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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

La Biennale urla nel silenzio

Domenico Scudero
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Ci sono poche chiacchiere, nessuna mondanità superflua, non ci sono divi e starlette, non ci sono folle di curatori, pochi gli artisti, è una biennale del silenzio. Nelle sale vuote si contano in maggior numero gli addetti alla sicurezza, muniti di tesserino e in abiti neri. Piccole compagnie, a maggioranza femminile, guidate da guide preparate allo scopo sciamano in tetri gruppi isolati, sembra quasi di assistere nel corridoio clinico all’annunciata dipartita di un familiare caro. Il clima festoso dei pochi anni che ci separano dal funesto evento della pandemia che ha avviato la nuova epoca spettrale si è oramai estinto nel corpo già provato del sistema dell’arte. Non ci sono i galleristi, non ci sono i saluti, c’è solo una mostra in una città che si ritrova al centro di una ragnatela di rapporti nazionali e internazionali e i cui movimenti, anche culturali, possono determinare lo spostamento del baricentro già in bilico sul pendio della catastrofe, forse inevitabile, voluta. Dopo la pandemia la guerra, una guerra che nessuno diceva di volere ma che invece si preparava nel turbine di un liberalismo antidemocratico che non conosce più umanità, i cui riflessi si imprimono nelle opere che questa biennale ci presenta.
Ci sono alcuni elementi che vanno sottolineati: questo evento è stato realizzato in modo molto morigerato da Christine Tohmé sul tema del presente e della sua possibile evoluzione futura e come dice il titolo Il gatto a tre zampe, si svolgerà in tre eventi annuali di cui questo è il primo e terminerà nel 2027. Probabilmente allungare i termini con una scansione triennale permetterà di riallineare la datazione della biennale che ha perduto un’edizione negli anni pandemici. Come si sa bene Istanbul è la città dei gatti, animali venerati e vezzeggiati. Attraversando il tessuto urbano di questa megalopoli sconfinata ci si rende conto di quanto siano presenti i felini, di tutte le fogge, e di quanto siano benvoluti. La maggior parte dei negozianti appena aperto il proprio spazio mercantile si affretta a posizionare la doppia scodella di cibo e acqua per i gatti. Non è raro vederli in gruppi pigramente appisolati e se intenti a corteggiarsi è costume locale evitare di disturbarli nei loro affari. Ebbene, se questa mostra della biennale richiama il senso felino della città occorre dire che così come il gatto, l’animale che più di ogni altro ha saputo adattarsi alla convivenza con l’uomo senza conoscerne la schiavitù, anche Istanbul ha assunto nel contesto internazionale la stessa postura del suo animale preferito, simbolo della città più importate della Turchia. Se Istanbul è il gatto lo è anche la nazione che rappresenta. La Turchia, notiamo, è ovunque. Come paese islamico ha partecipato al recente summit convocato dall’OIC con Arabia Saudita, Egitto, Siria, Libia, Sudan e altri. Aderisce alla Nato ma partecipa come richiedente ai Brics di Brasile Russia India Cina e Sud Africa. Chiede di entrare nel gruppo dei Brics ma è anche candidata all’adesione EU. Ha l’esercito più grande dopo gli USA nella Nato, e media con la Russia e la Cina per una soluzione nel conflitto Ucraino. Ha il controllo dello sbocco al Mediterraneo della Russia, mantiene rapporti con i paesi medio orientali e ha avuto un ruolo fondamentale nella guerra siriana in cui la Russia era sua antagonista, ma riuscendo a mantenere un controllo della situazione. Con la Russia condivide l’interesse nel Mediterraneo sostenendo paesi come Libia e Tunisia. Negli anni recenti ha avuto un forte sviluppo industriale e demografico ma è un paese sofferente. La Turchia è un gatto a tre zampe, forse a causa di un incidente, ma è il paese chiave dell’equilibrio politico in questo momento storico: la sua appartenenza ai paesi islamici sunniti emplia la sua influenza fino ai confini di Israele, attenua la pressione iraniana sciita in uno dei punti focali delle tensioni internazionalli. Lo sbilanciamento della Turchia in una qualsiasi direzione fra quelle che tuttora mantiene nei suoi propositi porterebbe allo scompiglio, al sopravvanzare di forze da una parte o dall’altra. Tutto ciò è nel sentimento interiore che in una città come Istanbul è fortemente radicato, parla in un silenzio ostinato: pensare all’Impero non fa star bene. Sentire l’improvvisa centralità della propria nazione in questo momento storico così pericoloso rende ansiosi, intristisce. La biennale racconta questo e molte altre tragedie del nostro tempo, tra cui quella che qui ferisce di più, Gaza. Gaza è una ferita aperta, un vuoto umanitario che sta lentamente erodendo quel salutare rapporto con l’Occidente di cui Israele è filiazione, e con cui lentamente negli anni si era costruita una relazione oggi sempre più difficle da mantenere. Ma in tempi in cui si corre sull'orlo di un baratro le cose cambiano in fretta, freneticamente. Il gatto a tre zampe, sebbene ferito, riesce comunque a raccontare il nostro presente. 
