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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Daniela De Dominicis
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Ci sono architetture fortemente iconiche che da sole finiscono per rappresentare una città, un’epoca, un periodo storico. Come non pensare alla torre Eiffel che da struttura effimera si è trasformata nel permanente ed universale simbolo della capitale francese oppure al Guggenheim di Bilbao fin da subito immagine dell’invidiabile quanto sorprendente ripresa di una piccola città economicamente depressa dei Paesi Baschi; o ancora al parigino Centre Pompidou, simbolo della sperimentazione radicale e visionaria di giovani architetti forgiati dalle innovative idee del maggio francese di poco precedenti. Edifici come sculture urbane che si impongono per il fascino delle loro forme prima ancora che per la funzione (Zevi per esempio sosteneva che il Guggenheim di New York firmato da Wright fosse un bell’edificio ma un pessimo museo (1)). Le città però non vivono solo di questo, la quotidianità è scandita da costruzioni su cui la nostra attenzione quasi non si sofferma, cui chiediamo in primis la funzionalità, la durabilità e la capacità di adattarsi alle mutate esigenze, dunque la flessibilità. Tutto ciò viene assolto da uno stuolo di professionisti i cui nomi non assurgono alla notorietà se non presso una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Alcuni di questi tuttavia procedono con competenze tecniche e ricerche formali di alto profilo e meriterebbero senz’altro un’attenta riconsiderazione.
Bene fanno quindi i due istituti italiani deputati alla divulgazione delle ricerche architettoniche – Triennale Milano e MaXXI – a proporre alcuni focus su autori storici meno noti al grande pubblico ma non per questo privi di interesse per le proposte e le sperimentazioni avanzate. Due recenti mostre (2), in particolare, hanno concentrato l’attenzione sul lavoro del milanese Angelo Mangiarotti (3) e dello studio romano di Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti (4). Questi ultimi, già attivi nei Trenta, sono precocemente mancati negli anni Sessanta, rispettivamente a cinquantotto e cinquantasei anni; Mangiarotti invece, di una generazione successiva, ha protratto l’attività per tutto il Novecento, morendo nel 2012 a novantuno anni. In comune questi due studi d’architetti hanno l’aver contribuito alla rinascita del Paese nel periodo della ricostruzione postbellica e quindi alla definizione dell’aspetto dell’Italia contemporanea.
Oltre che per alcune rilevanti costruzioni pubbliche infatti, lo studio Monaco-Luccichenti è intervenuto nelle residenze private che costellano il tessuto urbano della capitale. Microcosmi abitativi per la media e alta borghesia, caratterizzati dai materiali raffinati, proporzioni contenute, attenzione alla funzionalità e arricchiti da interventi decorativi di artisti di fama che ripropongono quella collaborazione tra le arti che aveva caratterizzato la migliore produzione degli anni Trenta. È in quest’epoca infatti che lo studio dei giovanissimi architetti avvia l’attività partecipando a importanti concorsi statali e un minimo di notorietà arriva loro con il secondo premio vinto ex-aequo per il Palazzo dei Ricevimenti e Congressi dell’EUR. Poco dopo, nel 1938, la fortuna di una concreta e ricca committenza si rivela in realtà un boomerang. La villa privata che dà loro modo di evidenziare l’aggiornamento culturale in linea con le contemporanee ricerche razionaliste europee non può essere esibita. Si tratta infatti della villa Petacci, la famiglia dell’amante del Duce la cui presenza imbarazza sia il regime che il mondo cattolico. L’unico edificio a Roma che echeggia le forme puriste di Ville Savoye e villa Tugendhat (5), con i volumi squadrati e le grandi pareti vetrate, resta dunque un tabù e continuerà ad esserlo anche dopo il ‘45 quando la damnatio memoriae si abbatte su tutti coloro che a vario titolo hanno collaborato con il regime, dunque anche sullo studio Monaco-Luccichenti (6). La Villa, costruita a Nord di Roma (7) e non più esistente, è stata utilizzata dall’Opera Nazionale Maternità e Infanzia fino al 1975 quando viene demolita per far posto alla sede dell’ambasciata irachena.
