La mostra True Colors. Tessuti: Movimento, Colori e Identità al MAXXI dell’Aquila
Marzia Failla
“Ce que j’aime plus dans ma vie c’est le voyage”. Queste parole, che provengono dal lavoro Etna Project (2001) dell’artista Claudia Losi, scritte e ricamate da Loubna Harmaz, hanno inquadrato la dimensione del viaggio come forma di emancipazione femminile e libertà.
La pratica del ricamo collettivo in Etna Project, generatrice di connessioni e relazioni tra donne appartenenti a culture diverse, ha dato vita all’attivazione di una comunità temporanea e ne ha lasciato emergere la vocazione sociale attraverso l’arte tessile, espressione in delega ma partecipata.
Questo progetto corale, che nel suo complesso ha visto coinvolte sedici donne peruviane e marocchine, ha preso avvio dallo studio dell’eruzione dell’Etna nel 1982, che è stata ricamata da ciascuna partecipante su una sezione di tessuto più ampia. Inoltre, ulteriori tessuti sono stati spediti rispettivamente a Lima e a Casablanca alle donne partecipanti per essere ricamati con messaggi personali che le rappresentassero, a partire da oggetti, disegni, fotografie, memorie, suggestioni.
“Ce que j’aime plus dans ma vie c’est le voyage”, le parole scelte da Loubna Harmaz, ci hanno raccontato, in un “ritratto-bandiera” della donna, del viaggio a partire dal tessuto ricamato.
Intrecciare i fili, così come intrecciare le culture, traslazione della crescente precarietà della società contemporanea che oscilla tra complessità, contraddizioni, sollecitazioni continue offerte dalla globalizzazione e un futuro che si affaccia stridente, è il tema che diviene basso continuo nella mostra True Colors. Tessuti: Movimento, Colori e Identità al MAXXI dell’Aquila.
Questa esposizione, a cura di Monia Trombetta in collaborazione con Chiara Bertini, Fanny Borel, Donatella Saroli e Anne Palopoli, dal 7 giugno al 16 novembre 2025, che ha incluso l’emblematico Etna Project di Claudia Losi, ha proposto una stimolante analisi sul tessuto come linguaggio espressivo tramite il quale narrare il viaggio, l’appartenenza, la migrazione, la riparazione e la relazione, con opere realizzate dal Duemila ad oggi.
Nella cornice barocca di Palazzo Ardinghelli, progettato tra il 1732 e il 1743 dall’architetto Francesco Fontana e profondamente lesionato dal terremoto che ha colpito la città nel 2009, ma oggi interamente restaurato, ventuno artisti si sono espressi centralizzando il tessuto proprio come linguaggio artistico e identitario.
La città abruzzese dell’Aquila, che fin dal Medioevo ha portato avanti una durevole tradizione locale legata alla lavorazione in particolare della lana, ha accolto l’esposizione sottolineando la propria continuità nel presente con l’arte tessile, persistenza espressiva non solo artistica ma anche relazionale e memoriale per la città.
La prima opera che si incontra, accedendo nel cortile interno di Palazzo Ardinghelli, è quella dell’artista finlandese Kaarina Kaikkonen, che ha presentato l’installazione site-specific Towards Tomorrow (2012), realizzata con numerosi e variopinti abiti per bambini, donati dai cittadini aquilani. Alzando gli occhi ci si imbatte in un arcobaleno di ghirlande che forniscono allo spettatore una prospettiva con cui guardare “al domani”. Proseguendo e percorrendo lo scalone monumentale di ingresso, con affreschi risalenti al 1749 del pittore veneziano Vincenzo Damini (1), ci si imbatte nell’enigmatica scultura di Jacopo Belloni Girigogolo (2024), di cui più avanti si rintraccerà anche un'altra opera intitolata L’Orso Stralunato (2024). Queste due figure antropomorfe, in costumi ambigui e difficilmente categorizzabili, sono state ideate dall’artista a seguito di una ricerca condotta presso il Museo delle Civiltà di Roma sul costume in quanto simbolo di espressione culturale, ma con la mira ultima di forgiare due sculture dall’identità incerta e di problematica interpretazione per lo spettatore.
