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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

I pilastri della mostra di Christine Tohmé

Patrizia Mania
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Con lo slittamento di un anno si è inaugurata la 18.a Biennale di Istanbul (1) che in uno sviluppo disteso per un triennio sembrerebbe voler sopperire alla sopravvenuta discontinuità. Dal 2025 al 2027 la mostra The Three Legged Cat esplorerà infatti in tre tappe a cadenza annuale l’attuale controverso momento storico in cui, come scrive la sua curatrice, Christine Tohmé, la nostra stessa vita appare sotto assedio.
Dunque da due anni a tre, un numero riecheggiato dalla metafora del gatto a tre zampe così intendendo rispecchiare la condizione dell’umanità odierna chiamata a far fronte alle mancanze, ai vuoti, alle tante difficoltà incorsi nella cifra del mutato e imprevedibile panorama politico e ambientale cercando nuovi modi e percorsi per garantirsi la sopravvivenza. Questo il tema dominante di una biennale costruita sulla convinzione che nell’attuale momento emergenziale di catastrofi umanitarie e naturali, di genocidi perpetrati, e in generale di tetri orizzonti, l’arte, la cultura in genere, possono provare a dare delle risposte che, nonostante tutto e in primo luogo, consentano di conservarsi e resistere. Ė il primo obiettivo suggerito e emblematizzato dai lavori artistici proposti in questa prima fase. Una tappa inaugurale, dunque, all’insegna del cercare e indicare risorse e così provare a reagire e a colmare le tante perdite e fallimenti che affliggono il nostro travagliato tempo.
Se tripode è la struttura può tentarsi si individuare anche nel concept dell’esposizione un’analoga specchiante ripartizione. A partire dalla messa a fuoco della vulnerabilità e precarietà di un mondo radicalmente destabilizzato, per poi concentrarsi sulla sopravvivenza psico fisica e ambientale virando verso soluzioni a basso impatto economico e sociale, e terminare infine con la capacità critico politica dell’arte di indicare risposte agli inquietanti interrogativi che assediano il presente.
A tracciare l’itinerario esperienziale della biennale è una costellazione di otto sedi che disegnano un percorso che dal quartiere di Beyoğlu scende a sud verso Karaköy sovrastando quel braccio di mare del Corno d’Oro che nel separare la parte continentale europea della città da quella asiatica dalla collina raggiunge il mare.  Percorrendo a piedi, quasi come in una caccia al tesoro, il tragitto che porta alle varie sedi non sfugge di come l’attraversamento dei quartieri si ponga in una sorta di flusso temporale fluido come parte dell’esperienza stessa della mostra. Le sedi della biennale ne sono a tal punto incorporate da renderne a tratti difficile l’individuazione. Addentrarsi dunque nei vicoli, nei “passaggi” di questa millenaria città, tra tracce del passato e testimonianze del presente, rovine antiche, spazi dismessi e resurrezioni degli stessi che in parte proprio la Biennale ha reso possibili, tra negozi di souvenir, luoghi di ristoro e librerie, invita in primo luogo a scoprire e leggere l’arte nei contesti del vissuto quotidiano. Ciascuna sede reca in sé evidenti accanto ai segni del suo passato le risignificazioni del suo presente, iscritte nelle sue mura e nelle sue funzioni e tradotte e rinnovate dalle proposte artistiche e da un ordito curatoriale che si è dato fin da subito aperto finalizzandosi progettualmente nello stare e fare parte della città. La stessa formula scelta per selezionare le opere, affidata in parte ad una call, ha corrisposto efficacemente a queste premesse consentendo la libertà di sottrarsi a talune griglie sistemiche che spesso soprattutto l’economia dell’arte impone. Dunque una ventata di novità che nel rispondere ai modi ormai invalsi della call ha anche l’immediata conseguenza di presentare il ruolo curatoriale su una linea orizzontale di ricerca condivisa.