Sulle importanti commesse ottenute alla fine degli anni Cinquanta in vista da XVII Olimpiade – l’aeroporto di Roma (8) e il villaggio olimpico (9) – così come su quelle della sede della Confindustria all’Eur, sugli interventi nel palazzo del Parlamento e sul recupero delle tenute presidenziali (10), pesa ancora una volta il sospetto della prossimità con il potere, nella fattispecie con il partito della Democrazia Cristiana e Giovanni Gronchi, all’epoca presidente della Repubblica, che vale loro l’appellativo di “architetti del Quirinale”. Tutto ciò – unitamente al severo giudizio espresso da Manfredo Tafuri e Paolo Portoghesi che negli anni Sessanta hanno teso a valorizzare quegli architetti più impegnati sul fronte teorico che non sulla concreta progettualità e nel lavoro di cantiere – ha finito per far calare un velo di silenzio su tutta la loro attività. Se ancora all’inizio degli anni Cinquanta lo Studio Monaco-Luccichenti aveva avuto un ruolo di primo piano nella mostra sull’architettura italiana al RIBA di Londra (11), nel decennio successivo verrà rubricato nel sottogenere di “costruttori di palazzine”. Recentemente tuttavia, in parallelo con il revisionismo critico sul ruolo e la figura di Tafuri, si assiste all’operazione inversa ovvero al loro recupero, buoni ultimi dopo la valorizzazione dei coevi Luigi Moretti e Adalberto Libera. La produzione dello Studio è stata analizzata con uno sguardo rasserenato e si è finito per apprezzarne la sperimentazione formale e materica, le numerose palazzine costruite sono ritenute quanto di meglio realizzato nell’Italia del boom nell’edilizia privata. A partire dal ’48 infatti una serie nutrita di abitazioni di cinque, massimo sei piani, per un totale di dieci/dodici unità abitative ha preso corpo soprattutto nel quadrante Nord Est della capitale, nel raffinato quartiere Parioli, zona privilegiata dall’abbiente borghesia romana. Via Archimede, viale Parioli, via di San Valentino, via Ombrone, via San Crescenziano ospitano microcosmi abitativi per piccole comunità residenziali che si muovono, ovviamente, su un registro diverso rispetto ai grandi temi urbanistici del momento articolati sull’ampia scala dei progetti INA-Casa e i Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) avviati con la legge 167/62 (12). Un’attività di nicchia dunque nella quale però i due architetti danno prova di straordinarie abilità progettuali e un interesse per la qualità dei dettagli che coinvolge artisti di fama come Giuseppe Capogrossi, Antonio Corpora, Pietro Consagra, Nino Franchina, Gino Severini, impegnati sia per i pannelli murari, le decorazioni pavimentali che per le cancellate nonché per le maniglie e le lampade.
In queste costruzioni, pur nella totale diversità, si possono individuare elementi ricorrenti: i corpi scala acquistano spesso una valenza plastica, il tetto giardino ospita talvolta i servizi comuni, in altri casi alloggi diversamente orientati. L’ultimo piano infatti sembra sempre animarsi di vita propria, quasi gli edifici volessero aprirsi in quota a soluzioni ulteriori. La pianta non è mai banale articolata com’è in corpi separati oppure in soluzioni a “C”, ad “U”, etc.
Nelle due costruzioni di via del Circo Massimo n. 1 e n. 9 (1952-53) i due blocchi abitativi si sviluppano in orizzontale, scanditi in quella più a Nord dalla sequenza delle finestre a nastro e da un reticolo strutturale a vista nell’altra. Nella prima l’angolo si presenta libero, le coperture spezzate e le superfici animate da pareti in scorcio. Nei quattro prospetti, tutti con soluzioni diverse, i blocchi acquistano vivacità in un gioco di pieni e di vuoti che creano un effetto plastico e dinamico al contempo. I rivestimenti sono in intonaco, mosaico e laterizi.
La mancanza di un lavoro sistematico sulle attività di questo studio è stata recentemente colmata dalla ricerca accurata e meticolosa condotta da Paolo Melis sui materiali d’archivio confluiti al MaXXI per volontà di Edoardo Monaco (13).
