Tracey Emin a Palazzo Strozzi
Lucilla Meloni
Il titolo della prima mostra dell’artista in uno spazio istituzionale italiano, già rappresentante della Gran Bretagna nella 52.a Biennale di Venezia nel 2011, introduce la narrazione: un racconto autobiografico per immagini e parole.
L’opera di Tracey Emin è incentrata sui temi del corpo e del suo divenire, sul sesso, sull’amore, sulla solitudine, sul desiderio, sul dolore e sulla malattia, con costanti riferimenti al pensiero femminista.
Alla leggerezza del titolo al neon Sex and Solitude che campeggia sulla facciata del Palazzo fa da contrappunto la grande scultura bronzea collocata nel cortile rinascimentale I Followed You To The End (2024), che si scopre essere una figura umana e non un paesaggio solo percorrendola, girandole intorno.
Curata da Arturo Galansino, le dieci sale in cui si articola la mostra: Poems, Exorcism, Coming Down From Love, Hurt Heart, Those Who Suffer Love, A Different Time, I Do Not Expect, Take My Soul, All I Want Is You, The End Of The Day si sviluppano come pagine di un diario e si ha la sensazione di entrare in uno spazio estremamente intimo, dove è annullata ogni distanza tra chi guarda e ciò che è guardato, dove ciò che si vede è una messa a nudo dell’artista.
Un’arte profondamente e dichiaratamente autobiografica, dove i sentimenti vengono tradotti in forma attraverso l’utilizzo di diverse tecniche: dalla pittura al monotipo, dalla scultura alla fotografia, dal calicò ricamato alle lettere applicate su tessuto o scandite dalla luce al neon.
Si rintraccia anche un rapporto dialettico con la storia dell’arte, da Munch a Schiele, da Goya a Courbet, a Duchamp, quanto con l’iconografia religiosa, quale la Crocifissione.
Al centro del Cristianesimo, questa è simbolo universale del dolore (si pensi al racconto di Chaim Potok Il mio nome è Asher Lev, dove il protagonista, di religione ebraica, sente la necessità di dipingere la Crocifissione come simbolo universale del dolore).
The Crucifixion, acrilico su tela, è un’immagine scabra e drammatica, dove il segno veloce cha la compone si staglia e si frappone a un fondo gocciolante.
Come afferma l’artista durante l’intervista con Galansino pubblicata in catalogo, l’iconografia cristiana è una metafora universale del dolore (come lo era per il protagonista del libro di Potok):
“Per me il Cristianesimo non c’entra, si tratta di storie e simboli che esistevano già molto tempo prima. I concetti di sacrificio e di sofferenza ci sono familiari perché tutti nella vita dobbiamo fare scelte e prendere decisioni. Molte di queste immagini sono il riconoscimento di temi universali come la malattia, la morte, l’amore” (1).
Altrove, come nell’ altorilievo in bronzo patinato Crucifixion, il crocifisso, acefalo e mutilato, è una figura femminile.
Il sesso, sia esso rappresentato come atto di coppia o al contrario, come azione solitaria, è centrale nella poetica dell’artista.
La maggior parte della pittura ci ha consegnato nudi femminili spesso idealizzati e immobili. Al contrario Emin nei suoi grandi quadri propone una visione diversa del corpo della donna: enorme sulla superficie, questo appare desiderante e volitivo, come nel calicò I don’t need to see you I can feel you! dove la tecnica del ricamo, così culturalmente femminile, va a comporre un’immagine potentemente attiva.
Tracey Emin sceglie anche di rappresentare l’atto della masturbazione femminile nel film d’animazione Those Who Suffer Love, con una figura acefala e a gambe divaricate in movimento, con chiari riferimenti al Courbet de L’Origine du monde e al Duchamp di Étant donnés, di cui anima le forme e stravolge il senso.
La stessa frase, scritta con il neon, affianca la proiezione.
A quest’opera di Duchamp può essere anche collegata la performance Exorcism of the last painting I ever made eseguita nel 1996 in una galleria di Stoccolma, e in mostra ricostruita. Si trattava di un luogo in cui Emin rimase per tre settimane e mezzo – tempo di passaggio tra un ciclo mestruale e l’altro. Nuda, nelle vesti sdoppiate del pittore e della sua modella, quello spazio divenne la sua casa-studio e là ricominciò a dipingere dopo la pausa seguita all’evento traumatico di una interruzione di gravidanza. I suoi dipinti si ispiravano a pittori che avevano disegnato donne, quali Schiele, Klein, Munch, Picasso. Chiusa in una scatola, il pubblico poteva osservarla dall’esterno, attraverso lenti grandangolari mentre si riappropriava, lei pittrice, del corpo femminile.
Ai grandi formati fanno da contraltare piccoli lavori, testimonianze di un tempo sospeso e di uno spazio solitario, come quello della pandemia nella sala titolata A Different Time o della malattia, nella successiva The End Of The Day.
Le sei piccole incisioni qui presenti rimandano nella loro cromia e per la drammaticità al Goya della Quinta del Sordo: realizzate nel 2022 dopo la malattia, l’intervento chirurgico e la guarigione, il corpo è il loro protagonista. Un corpo fragile che prende quasi tutto lo spazio della superficie, sofferente e colto in diverse posizioni ma che può avere la Luna come aureola, come recita il titolo My Halo Was The Moon.
Il piccolo bronzo del 2016 This is exactily how I feel right now, collocato tra i monotipi, come le altre sculture in mostra, testimonia il gesto che ha formato l’argilla, che in quanto gesto-segno è rimasto visibile, a restituire quella frazione di energia che dalla mano dell’artista è passata alla materia. Quella stessa forte gestualità che rende espressioniste le tante figure dipinte.
La scrittura a sua volta riveste nella produzione di Emin un ruolo importante, a partire dal titolo: a volte è una dichiarazione d’amore e un invito a compiere azioni, altrove fissa un pensiero intimo, come in I do not expect, o Automatic Orgasm: ambedue grandi coperte con appliqué (tecnica tradizionale del ricamo e del patchwork).
Molte le frasi composte dalla luce al neon, tra cui il grande neon Love Poem for C.F. che accoglie il visitatore nella prima sala.
Come racconta ancora durante l’intervista su citata, anche questo materiale ha radici autobiografiche: “Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate (...). Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro. (...) Il vero neon contiene gas come argon e neon appunto, che hanno un effetto positivo sull’umore perché irradiano energia (...). Il neon è luce ed energia pulsante, è una cosa viva, e questo mi fa sentire bene” (2).
Luglio 2025
1)Arturo Galansino in conversazione con Tracey Emin, in Arturo Galansino (a cura di), Tracey Emin Sex and Solitude, Firenze, Palazzo Strozzi, 16 marzo-20 luglio 2025, cat. della mostra, Marsilio, Venezia 2025, p. 31.
2)ibidem, p. 36.