Nella guida che orienta il percorso la prima sede indicata è quella di Elhamra Han. Un complesso edilizio originariamente destinato – aprì i battenti nel 1827 - a hall teatrale, vocazione che ha mantenuto nel tempo, ospitando eventi musicali, proiezioni cinematografiche e ovviamente ancora spettacoli teatrali. Una storia che si interrompe nel 1999 quando un devastante incendio ne compromette l’assetto poi in seguito parzialmente recuperato assumendo la nuova fisionomia qualificante la sua destinazione d’uso attuale che vede brulicare di negozi il piano terra e ospitare ai piani superiori uffici e residenze private. Proprio due appartamenti privati del secondo piano sono stati resi disponibili per la mostra e qui tra i vari lavori colpisce in particolare la connotazione esplicitamente politica di alcuni. Riflettere sul riposo e sul resistere alle frenesie di questo nostro tempo immolato alla causa capitalista è il messaggio del film Becquerel di Riar Rizaldi (2), una trilogia della quale si presenta qui la terza parte in cui un ragazzo filosofo va alla ricerca di un posto dove dormire in un traslato che a partire dallo sfruttamento incessante delle risorse naturali del suo paese, l’Indonesia, dal dominio coloniale olandese passando per la dittatura fino all'attuale accaparramento delle terre e all'estrattivismo, si fa metafora della spasmodica e irrefrenabile violenza inferta alla Terra e dai suoi stessi abitanti. Spostando l’attenzione sulla manipolazione dei media, nel video Tomorrow, again (2023) di Mona Benyamin lo schermo di uno studio pseudo televisivo trasmette un generico telegiornale, familiare e senza tempo, che irrora la sensazione di uno stato di emergenza permanente. I protagonisti sono i genitori dell’artista che nel corso del video interpretano ruoli diversi esprimendo emozioni grottesche al limite della caricatura. Fondendo insieme satira e critica, le esorbitanti, ambivalenti e nevrotiche espressioni emotive riflettono dinamiche mediatiche di travisamento e silenzio nei confronti in particolare della questione palestinese. Eloquente in tal senso la risata nervosa che denuncia una compressione psicogena sullo sfondo delle distruzioni del territorio palestinese. Iscritte nel registro politico, sono anche su un altro piano le manifatture di Jagdeep Raina che rinviano alle memorie del Punjab e del Kashmir, aree di provenienza dell’artista, esplorando il potenziale residuale e rivoluzionario dell’“human touch” con cui ostinatamente l’artista costruisce e fa costruire i suoi lavori spesso incorporandovi proprio dei phulkari e sozni, ricami tradizionali rispettivamente proprio del Punjab e del Kashmir. Dai suoi frammenti ricamati a risparmio (2) (lavorati dal rovescio del tessuto) affiorano, integrate da scritte, figure umane, animali e vegetali spesso ispirate ad una personale documentazione archivistica (per lo più su base fotografica) che riguarda proteste e lotte per la sopravvivenza anche dell’ambiente e che dagli anni Sessanta in poi hanno riguardato proprio i luoghi di produzione di tali manufatti. L’accento sull’ambiente ritorna nella seconda sede - Eski Franzis Yetimhanesi Bahçesi (Garden of the Former French Orphanage) – che accoglie in una parte del giardino un’installazione site specific di Khalil Rabah. Tra rovine e rinascite, tra ordine e disordine, il tema sembra suggerito, qui più che altrove, dalle peculiarità mnemoniche del luogo stesso. Il giardino di un orfanotrofio il cui terreno per una tenuta di quattro piani fu nel lontano 1869 concesso dal sultano Abdülaziz alle Figlie della Carità di Saint Vincent de Paul, a condizione che fosse utilizzato come orfanotrofio. Nello stesso anno l'orfanotrofio francese Saint Joseph aprì i battenti accanto alla vicina scuola elementare Saint Eugène. Entrambe le istituzioni rimasero attive fino al 1937. In seguito, il progressivo deterioramento dell’edificio e le controversie legali sulla proprietà, lo mantennero inutilizzato per lungo tempo e solo di recente il giardino prospiciente è stato aperto al pubblico dal distretto municipale di Beyoğlu con il nome di “Tophane Mekân”. Qui, lungo un suo lato è stata installata Red Navigapparate (2025) che consiste in file ordinate di più di cento grossi barili rossi che, sistemati sopra una pedana, fungono ciascuno da vaso per la coltura di specie vegetali diverse, per lo più mediterranee. Quasi a delimitare la singolare coltivazione è un confine tracciato da un canale d’acqua che irrigando delimita e separa parlandoci di conservazione, ma anche di confini e di sorveglianza. Giustapponendo permanenza con precarietà, crescita a controllo, l’opera invita a considerare questo luogo nelle sue prerogative passate e nel suo disfacimento e rinascita presente vagliandone ambiguità e contraddizioni su vasta scala.