Altro protagonista del secondo dopoguerra italiano parimenti rimosso dalla memoria collettiva è Angelo Mangiarotti cui Triennale Milano ha dedicato un approfondimento monografico che ripercorre circa sessanta anni di attività (14). Figura a tutto tondo – scultore, architetto, designer – con una formazione di caratura internazionale che lo vede in contatto negli Stati Uniti – dopo gli studi al Politecnico – con Walter Gropius, Mies van der Rohe, Konrad Wachsmann, Frank Lloyd Wright. È con un allievo di quest’ultimo, Bruno Morassutti, che fonderà lo studio a Milano nel 1955. La ricostruzione di questa città nel secondo dopoguerra vede impegnato Angelo Mangiarotti sul fronte delle infrastrutture – sue le stazioni di Rogoredo e Certosa del passante ferroviario – delle fabbriche – queste in realtà distribuite in tutta l’area lombarda – e degli alloggi, tematica oltremodo cogente in questa specifica fase storica.
Mangiarotti è particolarmente interessato alla sperimentazione dei nuovi materiali (15) e soprattutto dei sistemi prefabbricati con elementi modulari in cemento precompresso che utilizza sia in ambito di costruzioni industriali (16) che abitative. Una modalità progettuale, quella del modulo prefabbricato intercambiabile a combinazione molteplice, da farne un vero e proprio linguaggio costruttivo, un mezzo espressivo adatto a qualsiasi cambio di scala, dalle strutture urbane agli oggetti d’arredo, tutto vincolato alla stessa rigorosa ed essenziale tecnica operativa. Probabilmente, come sostiene Fulvio Irace in catalogo, è stata l’inadeguatezza della critica – negli anni ’60 ancora legata ad un’impostazione crociana – che ha impedito a Mangiarotti, e non solo, di uscire dal settore “industriale e del design” (17), ritenuto una sorta di genere inferiore, in cui è stato finora relegato. Ed in effetti, pur presente – come lo studio Monaco-Luccichenti – alla già citata mostra del RIBA (18) nel 1952 come promessa della ricostruzione italiana, anche questo duo di architetti ha finito per essere pressoché ignorato dalla storiografia, salvo questa recente ancorché tardiva rivalutazione critica.
Tra le prime opere progettate (19) spicca il condominio di via Quadronno 24 a Milano (1956-61), unico nel suo genere. Il complesso si presenta con la forma di due corpi poligonali irregolari e asimmetrici dal perimetro a linea spezzata. Al centro un vano scala funziona da cerniera e permette l’accesso alle due unità immobiliari presenti su ciascuno degli otto piani. Ogni lato dell’articolato perimetro è stato orientato in funzione del sole e della vista sul verde circostante in dialogo con il rivestimento a rampicante previsto fin dall’inizio, un piccolo bosco verticale ante litteram. Ma l’interesse che tutt’oggi esercita questa costruzione è dato non tanto dall’originalità della forma quanto dalla tecnica costruttiva per moduli prefabbricati di vetro e di legno, per un metro di larghezza, che possono essere alternati in molteplici soluzioni combinatorie in funzione delle esigenze di chi vi abita. Stanti le strutture portanti in cemento armato, sia la superficie perimetrale che gli interni sono dunque flessibili e totalmente modificabili: opere aperte che accolgono gli abitanti senza imporre loro nulla, mutevoli e plasmabili a piacimento.
Le poche unità abitative qui esaminate fanno parte di quelle infinite costruzioni che nessun turista fotograferà mai; un’architettura del tutto anonima dunque per indicare la quale è necessario ricorrere al nome della via e al numero civico. Questi immobili sono noti solo ad una parte degli addetti ai lavori, poco si è scritto e soprattutto non nei manuali di Storia dell’architettura. Eppure sono proprio tali costruzioni, molte delle quali ad opera di eccellenti professionisti come si è visto, che costituiscono gli scenari della nostra quotidianità.
Varrebbe la pena averle in maggiore familiarità.

Aprile 2023

1) Il Salomon R. Guggenheim di New York è l’ultima opera di Frank Lloyd Wright, inaugurato poco dopo la morte dell’architetto nel 1959. L’edificio scarta rispetto alle altre costruzioni newyorkesi per la pianta circolare che contraddicono la forma rettilinea degli isolati. Le superfici interne, curvilinee e leggermente inclinate, rendono difficile la disposizione delle opere.
