Parte II. Sperimentazioni metodologiche per una psicostoria analitica degli spazi urbani
Introduzione
Come facciamo a far parlare la città? Se è vero che “un fantasma si aggira per il mondo globalizzato, per questo nostro mondo divenuto globo, modo insieme finito e illimitato, irrappresentabile con l’ausilio di qualsivoglia mappa: il fantasma dello spazio” (1), evidentemente ciò che dovrebbe comunicarci non arriva davvero alla nostra comprensione, per lo meno non ad un livello cosciente. Cerchiamo allora strategie per far emergere questo “rimosso”, ciò che muove nell'inconscio del nostro “paziente” - la città, appunto - e cerchiamo di rintracciare le logiche e i paradigmi principali con cui si è sviluppata la dimensione metropolitana nella nostra contemporaneità. Stendiamo allora sul lettino psicoanalitico la città e, partendo dalla sua topografia e dall’architettura, caliamoci attraverso i contenuti profondi, spesso anche oscuri, che scorrono nel suo inconscio. Se abbiamo finito per assuefarci e abbiamo normalizzato le dinamiche contraddittorie, spesso assurde, che costituiscono la quotidianità urbana, sarà allora necessaria una sua destrutturazione, dato che è in essa che si consumano tragedie e si producono le dissonanze che caratterizzano il Presente. Partiamo dagli esempi più rappresentativi dai quali identificare paradigmi e chiavi interpretative che poi si sono affermate su scala globale. L’esempio che scegliamo in questo articolo è New York, teatro del progresso e laboratorio di modernità dell’Occidente. In particolare ci soffermeremo sulla fenomenologia delirante che New York mette in atto. Le strategie non dichiarate che qui si sono concepite e sviluppate e gli ideali che hanno preteso di imporsi, utopicamente, sulla realtà e sulla natura rappresentano l'eredità di un modernismo problematico - ma allo stesso tempo imprescindibile - con cui dobbiamo fare ineludibilmente i conti e che dobbiamo cercare di reintegrare (non di cancellare). Incroceremo poi le analisi con altri casi di studio; in questo articolo uno a noi più geograficamente vicino: la città di Roma, da punto di vista inedito: non quello della città storica - il centro - , ma dei territori periferici interpretati secondo una “mitologia” alternativa e autoprodotta, tagliata e indossata specificatamente per le manifestazioni architettoniche che quei territori mettono in atto.
Delirious New York
“Esistere in un mondo interamente fabbricato dall’uomo, e quindi vivere dentro la fantasia”(2)
“Manhattan è la Stele di Rosetta del XX secolo”(3)
Tra il 1890 e il 1940 la città di New York, in particolare Manhattan, è stata il laboratorio in cui una nuova cultura è stata collaudata per poi affermarsi su scala globale. il nuovo stile di vita doveva realizzarsi innanzitutto attraverso una nuova architettura. Rem Koolhaas in Delirious New York ripercorre queste esperienze architettoniche - quelle che individua più emblematiche e più rilevanti alla sua diagnosi - cucendole insieme là dove sembravano sconnesse per rintracciare così le strategie comuni. La sua proposta analitica è esattamente questa interpretazione riconciliata del “fenomeno New York”, un programma che, evidentemente, non è stato dichiarato esplicitamente ma può essere visto come l’agenda politica inconscia che ha guidato lo sviluppo di New York: il Manhattanismo - come lo chiama Koolhaas -. Vivere in questa città ha voluto significare “Esistere in un mondo interamente fabbricato dall’uomo, e quindi vivere dentro la fantasia” (4). Delirious New York è un testo unico e visionario perché approccia la questione architettonica nella sua fenomenologia non con intento documentaristico o storicistico, ma mediante quella che può definirsi una psicoanalisi storica - o una psicostoria analitica - dalle tinte inaspettatamente surrealiste. La storia della città è ripercorsa per “scoprire le tracce mnestiche di una strategia non dichiarata a livello cosciente, rimasta impigliata negli angoli retti del suo stesso tessuto urbano” (5). Koolhaas riconosce come la sintomatologia del delirio sia interamente presente in New York: “stato di alterazione, confusione, agitazione motoria, allucinazioni; profondo turbamento che induce a fare cose assurde e insensate; sovraeccitazione della fantasia”(6). Per andare al cuore della problematica: qual’è allora il grande “rimosso” causa del disturbo e come si è sviluppato? Il delirious, come ci suggerisce l’etimologia, a ben guardare, è un attributo estremamente calzante sul piano urbanistico per questa città: “delirio” nel senso di “uscita imprevista dal seminato”: lira in latino