Una lunga camminata separa dalla terza sede, Meclis-i Mebusan 35, un edificio risalente al 1983 già scelto dal 2016 al 2018 come una delle sedi espositive della Istanbul Design Biennial. Al suo interno vi dialogano tre lavori in un assortimento non propriamente fluido che se da un lato con l’installazione Exudates (2025) di Eva Fàbregas destruttura l’architettura con l’invasione di sculture biomorfe realizzate in materiali artificiali che replicano visivamente e tattilmente le conformazioni organiche; dall’altro nell’installazione e nel film che l’accompagna, Working class (2025) di Pilar Quinteros riflette sulla caducità della  rappresentazione simbolica e monumentale  dell’arte nello spazio pubblico. Lo spunto è qui infatti la monumentale scultura Işçi Sinifi (2025) realizzata dallo scultore Muzaffer Ertoran e un tempo ubicata a Tophane Park. Vittima di continui e perpetrati atti vandalici e ripetutamente oggetto di restauro da parte del suo autore, il monumento viene riletto, destrutturato e ricomposto in ogni sua parte in modelli di cartone e una narrazione filmica mostra il laboratorio di un sedicente scultore alle prese con le frustrazioni di comporre e scomporre di continuo il suo lavoro vandalizzato e abusato dal pubblico. In generale una riflessione ad ampio raggio sulle difficili e complesse condizioni in cui versano le opere nello spazio pubblico. La sostanziale estraneità l’un l’altra delle due opere appare ulteriormente accentuata dalla presenza di un lavoro ecoqueer del duo di artisti VASKOS che con i loro collage mettono in campo metamorfosi del corpo virate nei simboli decorativi ellenizzati ad uso massivo e turistico (4). Nel complesso la sezione meno risolta della mostra che pur coerente con il tema di fondo risulta confusa e disorganica, complice uno spazio intercomunicante che genera un’inevitabile contaminazione visiva tra le installazioni.
Scendendo verso il mare alla volta di Karaköy, prima ancora di accedere alla sede contrassegnata con il numero 4 si raggiunge la quinta sede nel moderno Zihni Han le cui fondamenta risalgono al 1930 anche se poi fu totalmente ricostruito nel 1973 quando venne destinato nei suoi cinque piani a scopi commerciali per lo più legati alle attività di trasbordo nautico del Galataport. Oggi in disuso, proprio la 18.a Biennale ne tenta una riurbanizzazione. Una delle sedi artisticamente più popolate della Biennale i cui grandi spazi sono abitati sia da grandi installazioni, anche video, sia da opere pittoriche che li ridisegnano quasi fosse una quadreria. E con grande sofisticata chiarezza e rigore formale che emerge la qualità enigmatica, drammatica, inquieta e surreale delle pitture di Ian Davis che presenta una sequenza di otto opere che nei monumentali paesaggi interrogano tensioni apocalittiche tra umanità e ambiente agite dalle piccole spersonalizzate figure umane fautrici di immani catastrofi o distopici collassi (5). Materia pittorica densa, quasi un tuffo in grammatiche iconografiche antiche, è invece la serie di dodici pitture The Brick and Timber (2020/2021) di Chu Ching-Yuan. Realizzate durante la pandemia COVID 19 tributano al lavoro umano di costruzione la potenza della resilienza.
