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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Una mostra al Mattatoio a trent’anni dall’assedio di Sarajevo*

Lucilla Meloni
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A trent’anni dalla fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, dall’assedio di Sarajevo, dal genocidio compiuto dall’esercito serbo a Sebrenica, il Mattatoio dedica una importante mostra a quei tragici avvenimenti che negli anni Novanta del Novecento sconvolsero la ex-Jugoslavia, che riportarono l’orrore nel cuore dell’Europa.
Quel conflitto che inaugurò la triste stagione dei nazionalismi, delle guerre di religione, di un principio identitario basato sull’esclusione dell’altro, di cui la città di Sarajevo, storicamente incrocio di culture e religioni: cristiana, ebraica, musulmana, fu vittima illustre.
Il titolo dell’esposizione, curata da Benedetta Carpi De Resmini, è la sua prima chiave di lettura; come scrive la curatrice in catalogo, questa: “non si propone di raccontare la guerra, né di fossilizzarsi nella memoria, pur necessaria e fondamentale, ma di rendere visibili i segni di una resistenza profonda, incarnata e quotidiana, che attraversa corpi, gesti e paesaggi”.
Le opere di sei artiste di nazionalità italiana e bosniaca, testimoni degli eventi o nate successivamente ad essi: Simona Barzaghi (1960), Gea Casolaro (1965), Romina De Novellis (1982), Šejla Kameri
 (1976, che ha vissuto l’assedio di Sarajevo), Smirna Kulenovič (1994), Mila Panič (1994) creano infatti un percorso espositivo vivo, attuale e lontano da ogni retorica commemorazione.
In esso si intrecciano memoria individuale e memoria collettiva, rimozione, passato e presente, procedimenti singolari e attitudini relazionali.
La terra come territorio, come confine, come paesaggio, come sepoltura ma anche come rinascita appare il fil rouge che collega le opere, così come il viaggio, il superamento virtuale o reale dei confini, il “cammino rituale” compiuto da alcune delle artiste.
Dall’esperienza personale vissuta nell’immediato dopoguerra a Sarajevo nasce il lavoro di Gea Casolaro, nella città nel 1998 nell’ambito di una residenza organizzata dalla Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo, dal Comune di Roma e dall’Arci Torino.
L’erba di Sarajevo# (1998-2025), ripetizione multipla della stessa immagine articolata in quattro registri e collocata su due pareti, si presenta nella sua essenzialità e nel suo rigore compositivo come un tappeto d’erba verticale, come una porzione di paesaggio. La frase posizionata al centro di ogni fotografia: “A Sarajevo durante l’assedio dovevi aver paura anche dell’erba. Ogni piccola aiuola poteva nascondere una mina”, confligge però con il rigoglio primaverile dell’erba, così da ribaltarne il senso nella antitesi di vita e morte.
La scritta riportata è la sintesi dei desideri espressi dagli studenti della locale Accademia di Belle Arti, incontrati dall’artista, che sognavano di correre e di rotolarsi sull’erba, fatto all’epoca impossibile a causa delle mine. La sua reiterazione la rende ossessiva e il suono mentale delle parole sembra rimbombare nello spazio espositivo, che all’improvviso diventa immersivo.
Da sempre interessata al rapporto tra ciò che appare e ciò che è, tra percezione e realtà, con quest’opera nata in tempo reale tra i prati di Sarajevo, Casolaro ci sollecita a riflettere non solo su chi usa le mine, ma anche sulle responsabilità politiche etiche e morali degli Stati democratici che le producono e le vendono.
Da una lunga permanenza in Bosnia, dalla pratica del percorrere spazi liminali tra confini visibili e invisibili, dall’incontro con comunità diverse, nascono le opere di Simona Barzaghi, da tempo impegnata in Bosnia nella attivazione di pratiche partecipative.
Come un sereno paesaggio possa celare, come in uno scrigno, il dramma, diventandone muto testimone, è il primo sentimento che generano i suoi lavori. Waterlyne (2024) è una installazione a parete composta da fotografie, mappe, video e testo; una narrazione che mette insieme esperienza relazionale e geografia (il fiume, il confine).
Nasce dal viaggio dell’autrice, che ha navigato nel 2024 circa 28 km del fiume Drina, corso d’acqua che separa la Bosnia-Erzegovina dalla Serbia (e oggi attraversato dai migranti nella rotta balcanica), raccogliendo voci, testimonianze e acque. Su uno sfondo rosso, la linea sinuosa del fiume è contornata da fotografie che documentano il viaggio e da disegni di pesci “parlanti”, portatori di pensieri umani, quali ad esempio: “Questo spazio immenso di nessuno”.
Barzaghi ha coinvolto trenta co-autori nella realizzazione di Zastawe (2024), termine che significa bandiera. Qui il vessillo nazionale si fa plurale, composto come è di 24 bandiere diverse che testimoniano i sentimenti di un “noi” temporaneo, di una comunità che decostruisce il simbolo nazionale e ne mette in evidenza l’inadeguatezza.
“Viviamo in una guerra costante in cui il corpo femminile viene usato come un territorio” scrive in catalogo Šejla Kamerič, testimone dell’assedio.
 Tra i suoi lavori, Bosnia Girl (2003) è un atto d’accusa. Sul suo autoritratto, che fissa con determinatezza l’osservatore, ha riportato l’insulto sessista e razzista scritto da un militare dell’ONU sul muro della caserma ONU di Potočari a Sebrenica tra il 1994 e il 1995.
“No teeth...? A mustache...? Smell like shit...? Bosnian Girl!” Queste le parole che descrivevano una ragazza bosniaca: senza denti, coi baffi, maleodorante...