Fra le opere in mostra è il più severo lavoro di Mona Benyamin esposto in una sala della più strana fra le location di questa biennale in cui si accede superando un piccolo bazaar. Si tratta di un video in cui si simula un’edizione di news giornalistiche con un dibattito a varie voci e un servizio di cronaca sulla Palestina. Il tutto gestito sempre e solo da anziani inviperiti dall'età e dalla presunzione. Il dibattito che si rappresenta, appena introdotto da un coordinatore, inizia a corrompersi nelle urla dei convenuti ciascuno intento a gridare per evitare di ascoltare gli altri. Il servizio simula poi una sorta di indagine sul campo con interviste, e anche in questo caso i due interlocutori si parlano solo per negarsi sordamente a vicenda. Infine le previsioni del tempo: qui il presentatore dopo aver farfugliato qualcosa inizia a ridere con una risata nevrotica che diventa un pianto ridente mentre alle sue spalle scorrono le immagini delle previsioni del tempo, palazzi distrutti, Gaza annerita, bambini schiacciati, militari con mitra e carri armati, intabarrati nelle loro divise, e ragazzini denutriti che lanciano sassi. Si tratta di un lavoro annichilente. Fa vivere la follia dei nostri tempi grevi racchiusa nel teatro della criminalità della guerra, della distruzione di ogni logica, dell’inumanità che sembra aver travolto tutto e tutti, e contro cui non ci sono più parole, non c’è più niente, ci si sente come dovrà sentirsi una formica schiacciata da un anfibio. Questa è l’opera che forse più di tutte parla del silenzio che prende alla gola, come la risata nevrotica di pianto dell’uomo che presenta la scena delle previsioni del tempo. Sì, questo è il nostro tempo. I criminali governano le nostre vite. Non riconoscono le leggi se non per usarle contro quelli che ritengono fastidiosi. Ma c’è di più: sono tutti vecchi. Sono vecchi dentro, sono vecchi selvaggi che hanno patito mille pene negli anni della democrazia civile che ha impedito loro di scatenare la loro crudele insensata follia e adesso vogliono sopraffare, vogliono distruggere, hanno la sete satrapica della vendetta, che è per loro l’unica giustizia, garantita dalla insanità di antiche lettere che forse hanno brutalmente interpretato. Questa è l’opera che maggiormente rappresenta la stasi di una biennale senza modanità. D’altra parte cosa sarebbero andati a fare lì i critici prezzolati o i curatori mondanizzati? Non c’erano i direttori dei musei – a parte qualche sparuta presenza -, non c’erano i denari del mercato dell’arte e non c’erano i collezionisti, che oramai hanno capito perfettamente che per salvare i loro interessi è molto meglio rifugiarsi nell’oro, le opere come speculazione non hanno al momento grande futuro. Si tratta di una biennale che segna un limite nella trasformazione del sistema dell’arte. Prima di tutto perché piuttosto che una selezione preordinata si tratta qui di una open call, quindi una stortura rispetto ai meccanismi consolidati, ovvero quelli determinati da un collezionismo sostenuto da gallerie che ne finanziano la storicità attraverso contributi e successivi lauti incassi. Nel momento in cui il meccanismo si interrompe ecco, come un cataclisma, il mondo dell’arte da svago svanisce. Perché in questa Biennale non si parla di mercato dell’arte ma del significato dell’arte. Non si parla del valore di vendita di un’opera ma del ruolo storico e politico che l’opera può avere. E questo meccanismo disturba gli stessi patrocinatori dell’arte radicale, in tutte le sue declinazioni, poiché attenti non a quanto si mette in mostra ma al luogo in cui avviene l’evento. La Turchia poteva andar bene nel momento in cui si apparentava con le esigenti strategie di un modello liberista dell’opera d’arte come conglomerato di valore economico, ma è evidente che averne spezzato le modalità può far dire che però non è questa la sede opportuna per farlo, poiché non si tratterebbe di una istituzione maturata in un clima di democrazia. Quindi solo i paesi autodefinitesi democratici possono dire cosa sia arte e dove si debba esporla.