 Performer, videomaker, autrice di potenti installazioni, Selma Selman ha introdotto la sua installazione con una performance all’Instanbul Museum of Modern Art dal titolo Motherboards in cui coadiuvata da alcuni membri della sua famiglia ha spaccato e aperto vecchi pc al fine di estrarre dalle schede madre frammenti di 18 carati d’oro. A Zihni Han l’esito della ricerca dell’oro si materializza nelle carcasse accattastate dei pc e in una teca dove espone il frutto della raccolta estrattiva: un cucchiaino d’oro risplendente nella sua possente semplicità. Di origine rom, la ricerca dell’oro dalle schede madre dei pc è una delle attività che l’artista ha visto e appreso a praticare e che riferisce di un’economia del riciclo e dell’adattamento che nell’approvvigionamento di risorse primarie trasla nell’arte un talento di sopravvivenza.
Dorata appare anche Wreath (2024) la scultura semisferica di ottone modellata con le impronte degli pneumatici dei motocicli okada – specie di taxi diffusi in particolare in Africa occidentale – che introduce alla video installazione Machine Boys (2024) di Karimah Ashadu. Il mondo sotterraneo delle sperticate performance dei riders di Lagos viene ripreso rivolgendo una specifica attenzione alla loro mascolina identità che nello scorrere della narrazione si fa rivelatrice della capacità di autodeterminazione ma anche della vulnerabilità e della precarietà inaggirabili che la ricerca di un modo di sopravvivere ha loro imposto. 
Forme di sopravvivenza che riguardano anche quei luoghi di memoria che hanno permesso a comunità emarginate di resistere nella condivisione. Ė il caso del nightclub Pacific Club Privé che durante gli anni Ottanta rappresentò a Parigi nel quartiere della Défense un luogo di condivisione per immigrati arabi e del nord Africa che lì si riunivano per ascoltare e danzare musica soul, R&B e musica popolare algerina (rai). La voce narrante del film Pacific Club (2023), Azedine Benabdelmounene, all’epoca adolescente, è la vivida testimonianza di un’esperienza conclusasi precocemente a causa del diffuso razzismo, dell’espandersi dell’AIDS e della dipendenza dall’eroina di molti suoi protagonisti. Una stagione interrotta su cui l’artista, Valentin Noujaïm, riflette con afflato nostalgico. Una perdita, una rimozione di comune memoria potentemente ricostruita e resuscitata nella sincopata sequenza del racconto orale e visivo cui si dà vita.
La memoria intima di traumi epocali che progressivamente ci riguardano sempre più da vicino si conforma invece negli affollati disegni dei Diaries from Gaza (2023) di Sohail Salem. Costretto nel 2023 a trasferirsi da Gaza, sua città natale, a Deir al-Balah annota con l’inchiostro della penna la sua vita sotto assedio in diari visivi espressione di paure, vissuti interiori, emozioni, altrimenti difficilmente traducibili in parole.
Partendo da uno storico aneddoto locale in cui piccole comunità reclamavano la terra gettando in mare pantofole o sandali consumati nella speranza che la sabbia si accumulasse attorno ad essi per formare un'isola, Abdullah Al Saadi in Stone Slippers (2023) si appropria delle ciabattine di plastica universalmente adottate e le incorpora alla pietra, così suggerendo attraverso un oggetto di mobilità come il sandalo un possibile re-radicamento del corpo con la propria terra.   