Nella prima grande sala del piano nobile si incontrano i Bottari (2004) di Kimsooja, il Turbante (2014) di Isabella Ducrot e Untitled (Checkers) (2024) di Yto Barrada.
I Bottari dell’artista coreana Kimsooja vogliono stimolare la riflessione sulla coincidenza tra l'essere nomadi e l’essere contemporanei: i bottari, fagotti di stoffa di tradizione coreana con cui si trasportavano gli oggetti personali essenziali, ancora nel corso di tutto il Novecento, da un luogo ad un altro, sono per Kimsooja simbolo della migrazione e dell’esodo contemporaneo. Sono stati da lei presentati per la prima volta nel 1992 al MOMA PS1 di New York e da allora sono divenuti una fedele costante site-specific della sua produzione.
Kimsooja, che ha appreso l’arte del cucire dalla madre e che dalla dimensione errante e nomadica trae linfa di ispirazione per i suoi lavori, assimila l’atto del cucire simultaneamente all’unione e alla disgregazione che contraddistingue la solitudine del cittadino globale (2). E anche il suo atto artistico, così come i filamenti colorati delle stoffe e delle fibre naturali che impiega, può essere un’operazione di unione o, al contrario, di negazione della stessa. Il Turbante dell’artista napoletana Isabella Ducrot attornia parzialmente i bottari di Kimsooja, con i suoi diciotto metri di tessuto bianco di cotone proveniente da Delhi, incorniciato a sua volta su tutti e quattro i lati da una fine carta a motivo quadrettato. Ducrot ha prediletto l'incontro con la purezza del materiale, la sua dimensione tattile, poiché questo le ha consentito un parallelo avvicinamento alla tradizione: il lavoro con la carta e la fibra naturale - che reperisce in Sud America, Cina, Giappone, Tibet, Pakistan, Tunisia e Marocco - in Turbante così come in altre opere, avvia la sperimentazione della “possibilità del tocco” (3) ogni volta in forma inedita.
Sulla parete opposta rispetto alla realizzazione di Isabella Ducrot, l’artista franco-marocchina Yto Barrada ha presentato il lavoro Untitled (Checkers): l’opera fa parte della serie di lavori creati nell’ambito di The Mothership, progetto eco-femminista di residenza artistica e ricerca nato negli anni Duemila a poca distanza da Tangeri, grazie all’iniziativa dell’artista. Accolto in un giardino e con l’intento di mostrare/preservare la grande variabilità delle specie botaniche del Marocco settentrionale, creando “un luogo in cui dare vita a pratiche eco-femministe panafricane” (4), The Mothership si ispira alle tinte naturali, alla loro lavorazione e alla connessione che ne scaturisce con la coltivazione, la produzione e la ricerca collettiva.
Nella seconda sala si incontrano le opere di Olga De Amaral Brumas (Brumas Q, Brumas R e Brumas T, tutti lavori del 2014): artista colombiana della Fiber Art, Olga De Amaral ha utilizzato fili intrecciati tra loro in senso verticale e spiraliforme così da creare un’intelaiatura spaziale tridimensionale. L’artista ha iniziato ad utilizzare la composizione Brumas fin dal 2013 e con essa ha voluto richiamare i colori della natura colombiana, in particolare riferendosi a Bogotà, città in cui è nata. Ha realizzato, già a partire dagli anni Settanta, i suoi woven walls confrontandosi con la verticalità della parete tessuta, ma con Brumas sembra compiere un passaggio ulteriore, poiché ha scardinato le proprietà bidimensionali del tessuto e ne ha esplorato la tridimensionalità. In questo senso, abbracciando completamente lo spazio vuoto, nella sala successiva, detta la sala della Voliera, è stato allestito il lavoro di Paola Pivi intitolato Share, But It’s Not Fair (2012). Quest’opera è stata realizzata con abiti di monaci tibetani che sono andati a comporre una concatenata intelaiatura colorata di circa trecento cuscini. Giocando sul colore, sulle luci e sulle ombre ma anche sull’intreccio che intende metaforicamente rimandare allo scambio tra sfera personale e pubblica, si è venuta a creare una volta interamente colorata.
