineare il caos, l’indistinto, l’inconscio scivolando anche verso la metempsicosi della quale subì fortemente il fascino. Non foss’altro per la strenua avversione agli scientismi, ivi compresa la psicanalisi, che considerava ulteriori lacci e gabbie di fittizia comprensione delle ragioni dell’esistenza.
Infine, il richiamo alla memoria traumatica e all’educazione disfunzionale, basso continuo della sua lunga riflessione, troveranno il loro apice nella mostra Day is Done ospitata dalla Gagosian Gallery a New York nel 2005 e parzialmente riproposta alla Tate.  Un’installazione sintonizzata con quel suo fare parata che lo spingerà a mettere in scena come in una roteante macchina da guerra il suo arsenale di distorte e disfunzionali mitologie. Suoni, luci, immagini kitsch, sculture meccanizzate si danno come l’apoteosi del suo transito nell’orrorifico universo delle mitologie dell’America. Un girone infernale in cui i demoni di Kelley assomigliano molto a quelli che ci attanagliano nel perverso quotidiano dominato dal controllo ideologico delle immagini e delle merci. Nelle distorsioni delle sincopate narrazioni, uno spietato corpo a corpo con gli abissi della coscienza, i suoi fantasmi, gli spiriti che vi sopravvivono.

Gennaio 2025

1) Dopo essere stata ospitata dalla Bourse de Commerce di Parigi (12 ottobre 2023 – 19 febbraio 2024) la mostra ha fatto tappa al K21 Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf (23 marzo – 8 settembre 2024) per poi essere allestita alla Tate Modern di Londra (2 ottobre 2024 – 9 marzo 2025) e concluderà il suo itinerario al Moderna Museet di Stoccolma (12 aprile – 15 settembre 2025).
2) Si tratta di un dattiloscritto databile al 1970 conservato presso l’archivio della Mike Kelley Foundation for the Arts, Los Angeles.
3) Catherine Wood,” Mike Kelley: ‘Existance Problems’”, in, Mike Kelley. Ghost and Spirit, catalogo della mostra, Tate Modern, Tate ed, p. 17.
4) Ibidem.
5) Jean-Marie Gallais, “Goodbye Superman”, in, Mike Kelley. Ghost and Spirit, catalogo della mostra, Tate Modern, Tate ed, p.273
6) Ibidem, p.23.
7) Mike Kelley, intervista di Kathi Norklun, “Performance in the 80s: The Tv Generation”, in High Performance, n.26, 1984, p.36.
8) Cfr: Jack Halberstam, “Animal Stuff”, in Mike Kelley. Ghost and Spirit, cit, p.130.
9) Suzanne Lacy e Glenn Phillips, “Kelley and Feminism: a conversation” in, Mike Kelley. Ghost and Spirit, catalogo della mostra, Tate Modern, Tate ed, p.128.