Questa Biennale ci parla del tracollo della nozione di democrazia perché rappresenta la dimostrazione che quello che noi intendiamo con questo termine si è oramai dissolto prima nel dominio medievale delle multinazionali e adesso in quello dei singoli signori del potere economico. Anche se risulta difficile poterlo accettare forse nel nostro “democratico” sistema una mostra simile non si sarebbe mai potuta fare. Basti soltanto accennare al fatto che, inaudito, visitare la biennale sarà a ingresso libero, qualcosa che farà inorridire chi ormai sulla cultura artistica o su ogni altro tipo d'evento culturale ha imposto un dazio, una prenotazione a pagamento via fornitore di servizi e un biglietto solo digitale a ore, a pagamento ma con l’ipocrita scritta che stiamo aiutato l’ambiente perché non stampiamo il biglietto – tacendo che non stampare il biglietto è un risparmio per chi lo vende e un aggravio di impatto energetico perché obbliga a usare delle app di telefonia. Ipocrita Occidente o come Accidenti ti definisci.
La dispersione degli spazi espositivi dislocati in otto sedi costringe a lunghi attraversamenti nella frenetica e densamente popolata vita di Beyoglu, dalla centrale via Istiklal fino alle rive del Bosforo sul cui fronte sono allineate sei sedi. In una di queste è l’opera di Ana Alenso realizzata in relazione alle attività estrattive in aree naturaliste sostenute dal governo venezuelano nei recenti anni della crisi petrolifera. Nella sua istallazione meccanica l’artista si ispira ad un marchingegno, usato dagli estrattori di frodo, che sintetizza le fasi di lavorazione del terreno e il rilascio di sostanze inquinanti prive di controllo e che risultano dannose per la salute di chi ci lavora e per l’ambiente circostante devastato e abbandonato quando la vena estrattiva si esaurisce. In un’ulteriore macchina che simula una cabina di lavoro troviamo i monitor di controllo delle operazioni su cui possono leggersi la qualità delle sostanze in entrata e l’entità di materiale velenoso prodotto dal circuito di lavaggio chimico.
Già dopo poche sale ci si accorge che non sono presenti artisti genericamente occidentali. I pochi, un americano, un paio di canadesi e alcuni europei sono quasi sempre frutto di immigrazioni anche recenti e hanno in comune visioni fortemente politiche e poco interessate alla tecnica in sé. Non è questa una vetrina internazionale di gioielli in bella mostra, manca volutamente la patina e l’edulcorazione. Alcuni fra gli artisti presenti hanno avuto importanti riconoscimenti, come la recente vincitrice del Turner Price, Jasleen Kaur, ma la differenza di sostanza fra le varie proposte si percepisce poco. Colpisce di più la volontaria sottolineatura di un discorso politico o di una sofferta manifestazione esistenziale come nel drammatico lavoro di Selma Selman, giovane artista bosniaca di etnia Rom che ha traslato le attitudini di sopravvivenza acquisite dall'esperienza familiare in età formativa in opere in qualche modo scioccanti, e che ad Istanbul ha portato un mucchio di rifiuti elettronici scarnificati da cui è stato ricavato un piccolo cucchiaino in argento placcato d’oro. Lo strano rapporto casuale e non immediatamente relazionato fra le macchine di Ana Alenso che producono il prezioso metallo e la distruzione degli apparecchi elettronici per ricavarne piccole briciole d’oro in Selma Selman dà il senso della permanenza idolatrale di un semplice composto naturale per la cui natura insolita gli esseri umani producono distruzione, inquinamento, guerre, saccheggi, una storia che sul metallo giallo brillante si ripete senza sosta. Il tema del valore sia oggettuale, comunicativo, comportamentale, è centrale in questa occasione della biennale e lo fa con un taglio che non lascia alcuna speranza. Il male è nella natura umana, e non ci sarà un futuro migliore della storia che abbiamo già vissuta, siamo condannati a ripeterne gli errori e forse con più drammatica energia, crudeltà e dissimulazione.