Il tema della sostenibilità e della distruzione culturale è divenuto invece centrale nelle opere in mostra di Dana Awartani, artista palestinese-saudita che per il MAXXI dell’Aquila ha creato l’installazione Let Me Mend Your Broken Bones (2025) servendosi della rammendatura come forma di cura. Questa serie è in origine nata per valorizzare la memoria del patrimonio culturale architettonico UNESCO andato distrutto in territorio arabo, in particolare in Palestina, a causa dei persistenti conflitti e degli atti di terrorismo (5) degli ultimi anni. Dal 7 ottobre 2023, sono stati danneggiati rilevanti edifici storici, tra cui moschee, chiese e aree archeologiche (6): tra questi la Grande Moschea Al-Omari a Gaza (edificio trasformato in moschea nel VII secolo, su un precedente sito bizantino e andato distrutto il 7 dicembre 2023, a seguito di un attacco aereo israeliano); la Chiesa di San Porfirio (costruita nel 425 d.C., poi convertita in moschea e di nuovo consacrata nel 1150, che ospitava la tomba di Porfirio di Gaza (347-420), eremita e vescovo di Gaza nel V secolo); il Porto di Anthedon (situato in una zona archeologica nella parte settentrionale di Gaza, venne fondato in epoca micenea, tra il 1600-1100 a.C, e rimase in funzione fino al VII secolo d.C.) e l’Hammam Al Samra (storico bagno turco della città che riuniva, fin dalla sua costruzione, la comunità dei Samaritani, crollato anche questo nel dicembre 2023).
L’artista, di fronte a queste operazioni di distruzione storica, ha rinnovato la riparazione della ferita culturale attraverso l’elegante pratica del ricamo: sulla seta utilizzata ha creato dei fori che poi ha rammendato.
Ogni strappo ha localizzato metaforicamente un sito architettonico andato distrutto e a cui l’artista ha restituito poeticamente uno spazio di consacrazione ed espressione: l’atto del ricucire come atto di guarigione collettiva, la cicatrice come testimonianza della memoria da non deturpare (7) sono per Dana Awartani interrogativi su come la privazione, la repressione e la perdita culturale intervengano sullo sviluppo di una nazione e sulla consapevolezza memoriale che essa ha della propria storia.
Può la tessitura proporsi come atto rituale di rinascita collettiva?
Lo strappo sulla seta e lo strappo culturale traslano la distruzione da un piano all’altro e per l’opera al MAXXI Awartani è partita dallo studio in archivio presso Palazzo Ardinghelli, mappando un arco storico-temporale riferito alla città dell’Aquila, precedente e successivo al sisma del 2009, e con il rammendo su seta è andata a riprodurre il perimetro dei principali edifici crollati o danneggiati nel capoluogo abruzzese a seguito del terremoto.
Anche in questa versione del suo lavoro ha utilizzato la seta, che proveniva dal Kerala, regione nella costa sud-occidentale indiana e ancora una volta, seppur delineandone i contorni in una declinazione prettamente riferita alla memoria storica aquilana, dalle rovine ha lasciato emergere la cicatrice culturale e la sua sublimazione.
Segue al lavoro di Awartani quello dissonante del collettivo artistico Gelatin intitolato Vorm Fellows Attitude (2018). Questo collettivo, composto da Wolfgang Gantner, Ali Janka, Florian Reither e Tobias Urban, ha realizzato un’opera interattiva tramite la quale ogni visitatore ha potuto indossare i costumi esposti e viaggiare con la fantasia alla ricerca di una diversa identità. Il nome del gruppo artistico che, a seconda dei contesti, varia da Gelatin a Gelitin, contribuisce a negare un’esclusiva identità artistica e, in linea con l’opera realizzata, suggerisce la struttura cangiante con cui questo “organismo artistico” (8) concepisce i progetti che realizza.