Insistono sulla memoria anche le due installazioni ospitate a Küla Fabricasi, un’ex fabbrica di coni, indicata dalla guida come quarta sede. Nascosta nelle strette vie secondarie di Karakoy questa ex fabbrica di coni gelato è un edificio storico a cui si accede attraverso una facciata in mattoni grezzi ricoperta di graffiti. Ad abitarla al piano terra in occasione della Biennale è l’installazione immersiva di Claudia Pagés Rabal consistente in una videoproiezione sul soffitto e su alcune light boxes alle pareti. Si tratta di The Night of Five Defence Towers (2025), un corto di 34 minuti proiettato su uno schermo evocante le volte dell’architettura catalana in cui alcune performers inscenano una coreografia ad un tempo poetica e militaresca, mentre a completare l’installazione è l’affissione sulle pareti delle fotografie di cinque torri corrispondenti alle torri catalane di Òdena, Manresana, Tossa, Miralles e Vilademàger. Architetture di contenimento che rinviano alle nozioni di confine e di esclusione. Occupa i piani superiori l’installazione A Horn That Swallows Songs (2025) di Doruntina Kastrati. Un’indagine visiva sui costi residuali del lavoro invisibile – in special modo quello femminile – dedicato alla produzione dei tipici dolciumi turchi (Iokum). Al centro dell’installazione sono sistemati dei monitor su una struttura metallica dove scorrono brevi filmati girati proprio nelle fabbriche di tali delizie dolciarie e dove l’accento è posto sulle discrasie tra la fatica e la sofferenza del lavoro subalterno e il conseguente piacere del prodotto dolciario.
La sesta sede, Galeri 77, è una galleria privata fondata nel 2012 in un edificio storico che alla fine del XIX secolo fu adibito a spaccio di vini di produzione greca per poi divenire il magazzino di stoccaggio per il Tariş Şarabi, una marca di vino prodotto negli anni trenta dalla cooperativa agricola turca Tariş. Oggi sede della galleria vi trovano posto alcuni lavori che in misura e modalità diverse declinano questioni legate ai linguaggi. Emblematicamente lo fa la video installazione di Dilek Winchester 410 Letters: On Reading and Writing (Albanian) (2025), che si offre come un vorticoso peregrinare nelle lettere, nelle loro radici e derivazioni. Ola Hassanai, propone invece un’installazione articolata in più parti e che si presenta in linguaggio scultoreo, sonoro, video e fotografico invitandoci sostanzialmente a convivere con la frattura e a ricalibrare il nostro rapporto con lo spazio, il tempo e la memoria. Reimmaginare le scorie visive dei linguaggi del passato con spirito critico è al fondo anche il messaggio di Haig Avazian che presenta tre episodi di una mini serie di cartoni animati intitolata You May Own the Lanterns but We Have the Light (2022/2025) mentre il ripensare ibride metamorfosi dell’umanità nel mondo degli uccelli è il main stream dell’installazione ambientale di Mona Marzouk.
Un assolo orchestrato da Ana Alenso è il lavoro Lo que la mina te da, la mina te quita (2020) che occupa l’intero spazio Muradiye Han. Settima sede della Biennale allocata in un edificio che coniugando lo stile neoclassico ottomano con il modernismo vide la luce nel lontano 1914 e che dopo aver attraversato vicende varie anche come sede delle forze armate francesi negli anni dell’occupazione successivi alla prima guerra mondiale è stato nuovamente reso fruibile dal recente restauro del 2021 come spazio espositivo che proprio la Biennale consente di vivere nella nuova veste. Tornando all’opera di Alenso, consiste in una immersiva multimediale installazione che esplora la realtà delle miniere d’oro nelle regioni amazzoniche del Venezuela a partire dall’eredità coloniale per giungere alle modalità estrattive dell’età globale. “We are satellites/ we orbita round a distant territory/ thousands of miles away,/ We are diaspora/ we are here and there/ We are gold and diamond dust” recita ad esergo una scritta in un tondo.
Il lungo itinerario della biennale ha termine risalendo nella parte alta di Karaköy. Si giunge così all’ottava e ultima sede, Galata Rum Okulu, la Galata Greek School costruita nel 1885 in stile eclettico neoclassico e che ospitò varie generazioni di studenti dal 1910 al 1988. Utilizzata poi come asilo, le sue attività educative cesseranno definitivamente nel 2015 per poi successivamente divenire in varie edizioni sede della Biennale di Design nonché utilizzata anche per alcune edizioni della Biennale d’arte. A seguito dell’ultimo restauro conclusosi nel 2023, i grandi spazi che la connotano hanno consentito di presentare qui un numero consistente di artisti.