La presenza mediorientale, piuttosto che impartire solfeggi polemici risulta quasi concettualmente poetica. Ci si aspetterebbe lavori crudi e di biasimo ritroviamo invece opere d’una esistenza fatalista, come nei Diari di Gaza di Sohail Salem realizzato con disegni a biro blu su fogli di carta comune e in cui la fitta trama dei segni confonde i soggetti. Si tratta di una sorta di introspezione realizzata con i materiali a disposizione durante i lunghi mesi d'assedio di Gaza e segnala la visione distopica di un futuro vissuto con partecipata nostalgia, la reclusione sentimentale all'interno di un io geloso della propria sopravvivenza ma coercizzato fra le maglie di poteri oramai ferrei e disumani.
D'altra parte anche nella breve introduzione della curatrice Christine Tohmé si evoca la paradossale teoria di un'arte della sopravvivenza, richiusura nel sé del soggetto, ibridazione con le forme naturali di cui si percepisce la fragilità nell'aggressione permanente di cui è oggetto per scopi di uno sfruttamento economico che non vuole relazionarsi con l'ambiente, con la natura umana. Di più, l'idea che lo sfruttamento del lavoro e dell'ambiente sia divenuto il centro speculare di uno spettacolo che attraverso la tecnologia dell'AI diventa l'immagine di un bello fantasmatico, come un orizzonte falso all'interno del quale la vita ritrova la sua illusoria felicità virtuale. In un mondo corrotto dalla devastazione dello sfruttamento possono leggersi alcune presenze che oppongono il loro rifiuto attraverso tecniche antiche e desuete, rielaborando culture locali per percorsi laboratoriali che appaioni stridenti all'interno di una realtà pienamente digitalizzata, come nel lavoro di Jagdeep Raina, il quale usa il linguaggio delle tessiture delle stuoie del Kashmere per rappresentare il mondo delle sue origini culturali come iconografando la memoria di un passato remoto di cui si auspica la sopravvivenza. Il senso dell'ibridazione dei linguaggi è presente anche nel lavoro di Elif Saydam, il quale costruisce un ambiente di materiali plastici su cui sono stampati i pattern decorativi edotti dalla sua ascendenza turca realizzando una spazialità in cui l'ambiguità del “decorum”, di ciò che rende piacevole l'aspetto formale, viene contrastato dal titolo dell'opera, Hospitality. Allo stesso modo dell'aspetto inconsueto di quei motivi impressi sulle superfici di plastiche che disegnano una sorta di ambiente fruibile, attraversabile, anche il titolo dell'opera offre una lettura duplice poiché attraverso l'etimologia del termine, hostis come ospite ma anche straniero e di conseguenza estraneo come un nemico, l'artista evidenzia la differenza culturale e l'effetto che produce il mixaggio di vari linguaggi che risultano confortevoli o respingenti in relazione al patrimonio culturale di chi ne attraversi l'istallazione.