Negli ambienti successivi si incontrano le opere di Abdoulaye Konaté con Ocean, Mother and Life (2015), di Franz West con Diwans (2000) e Uncle Chairs (2003) e di Hassan Musa, con La Multiplication Des Éclairs Au Large De Lampedusa (2016).
Abdoulaye Konaté, artista maliano che fin dagli anni Novanta ha iniziato a sperimentare con il tessuto, ha realizzato per l’esposizione aquilana Ocean, Mother and Life, un grande arazzo con cui ha reinterpretato il mare e le sue creature, ricamandoli su un grande sfondo azzurro sinonimo di accoglienza, asilo e molteplicità. E al mare, in particolare al mar Mediterraneo, si è riferito anche il lavoro dell’artista originario del Sudan Hassan Musa: La Multiplication Des Éclairs Au Large De Lampedusa ha ripreso l’episodio biblico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, declinato però in una versione sicuramente curiosa; l’éclairs - noti dolci francesi, simboli della sovrabbondanza economica – hanno voluto far riflettere sulla disparità alimentare che separa il nord dal sud del mondo. Disparità che si estende, se si pensa all’isola di Lampedusa e ai suoi profughi, non solo sul piano alimentare ma anche umanitario più in generale.
Queste infatti le parole dell’artista sulla questione climatica e migratoria: “Ci vuole un miracolo per attraversare il deserto e raggiungere la costa meridionale del Mediterraneo, ma quando si è lì ci vuole un altro miracolo per attraversare il mare e raggiungere Lampedusa.
Una volta arrivati a Lampedusa, per sopravvivere alla burocrazia europea servono tutti i miracoli della Bibbia. Le autorità europee classificano i rifugiati in due categorie: i richiedenti asilo politico, considerati “buoni rifugiati”, e i rifugiati economici, sistematicamente criminalizzati e “respinti” sulla costa meridionale del Mediterraneo. Presto l'Europa dovrà fare i conti con una terza categoria: i rifugiati climatici, impossibili da “respingere” su qualsiasi costa! Il mondo è di tutti.” (9)
Tra l’opera di Hassan Musa e quella di Abdoulaye Konaté, le sculture dell’artista austriaco Franz West Diwans e Uncle Chairs - evoluzione dei suoi Adaptives, ovvero le sue “sculture che si adattano” (10), realizzate a partire dagli anni Settanta - si sono poste come interferenze alle altre due opere parietali e al percorso espositivo in generale.
Seguono i lavori di Sanford Biggers - artista americano che con le opere Urge Overkill e The Always Now (2024) ha lavorato declinando l’idea del quilt americano e di “patchworking concettuale” - e l’installazione di Marinella Senatore, dal titolo Protest Forms: Memory and Celebration (2025). In particolare quest’ultima ha dato vita ad un’azione processuale, a seguito di una open call indirizzata alla collettività del capoluogo abruzzese a cui ha chiesto di partecipare realizzando frasi biografiche o di ispirazione, derivate da altri autori o inventate, in lingue differenti e dialetti di propria scelta. Senatore ha concretizzato un atto comunitario condiviso, coeso dall’utilizzo della parola, elemento di unione ed emancipazione collettiva.
I banner (11) costituiscono infatti una modalità che compare spesso nei progetti partecipativi dell’artista; realizzati in collaborazione con gli artigiani locali, consentono di eleggere l’elemento tessile e di presentare attraverso di esso messaggi di empowerment. Le frasi che ne sono derivate sono state trascritte su dei tessuti e appese al soffitto della sala di Palazzo Ardinghelli: un’installazione partecipativa per celebrare la coabitazione, così come il lavoro dell’artista statunitense Sheila Hicks Constellation Amphibienne (2025), con le sue intricate matasse di fili colorati.
Invece l’installazione Invisible Man (2018) dell’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare, ha ripreso in parte la serie presentata alla Biennale di Venezia 2024 Refugee Astronaut (2015 - in corso) che, similmente, mostrava un manichino-astronauta-migrante (12), abbigliato con un vestito in tessuto africano e pronto a combattere la crisi ecologica globale; ma con Invisible Man Shonibare si è ispirato alla pittura, in particolare al dipinto dedicato al ritratto della famiglia di banchieri e mercanti Quarantotti di Marco Benefial (1756), in cui la figura di Giovan Battista Quarantotti (1733-1820) viene ripresa per essere stravolta in una configurazione contemporanea e straniante.