2) Le due mostre cui si fa riferimento sono: Architetture a regola d’arte, a cura di Luca Garofaro, Roma, MaXXI, 7 dicembre - 15 ottobre 2023 (sugli archivi BBPR, Dardi, Monaco Luccichenti, Moretti) e Angelo Mangiarotti: quando le strutture prendono forma, a cura di Fulvio Irace, Triennale Milano, 27 gennaio – 23 aprile 2023.
3) Angelo Mangiarotti (Milano 1921-2012). Architetto, designer e docente internazionale. È chiamato ad insegnare all’Istitute of Design dell’IIT di Chicago, all’Istituto Superiore di Design di Venezia, al Politecnico di Losanna e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Nel 1989 fonda la Mangiarotti & Associates Office a Tokyo. Mette a fuoco diversi procedimenti dei sistemi prefabbricati. Tra i riconoscimenti e premi ottenuti, si segnala il Compasso d’Oro alla carriera ricevuto nel 1994.
4) Amedeo Luccichenti (Isola Liri 1907- NeuIlly-sur-Seine 1963) e Vincenzo Monaco (Roma 1911 -1969). Fondano lo Studio in comune nel 1937 e collaborano per venticinque anni.
5) Villa Savoye (1928-31), costruita da Le Corbusier a Poissy vicino Parigi; villa Tugendhat (1928-30) realizzata da Ludwig Mies van Der Rohe a Brno nella Repubblica Ceca. Leonardo Benevolo li definisce gli esempi più alti del razionalismo europeo.
6) L’attività dello studio Monaco-Luccichenti durante il regime fascista si concretizza anche negli allestimenti per il Padiglione dei minerali ferrosi alla Mostra Autarchica del Minerale italiano al Circo Massimo (novembre 1938-maggio 1939) nonché in diversi progetti e alcune realizzazioni per la città di Zara nella Dalmazia italiana (1941-43).
7) Villa Petacci si trovava al n. 335 di Via della Camilluccia a Roma.
8) L’aeroporto di Roma inaugurato nel 1961 è frutto del lavoro congiunto degli architetti Amedeo Luccichenti- Vincenzo Monaco-Andrea Zavitteri con il contributo tecnico dell’ingegnere Riccardo Morandi.
9) Villaggio olimpico (1958-59) è firmato da Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Luigi Moretti.
10) Lo studio Monaco-Luccichenti interviene nel recupero di tre tenute presidenziali: San Rossore con villa Gombo, villa Rosebery e Castel Porziano.
11) Italian Contemporary Architecture, a cura di Franco Albini ed Enrico Peressutti, RIBA, Londra 24 marzo – 30 aprile
1952.
12) Legge n.167 del 18 aprile 1962 che per i Comuni con più di 50 mila abitanti prevede un “piano delle zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico e popolare”.
13) Paolo Melis, Vincenzo Monaco – Amedeo Luccichenti, Opera completa, Electa, 2018
14) Angelo Mangiarotti: quando le strutture prendono forma, op.cit., Milano 2023.
15) Il deposito della Splügen Bräu a Mestre (1962) è in cemento precompresso; il padiglione alla Fiera del mare a Genova (1963) è in acciaio; il padiglione alla XIV Triennale (1968) è in resina poliuretanica. Cfr. Giulio Barazzetta, Ritratto dell’artista da giovane, in cat. Angelo Mangiarotti, op. cit., Milano 2023, pag. 74.
16) Edifici industriali basati su strutture modulari portanti in cemento armato precompresso: Elmag s.p.s. a Monza (1964), Lema ad Alzate Brianza (1969), Unifor a Turate (1982), Fabbrica tessile a Giussano (1993).
17) Fulvio Irace, Angelo Mangiarotti nel panorama italiano: reiterazione o nuova narrazione?, ibidem, pag.14.
18) Italian Contemporary Architecture, op.cit., Londra 1952.
19) Il grattacielo di via Cantore a Genova (1955), la chiesa Mater Misericordiae, Baranzate, Milano (1956-58), la Casa a tre cilindri di via Gavirate 27 a Milano (1959-62).