Scritta riprovevole per diverse ragioni, ma soprattutto per l’odiosa descrizione del corpo della donna, che in quella circostanza è stata oggetto della pratica diffusa dello stupro etnico.  
Dal passato si arriva al presente. Al tema delle migrazioni e alle responsabilità che inchiodano i Paesi che dovrebbero accogliere chi cerca rifugio e viene invece respinto o posizionato ai margini sociali, fa riferimento il neon Refugees Welcome (2020) di Šejla Kamerič. In un gioco linguistico l’artista altera il senso della frase, dove Welcome diventa Willcome (arriveranno), mentre le lettere che compongono l’aggettivo “ill” (malato) lampeggiano all’interno della parola. E, per estensione, come non definire una malattia la paura dei migranti che affligge le società più ricche del pianeta?
La terra ritorna nelle opere di Smirna Kulenovič e di Mila Panić.
Nel lungo video Burning Field (2017) di Panić si vede un campo preso da diversi punti di vista su cui si alzano focolai e fumo e si ode il suono del vento e del fuoco che brucia le stoppie.
Nel contesto espositivo si è portati a interpretare il video come segno della distruzione generata dalla guerra ma in realtà innanzitutto è il frutto di un ricordo autobiografico. Come racconta l’artista, esso nasce dalla memoria (e dalla nostalgia) dell’atto compiuto dalla sua famiglia ogni settembre, quando si bruciavano i campi per favorire la semina successiva.
Lo scorrere delle immagini restituisce al visitatore il tempo reale dell’accadimento in cui il fuoco è portatore di vita e non di morte; questa lunga durata può essere intesa, simbolicamente, come la profonda ed estesa sedimentazione del ricordo nella coscienza.
La terra è presente come sepoltura nascosta, come fossa comune e come luogo di rinascita nelle carte di Smirna Kulenović, che nascono anch’esse da un’esperienza autobiografica. Appese alle pareti, queste sono composte infatti dalla raccolta dei semi di piante (ortica, salice, rosa canina e altro) germogliate sul terreno che nascondeva i corpi nelle fosse comuni, tra i quali quello di suo zio.
Silence of the Land (2024) è un lavoro poetico, nato da un gesto delicato, simbolico  e commovente che riesce a trasformare l’orrore in altro da sé, e in tal senso dimostra la forza dell’arte come atto di resistenza.
Down to Earth (2025) una montagna di terra nella quale sono praticati 4 fori, in corrispondenza dei quali si trovano 4 inginocchiatoi, invita il pubblico a chinarsi, a inginocchiarsi per ascoltare i suoni dei canti bosniaci provenienti dalla terra intonati da donne anziane. Azione, questa, che si configura quasi come una religiosa forma di rispetto per quanto è accaduto. L’installazione è affiancata dal video A Seed for a Song: un sovrapporsi di immagini interrelate, quasi onirico, tra natura e cultura: costumi tradizionali, paesaggi, fiori e frutta, interni domestici.
Della rimozione e della cura ci parlano gli interventi di Romina De Novellis, che 
nella installazione Si tu m’aimes, protèges moi (2020) simula una fattoria collocando a terra del fieno e una vasca abbeveratoio. Il video a parete narra momenti di vita contadina e lo spavento di alcune galline a seguito di una bomba. Successivamente l’artista appare nell’atto di proteggere se stessa e una gallina dai rumori degli aerei e delle esplosioni. Qui l’idea della cura dell’altro si formalizza nella protezione dell’animale e anche nel recupero di credenze contadine secondo cui lo spavento renderebbe meno fertili le galline.
Nella performance installativa Na Cl O (2015-2025), il cui titolo è la formula della candeggina, De Novellis, inginocchiata, immerge gli stracci che all’inizio dell’azione componevano la bandiera bosniaca nella soluzione liquida e con essi pulisce il pavimento.
Allo scompaginarsi della bandiera, sintesi degli accadimenti storici, si accompagna l’atto ripetuto del lavaggio: simbolo invece della loro rimozione; un lavoro che induce un’ulteriore riflessione sulla perdita di memoria storica che sembra caratterizzare il nostro presente.
Ritornare dopo trent’anni a quei fatti drammatici porta con sé il ricordo bruciante delle responsabilità dell’Europa come Istituzione, che non fu in grado di fermare gli eccidi.
Il catalogo della mostra, per le Edizioni Kappabit, ospita oltre ai testi istituzionali dell’assessore alla Cultura di Roma Capitale Massimiliano Smeriglio e della Vicepresidente della Azienda Speciale Palaexpo Ivana Della Portella, della curatrice e delle artiste, una testimonianza di Manuela Gandini sul suo primo viaggio a Sarajevo nel 1994.
Non va infatti dimenticato l’impegno profuso in quella occasione da artisti, scrittori, giornalisti, intellettuali, musicisti che con la loro presenza disegnarono anch’essi spazi di resistenza all’orrore.
Tra questi va ricordata l’iniziativa di Susan Sontag che nel 1993 mise in scena a Saravejo Aspettando Godot e di questa bella pagina è testimone oggi il Museo di arte contemporanea di Sarajevo Ars Aevi. Il progetto visionario, risalente al 1992 nel pieno dell’assedio, dopo diverse fasi che hanno visto la collezione in formazione esposta al Centro Pecci, alla Moderna Galerija di Lubiana, alla Fondazione Querini Stampalia, si è finalmente formalizzato a Sarajevo nel 1999 presso il Centro Skenderija, all’epoca in attesa della costruzione dell’edificio museale progettato da Renzo Piano.
All’appello del 1992 risposero curatori e artisti di fama internazionale, che donarono opere in segno di solidarietà a testimoniare, allora come oggi, possibili forme di resistenza.

Ottobre 2025

* Roma, 12 settembre - 12 ottobre 2025