Nell’ultima sezione compaiono: Claudia Losi e il citato lavoro corale Etna Project (2001), costruito attorno alla pratica del ricamo come opportunità relazionale di scambio e dialogo interculturale; Alex Cecchetti con Come La Luna Si Vede A Volte In Pieno Giorno (2021) che ha realizzato delle gonne da derviscio da lui dipinte, in un’installazione anche sonora con un brano composto dall’artista stesso, in collaborazione con il compositore newyorkese Brian Shank; Adelaide Cioni, artista bolognese che ha realizzato “un’installazione immersiva nella geometria delle forme” con le opere Three Red Ones (2024), Two Blue Ones (2024), Grid For My Friend The Anarchist, Red (2024) e Nine Yellows Ones (2024) e, inoltre, con Five Geometric Songs (2024-2025) il giorno dell’inaugurazione della mostra ha realizzato una performance in cui cinque costumi da lei decorati con trama geometrica in bianco e rosso, su musica di Dom Bouffard, hanno preso vita nella sala di Palazzo Ardinghelli. A chiusura del percorso espositivo: Marion Baruch, artista rumena che iscrive nel tessuto e nelle sue pratiche una qualità relazionale primaria connessa all’evoluzione della natura antropizzata, in particolare con Oranjegekte, Follia Arancione! (2023), Senza Parole (2018), Cleopatra (2018) e Je M’Embarque Dans Le Désir (2017) e Rosemarie Trockel con Senza Titolo (2002), artista tedesca che dall’inizio degli anni Ottanta ha incominciato a produrre tele geometriche, progettate digitalmente per imitare la tessitura, con l’intento di aprire una riflessione sul lavoro tradizionale femminile, sul valore dell’artigianato e sul suo scontrarsi con una nuova divisione del lavoro nell’era digitale.
In conclusione, la mostra True Colors. Tessuti: Movimento, Colori e Identità ha offerto un’interessante prospettiva con cui analizzare il tessuto oltre che come linguaggio artistico, anche come espressione identitaria e relazionale. La scrittura espositiva ha restituito non soltanto uno sguardo eterogeneo sulle più eloquenti espressioni che hanno utilizzato il tessuto, il movimento e il colore, ma anche una prospettiva curatoriale che a partire dalla propria territorialità di riferimento, quella del MAXXI nella città dell’Aquila, ha saputo porsi in dialogo con il proprio patrimonio storico-artistico. Site-specificity e territorio, per una costellazione di espressioni con cui guardare al passato attraverso il presente.
Luglio 2025
1) https://maxxilaquila.art/palazzo-ardinghelli/ (accesso il 30 giugno 2025)
2) Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2008.
3) http://isabelladucrot.it/# (accesso il 10 luglio 2025)
4) https://www.mothershiptangier.org/about (accesso il 7 luglio 2025)
5) https://www.labiennale.org/it/arte/2024/nucleo-contemporaneo/dana-awartani (accesso il 2 luglio 2025)
6) https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/A-Gaza-muore-anche-un-patrimonio-artistico-millenario (accesso il 3 luglio 2025)
7) https://danaawartani.com/artwork/let-me-mend-your-broken-bones-2/ (accesso il 2 luglio 2025)
8)https://www.ilgiornaledellarte.com/Mostre/GelitinGelatin-Facciamo-solo-cose-che-vogliamo (accesso il 2 luglio 2025)
9) https://hassanmusaofficial.com/theme_lampedusa/ (accesso il 4 luglio 2025)
10) https://ilmanifesto.it/franz-west-traballante-e-postverbale (accesso il 7 luglio 2025)
11) https://marinella-senatore.com/project/banners/ (accesso il 4 luglio 2025)
12) https://www.labiennale.org/it/arte/2024/nucleo-contemporaneo/yinka-shonibare (accesso il 4 luglio 2025)