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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La giovane arte alla ricerca di un equilibrio

Domenico Scudero
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A Milano due mostre curate e realizzate da giovani hanno manifestato alcune tendenze su cui si concentra l’attenzione dell’arte di questa nuova generazione del XXI secolo. Entrambe inaugurate fra la fine di maggio e inizio luglio di questo 2025 Balancing Acts e Filter Bubbles appaiono essere una sorta di concentrato di istanze rappresentative di cui si interessano artisti, critici e curatori nelle loro primissime apparizioni pubbliche.
La prima mostra, Balancing Acts, è nata da un’idea dell’artista Zhenru Liang, curata da due giovanissime Camilla Bertoni e Greta Olgiati, presso lo spazio di Stecca 3 a ridosso del Bosco Verticale di Boeri a Milano, con la partecipazione di Marco Antrodicchia, Michele Bolzoni, Sanshan Cheng, Yun Hao, Chengye Liu, Kexin Ma, Weiwei Ma, Matilde Pontiroli, Sveva Salvetti, Arianna Scozzari, Luca Segantini, Bo Shang, Haoyu Wang, Shuman Yao e Bassem Zaki.
L’evento della durata di un solo giorno si presentava come una vera collettiva radicale. I partecipanti erano chiamati a disporre all’interno dello spazio alcuni oggetti scelti individualmente e senza un progetto già identificato. Il fine comune era quello di trovare una forma estemporanea nata dalla sovrapposizione di oggetti comuni, con carte, legni, legacci, materiali inerti. L’oggetto che si è costruito appariva effimero e instabile, una scultura performativa necessariamente caduca ma in cui erano presenti le memorie del fare plastico, ovvero la tradizione del “porre” e del “togliere”, unitamente alle istanze proiettive dell’azione performativa, l’attenzione gestuale dell’agire coordinato collettivamente alla ricerca di un equilibrio. Uno dei tratti caratteristici di questa inusuale azione è stata quella di essere nata da una reale gestione collettiva, nel senso più coerente di elaborazione oggettuale di un insieme frutto del coordinamento di più gesti autoriali. Il senso del collettivo era generato dalla funzione logica della fluidità dell’azione e dall’attenzione riservata dal singolo all’insieme e in cui ogni atto del “porre” o del “togliere” considerava sia la possibilità di una eventuale frattura e anche quella di una alterità del già fatto. Ciascun cambiamento alterava la struttura complessa della plastica in opera e i singoli frammenti venivano studiati al fine di trovare una collocazione che potesse ristabilire quella cadenza necessaria per definirsi forma conclusa, condivisa. Se in alcuni casi questo gioco di rimozioni e sovrapposizioni in visione d’equilibrio instabile poteva far pensare ad operazioni come la celebre The Way Things Go (1987) di Fischli & Weiss, la differenza da questa e altre ricerche maturate nell’ambito delle relazioni fra forme e azioni, consisteva nell’apicale fissazione dell’equilibrio instabile in un insieme fisico, strutturato, lì dove in altre situazioni era il movimento l’oggetto finale. Nel movimento del fare, le azioni dei singoli necessitavano una singolare relazione col collettivo anche se delle precedenti impostazioni non se ne condivideva necessariamente la postura. Qui il senso di una riconsiderazione della fase processuale piuttosto che vertere sulle condizioni esistenziali del singolo procedevano in modalità coordinata nel collettivo in cui le singole alterazioni risultavano inglobate e riassunte in un unico sistema segnico in cui le tracce individuali venivano riassorbite o riposizionate. Una metodica costruita sul processo di strutturazione della forma che non risultava esasperata nel tentativo di identificazione individuale ma in cui le tracce delle scelte risultavano comunque evidenti dalla preferenza per materiali e oggetti del costruito. Il risultato di questa operazione era quindi molteplice. Si occupava uno spazio allestendo un oggetto che manifestava il suo essere scultoreo di radice architettonica progettuale ma allo stesso tempo questa sorgente era già predisposta alla sua sparizione. L’esserci dell’oggetto assumeva quindi anche programmaticamente l’esistenza sintomatica di ciò che è nella sua essenza ogni oggetto, la sua transitorietà, la sua effimera presenza nel fluire del tempo, nella corruzione della materia. In Balancing Acts la funzione dell’equilibrio si rastremava in quell’attimo fuggevole dell’esistenza in vita dell’oggetto scultoreo, simbolo stesso dell’evento coercitivo di una forma che ha nella sua esistenza, nascita, apice fattuale e suo decadimento. L’equilibrio era in fondo il tema esiziale di tutto il costrutto, poiché soltanto nell’evoluzione del collettivo, dal gesto frammentato dei singoli ricondizionato all’interno di una visione d’insieme, era possibile identificare quella forma che sarebbe apparsa e di cui nessuno poteva prevedere realmente l’essenza. Ciascuno degli autori avrà certamente avuto un’idea probabile di ciò che la scultura performativa sarebbe potuta essere ma in nessun caso l’equilibrio instabile dell’oggetto sarà stato esattamente ciò che nel singolo era prospettato. Qui il senso del collettivo risultava estremo, poiché sebbene la forma fosse praticata dalle volontà delle scelte individuali ciascuna ulteriore aggiunta materica ne avrebbe alterato l’ideazione.