Se nel lavoro di Jagdeep Raina era anche il senso asincronico dell'attribuzione di una pratica di lavoro femminile usata al maschile, in Karimah Ashadu avviene l'inverso. Il lavoro presentato parla un linguaggio molto maschile ma è una cronistoria al femminile in forma di intervista con voce fuori campo ad alcuni giovani impegnati nel lavoro di corrieri nella pericolosa città di Lagos. Il video Machine Boys ci presenta alcune scene in cui giovani in sella di scalcinate motociclette si esibiscono durante le pause del loro correre per le vie della metropoli africana, su strade rese infide dal traffico e dagli agenti atmosferici. La mortalità di questi guerrieri del traffico è talmente elevata da averne vietato il lavoro e di conseguenza oltre al pericolo di incorrere in gravi incidenti i corrieri devono anche schivare i posti di blocco della polizia per evitare il sequestro del loro mezzo, unico strumento per sostenre i costi della loro esistenza e di quella delle loro famiglie.
Altra presenza interessante è quella di Natasha Tontey che rappresenta bene l'osmosi fra cultura di provenienza, Minahasa in Indonesia, e il contemporaneo digitale. La sua installazione Garden Amidst the Flame è una rappresentazione video delle avventure del suo alter ego Virsay, protagonista di un viaggio all'interno di storie e rituali magici proiettati nel sistema di pensiero e della tecnica contemporanea su questioni di genere, di tradizioni, di culture oppositive contro cui Virsay combatte da guerriera senza macchia. Su un registro abbastanza simile è il lavoro di Kongkee, il quale ispirandosi alla storia del primo imperatore della Cina unificata, Qin Shi Huang, fa rinascere digitalmente l'imperatore in forma cyborg a capo di un regime tirannico permanente. Anche qui le origini locali sono mediate dal sistema digitale per rappresentare simbolicamente il tempo presente, il timore che l'intelligenza umana fortificata dal sistema digitale possa costruire un modello inscalfible e invalicabile di potere terreno. Anche il contributo tecnologico di un'artista europea risulta abbastanza avvincente sotto il profilo dell'interpretazione: Sara Sadik, in Xenon Palace Championship, costruisce un'istallazione iper tecnologica per indagare alcuni aspetti caratteriali della comunità d'immigrati in Francia e preferisce individuarne il carattere maschile, competitivo e performativo, organizzando una sala video interattiva su grande schermo in cui i visitatori possono provare le proprie attitudini in un gioco comportamentale atto a sottolineare alcuni caratteri del patriarcato. Ancora sul problema delle tensioni fra comunità di immigrati il video di Valentin Noujaim, Pacific Club, racconta, attraverso la testimonianza diretta di un protagonista di quegli anni, la storia di un club abusivo ideato e frequentato da giovani immigrati arabi nella Parigi degli anni 80 negli spazi di un garage sotterraneo sotto le architetture della Défence appena inaugurata. Questo spazio nella lettura dell'artista diviene un luogo simbolico di quell'apartheid non manifesto vissuto dagli immigrati nelle grandi città europee. Pacific Club era luogo abusivo, sotterraneo, nascosto sotto la forma olimpica della Défence che segnava la grandeur di quella Parigi che cresceva smodatamente e in cui la forza lavoro che ne costruiva i nuovi confini  era estromessa dalla vita pubblica.