Scorrendo sulle varie proposte a interrogare in maniera esemplare uno dei temi principali della mostra è la filmica poetica trilogia di Ana Vaz Meteoro: Paris, St Lazare (2023). Attraverso una serie di fugaci immagini sonore, la sequenza cattura le correnti sotterranee che scorrono sotto l'immagine compassata dell'Europa contemporanea: rifiuti accumulati sulla scia di uno sciopero generale, boulevard haussmanniani sbiaditi, primi piani di scheletri, cristalli e animali esposti in un museo di storia naturale e infrastrutture quotidiane,  mettono in risalto anche le ramificazioni di lunga data del progetto coloniale, nonché l'eredità del consumo eccessivo e dell'inevitabile declino entropico. La narrazione critico etnografica dell’artista traccia una linea che va dalla vita urbana contemporanea alle radici dell'idea di infrastruttura coloniale costruita dall'Europa.
La consunzione di un esacerbato consumismo si offre su un diverso piano anche nei diorama di Ĭpec Duben che invitano a rivedere le anomalie del desiderio contemporaneo.
Infine, un artista che ci ha abituati a guardare in modo critico alle narrazioni politiche odierne: Akram Zaatari che propone in due ambienti una serie (non di video come forse ci si sarebbe aspettati) di 16 miniaturistiche pitture acriliche che indagano la semiotica del corpo maschile in lotta o che semplicemente entra in contatto. In una sala tinteggiata di verde la serie Olive Green (2020) con scene di wrestling oil, uno sport antico ancora praticato in Turchia, Iran e nei Balcani, in cui gli avversari cercano di sopraffarsi a vicenda attraverso una sequenza di posizioni e prese controllate, bilanciando forza e tecnica attraverso l'intreccio e la tensione fisica. Va da contraltare la serie Crimson Red (2021) su pareti tinteggiate di rosso, i cui protagonisti sono atleti russi in attesa di determinare la propria categoria di peso. In comune è il conferimento di intimità alla rappresentazione dello scontro fisico e della lotta performativa. Dipinti durante la reclusione a Beirut per la pandemia del COVID 19 l’artista guarda come di consueto altrove e diversamente, qui nello specifico alle questioni del corpo maschile e della sua prestanza. Negoziare creativamente con il tempo i modi.
In definitiva pensare alla conservazione e alla sopravvivenza ritenendo che, come scrive Thomé “To rest, to linger, to scavenge, to laugh, to refuse” (6) non sono da classificare come gesti minori ma propriamente come i mattoni fondamentali per assicurarsi un futuro ancora da vivere. 

Ottobre 2025

1) The Three Legged Cat, a cura di Christine Tohmé, 18.a Biennale di Istanbul, 20 settembre – 23 novembre 2025.
2) Riar Rizaldi, Becquerel, 2021. Single-Channel video, 16:9, colour, 19:08 min., stereo. Wooden board with wheat- pasted poster, camping chair. Variable dimensions.
3) Si veda in particolare: Jagdeep Raina, Moon Garden Punjabi Birds,2020. Arazzo ricamato con la tecnica phulkari su cotorne, 68,6 x 25,4 cm. Courtesy of the artist and Cooper Cole Gallery
4) VASKOS (Vassilis Noulas & Kostas Tzimoulis, Spilled in Good Faith e Pourring Without End, 2024. (recto e verso) Stampa e pittura acrilica su tela, 230 x 230 cm.
5) Si veda in particolare: Ian Davis, Acolytes, 2024
6) Christine Thomé, “Introduction”, in The Three Legged Cat, Guide, 18th Istanbul Biennial, Istanbul Foundation for Culture and Arts Yapi Kredi Publications, Vehbi Koç Foundation, Istanbul 2025, p.22-