Aperta nei primi giorni di luglio nella sede di un piccolo museo dell’area metropolitana milanese, il MaiO di Cassina de’ Pecchi, la mostra Filter Bubbles curata da un gruppo eterogeneo di giovani con la partecipazione di numerosi artisti anch’essi giovani ed emergenti, costituisce l’esempio ulteriore di alcune problematiche che governano l’operato artistico del contemporaneo giovanile. Il titolo della mostra costituisce l’indicazione più evidente di quali siano state le richieste organizzative: Filter Bubbles è un termine usato dalla critica socio mediale per indicare quel fenomeno di segmentazione e successiva enfatizzazione di un punto di vista determinato dall’incrocio dei dati e delle scelte di chi frequenti il web e in particolare i social media. Estraendo i dati degli interessi proiettati nelle ricerche o nelle scelte degli utenti, attraverso cookies e analisi testuali, i grandi distributori di servizi online affidano ai calcoli e alla AI la selezione di quelle preferenze manifestate dall’utente in primo luogo per sollecitare acquisti di servizi e di prodotti e successivamente amplificano questo target indirizzando l’interesse univoco del fruitore amplificando e segmentando il suo punto di vista. Questo processo che negli anni ha scavalcato ogni parvenza di privacy è confluito nell’attuale configurazione ad hoc nelle pagine iniziali dei browser per favorire lo scrolling al cellulare col risultato di distrarre e focalizzare l’attenzione solo su alcuni topos preordinati. Unitamente a questo l’uso dell’AI, addestrata in particolare attraverso le risorse che ogni singolo utente lascia nelle sue pagine social, ha iniziato a sostituire del tutto la funzione originaria dei motori di ricerca. Se fino a qualche mese fa era ancora possibile ricercare i contenuti nel web adesso questa funzione viene disabilitata sia dalla risorsa diretta dai programmi di AI e anche per l’uso che i browser hanno implementato, ovvero quello di rilasciare ad ogni richiesta non i risultati listati attraverso funzioni di calcolo – link, citazioni, valutazioni – ma le preferenze dettate dalla stessa AI in riflesso alla precedenti ricerche del fruitore, un sistema che ormai sta sostituendosi agli algoritmi del vecchio browser. Questa mostra, in qualche modo, voleva sottolineare l’obbligatorietà delle scelte individuali, contrapposte a quelle collettive, e in indifferibile funzione fideistica. La scelta di questo titolo naturalmente indica una chiara contrapposizione a quanto si era evidenziato nella precedente mostra Balancing Acts. Il problema che Filter Bubbles ha reso nella sua evidenza più chiara è derivato dall’impostazione curatoriale. Se in Balancing Acts l’ideazione dell’evento scultoreo performativo era nato da un’idea di programma, in Filter Bubbles il quesito essenziale era esattamente quello di non assumere un'idea progettuale che fosse condivisa platealmente. La difficoltà di raggiungere l’equilibrio di una condivisione è stata quindi prevaricata dalla condizione di estraneità delle singole scelte optando per una esclusiva condivisione dello spazio espositivo e nella contrapposizione anche sostanziale fra i differenti punti di vista. Qui nelle molteplici scelte operate dai curatori le plurali direzioni sono rimaste indifferenti al collettivo poiché anche nella condivisione del luogo risultava impossibile ritrovare un equilibrio e una mediazione che non fosse nell’estraneità di ogni singola prospettiva. Eppure la strana sensazione di un tutto condiviso nella difficile installazione frutto di una varietà composita di tecniche e strumenti ha comunque trovato un apparente impossibile equilibrio. Qui, in uno spazio già marcato dall’identità di un passato d’archeologia industriale, il rapporto fra le differenze così manifeste e assolute dei singoli lavori ha