In Dilek Winchester, artista di Istanbul, l'interesse per la ricerca della comunicazione scritta viene trattata attraverso uno studio delle relazioni fra caratteri grafici e significati, anche politici. Il punto di partenza è un lavoro intitolato Abandones Letters basato su un sistema di scrittura denominato Alfabeto di Istanbul e creato nel 1879 da Semsettin Sami, uomo di lettere che in quegli anni tentava di unificare le distorsioni fra alfabeto turco e albanese. La ricerca delle alterazioni grafiche nelle varie miscelazioni fra i differenti alfabeti trasforma i caratteri in oggetti scultorei a cui si accompagnano i suoni realizzati in collaborazione col compositore Ahmetcan Golceer. Ma si tratta di un caso isolato di concettualismo programmatico. Nella maggior parte degli interventi proposti è più ridondante la coniugazione fra un carattere ancestrale e un tratto esistenziale del tempo presente. Nel caso di Ian Davis la distopia dell'attualità è in una rappresentazione pittorica in cui delle piccolissime figure maschili, spesso in divisa o in abiti formali, sono inserite in scenari d'una pittura piatta, da cui emana il senso d'una catastrofe avvenuta o imminente e contro la quale le figure sono in attesa o riunite in probabili riti propiziatori. Una pittura antica è anche in Chen Ching-Yuan il quale coniuga un sentore surreale alla Balthus con tematiche inerenti lo spazio del vivere, minimalizzato come in scene del passato e in cui elementi materici, tronchi, corde e tessuti sono strumenti di sopravvivenza elementare. Ma a parte questi pochi autori la maggior parte delle opere trattano istallazioni complesse. Quella di Duruntina Kastrati è la ricostruzione d'un tipico laboratorio turco all'interno del quale vengono prodotti quegli alimenti dolciari diffusi capillarmente; la gestione pratica del lavoro è attività totalmente femminile e se ne sottolinea il carattere acre e ripetitivo, un'attività amara per la produzione di dolci tanto prelibati. Claudia Pagès Rabal, artista di Barcellona, propone l'installazione Five Defence Towers realizzata con differenti media sul tema delle influenze culturali e sull'uso delle architetture come strumenti di coesione e difesa delle identità culturali evidenziandone l'inutilità in relazione a fenomeni migratori contemporanei. Anche Jasleen Kaur, nata a Glasgow da famiglia Sikh, riflette sulle culture ancestrali ma valutando in terminin critici le modalità attraverso cui vengono inglobate e falsificate all'interno delle società contemporanee. In My Body is a Temple of Gloom ci mostra come la tradizione spirituale, etica, della meditazione yoga, sia diventata un prodotto per il benessere praticato distruggendone l'identità originaria, evidenza di un colonialismo che assorbe le  culture per farne rappresentazioni d'immagini e speculazione.
Anche le relazioni fra natura e cultura sono molto presenti in questa biennale. Lara Saab, artista di Beirut, segue i percorsi evolutivi delle piante. Nel suo Feral Margueys - Inuhuman Intimacies nel corso di sei anni ha indagato la vita delle agavi e la loro evoluzione, lenta ma inesorabile. Sono piante native della regione messicana e sono state importate in Libano come piante ornamentali e spesso usate per delimitare proprietà private, ma hanno poi intrapreso percorsi autonomi, indipendenti. Le piante, la loro intima linfa evolutiva, diventano così il soggetto di studi di un percorso vitale sfuggito al controllo umano. L'istallazione racconta attraverso disegni e vari media tattili, i materiali raccolti in questi anni sul tema della disobbedienza del mondo vegetale nei confronti degli obiettivi di controllo umano. In modalità del tutto differente Khalil Rabah ha lavorato su una istallazione situata nel giardino interno dell'ex Orfanotrofio Francese costruendo un piano di pallet rossi su cui ha ordinato delle fila di rossi bidoni industriali all'interno dei quali sono giovani alberi di ulivi, cedri, noci, destinati a crescere sotto il controllo umano. Simboleggiando la vita delle orfani, la loro costrizione nel funzionamento della struttura educativa e assistenziale, gli alberi sono così impediti di svilupparsi liberamente e necessitano per la loro sussistenza del lavoro di chi li coltiva.
Infine in mostra è anche il tema dell'origine, del senso archetipico della rappresentazione. Lo si vede nell'opera di Abdullah Al Saadi che adotta il simbolo del semplice infradito per costruirne svariati esemplari in pietre raccolte nel deserto arabico, così da sottolineare il rapporto ancestrale e leggendario del cammino nomadico che nella regione arabica sta scomparendo sotto la spinta dell'iper modernità costruita in funzione delle automobili e in cui il rapporto fra uomo e territorio sta esaurendosi. Ma è nel lavoro di Simone Fattal, artista di grande esperienza, che il senso ancestrale e originario dell'opera si ravvisa in tutto il portato testimoniale di quella profonda storia che è anche nelle radici delle culture artistiche orientali e occidentali. Le due sculture di guerrieri esposte, realizzate con una struttura naturale di tronchi di arbusti su cui è plasmata una terracotta bruciata, riesumano le antiche tecniche plastiche quali quelle neolitiche di Ain Ghazal in Giordania e propongono l'urgente bisogno di riconnettere l'attività creativa alle originarie istanze di rappresentazione.

Ottobre 2025