inventato una equità nella rappresentazione nata dall’indifferenza per l’alterità. Una sorta di radicale e volontaria estraneità dal contesto e in cui ogni valore comunicativo e formale, dalle tecniche pittoriche alla realtà aumentata, poiché concentrato su ipotesi di chiusura e di esilio dal senso del collettivo riusciva nella sorda acquiescenza del conflitto, in cui ciascun elemento sembrava ridurre nell’esclusivo concentrarsi in sé il senso del suo esercizio, evitando la conflagrazione delle differenze. Si è trattato in questo caso di un equilibrio nato dalla volontaria esclusione dell’altro ma nella sua radicale manifestazione, negando il senso della condivisione collettiva, ha raggiunto quello stesso equilibrio sostanziale che non avrebbe mai osato di voler rappresentare. Tutto ciò viene ratificato nel catalogo di cui si sono occupate alcune delle autrici in veste esclusivamente critica. Qui, volontariamente, il significato di Filter Bubbles è stato depennato come a voler sostenere la riflessione del visitatore senza voler indirizzare la sua attenzione verso quella soglia delle differenze e delle contrapposizioni così palesi nei singoli percorsi d’artista e curatoriali.
Tra i progetti in mostra, l’istallazione Noetic Vault di Angela Lazzarotto, totem di monitor catodici che riproducono gli schermi del controllo metropolitano a cura di Giuseppe Antonio Bagnato. Earth, azione di Wanling Mo a cura di Chenzhi Ma in cui si metteva in relazione corpo e terra, in un gesto di connessione fisica e simbolica. Due Chiacchiere a cura di Suhyun Baek e Giovanna Briganti Piccoli, narrazione che restituisce valore alla memoria e al racconto orale. Fondiforme e Pasci in Dreamora, “la casa del sonno”, a cura di Sofia De Pascali, Alessia De Rosa e Greta Olgiati, raccontavano la ricerca di uno spazio protetto ed estraneo. Atto Pirata (Scoperta orale della Maio), a cura di ApuA, si poneva all’esterno dello spazio espositivo per rinnovare l'identità artistica e museale. Zona Grigia a cura di Camilla Bertoni, Francesca Napolitano, Federica Roberto e Laura Schiavon con i lavori di Elia Panori e Lorenzo Lanfranco proponeva un lavoro psichico definito dall’oscurità percettiva, fragile e complessa, del nostro tempo. Greta Mariani in 8 Rintocchi, a cura di Giulia Domenici, Erica Esposito, Aurora Mina e Francesca Vigani, dava vita ad una performance in cui si intrecciavano scenari ancestrali. Linea d’ombra curata da Margherita Filippi e Linda Mahmoudi, esponeva le opere di Pietro Coppi, Matteo Montorfano e Martina Licalsi, tre prospettive diverse accomunate dal mezzo fotografico. Pellicola, a cura di Daniele Nicolosi, mostrava i cortometraggi di Francesca Ferraro, Cristina Mandorino, Federico e Matteo Masciocchi, Andrea Scigliuzzo, creando una narrazione tecnologica e radicale. A way a cura di Wei Deng, con la partecipazione di Andrea Dojmi e Hu Jingmin, si ispirava alla filosofia del Dao con immagini evocanti una dimensione rarefatta e meditativa.
Filter Bubbles si proponeva in modo diverso, contrapposto a quanto sostenuto in Balancing Acts, approdando però a risultati simili poiché l’estremismo radicale sia nella prima che nella seconda mostra si polarizzava nelle estreme opzioni neopragmatiche. Se in Balancing Acts il senso del radicale era nell’operazione collettiva condivisa in Filter Bubbles era nella sua assoluta mancanza. Negli estremismi di queste posizioni, quindi, la giovane arte degli anni Venti elabora quel movimento a pendolo continuo in cui il senso opprimente del contesto socio politico del realismo capitalista conduce ad un oppositorio riflesso radicale, di condivisione totale o di estraneità assoluta, in attesa che quel movimento ad altalena cominci a rallentare la sua corsa per ritrovare il suo centro, il suo equilibrio e la sua stasi.

Luglio 2025