è il solco che si traccia sul terreno per preparare i campi alla semina. Delirare, letteralmente “uscire fuori dai solchi”, in senso figurato è un “oltrepassamento dei limiti imposti”. New York interpreta radicalmente il delirious: con una sicurezza programmatica massimamente rigorosa, da un lato fissa in maniera ossessiva e categorica i propri solchi su tutto il territorio a disposizione (la griglia di Manhattan), dall’altro lato li oltrepassa nell'unica altra direzione possibile: verso l’alto, in misura inedita e iperbolica. La contemporaneità del vincolo scrupoloso e geometrico a terra e il suo massimo superamento che punta innanzitutto verso il cielo - il suo skyline -, è il delirio che rappresenta New York . Ma è interpretabile anche nel senso di moltiplicazione all’infinito che essa mette in atto, paradossalmente, proprio attraverso la “fissazione” urbanistica della scacchiera di Manhattan. In questo ultimo senso dà luogo a quella che Koolhaas definisce “cultura della congestione” . Se poi si somma la tendenza all' orizzontalità e quella alla moltiplicazione, l’esito architettonico appare così inevitabilmente stabilito: il Grattacielo. Queste premesse teoriche si sono concretizzate in contemporanea alle possibilità tecniche necessarie e non a caso sono invenzioni autoctone sempre di Manhattan: è l’ invenzione dell’ascensore (1870) a lanciare l’emancipazione dei piani superiori dal pianterreno anche a scopi commerciali. L'ascensore regala finalmente alla speculazione tutti i piani di un’architettura e finisce per ribaltare la scala valoriale nella loro desiderabilità: a questo punto, più si sale in altezza, più aumenta la desiderabilità dell’unità locativa e più sarà appetibile sul mercato. Nel 1880 viene introdotta una struttura portante in metallo e si può così dare il via definitivo alla moltiplicazione potenzialmente senza limiti dei piani. Il grattacielo è esattamente questa proliferazione della superficie calpestabile in verticale. I suoi livelli, semplicemente giustapposti, possono essere assolutamente indipendenti uno rispetto all’altro. Da questo punto di vista le superfici del grattacielo sono individualismo architettonico compiuto. Il fatto che il piano di sotto è indifferente a ciò che avviene sul piano di sopra permette di liberarsi della ricerca di organicità tra spazi e di disinteressarsi della necessità di stabilire funzioni vincolanti in fase di progettazione. Anche in questo il grattacielo e la griglia sono speculari nelle dinamiche che mettono in atto: si tratta in entrambi di una fissità quadrata che si moltiplica - l’uno per sovrapposizione e l’altra per accostamento orizzontale - al fine di una indeterminazione verso le funzioni future e ciò che potrà accadere. Le sconnessioni tra lotti abitativi - così come, d’altronde, tra singoli isolati - entrano senza alcun problema in conflitto con il fatto che, in effetti, formano un'unica struttura. Il punto di forza è proprio questo: sono esistenze private che, senza funzioni prestabilite, potranno indipendentemente cambiare in base alle necessità del mercato e alle esigenze della lotta del profitto privato.
Per quanto riguarda poi la coniugazione del paradigma-grattacielo, Koolhaas individua i due archetipi che costituiscono i margini della grammatica formale del manhattanismo: l’ago e il globo. La loro è come una fertilizzazione incrociata che darà ibridi sempre nuovi e di successo. L’apparenza architettonica di Manhattan può essere ricondotta a questa dialettica. Koolhaas individua anche i primi esemplari storici di queste due forme: il Latting Observation e la cupola del Crystal Palace, rispettivamente l’ago e il globo. “L’ago è la struttura più sottile e meno voluminosa che individua una posizione all’interno della Griglia. Esso combina il massimo impatto fisico con un minimo dispiego di suolo (...). Il globo è, dal punto di vista geometrico, la forma che racchiude il massimo volume interno entro la minor superficie esterna. Esso ha una indiscriminata capacità di assorbire oggetti, persone, iconografie, simbolismi, e li mette in relazione attraverso il semplice fatto di farli coesistere al proprio interno” (7). La dialettica con cui possiamo sintetizzare l'esperienza architettonica manhattaniana consiste quindi in questa aspirazione dell’ago di valere anche come globo e, viceversa, il cercare del globo di valere come ago: da una parte la capacità dell’ago di attrarre l’attenzione con il minimo impatto a terra, dall’altra la ricettività massima della sfera.
Il Crystal Palace di Manhattan venne eretto per ospitare l’Esposizione Internazionale del 1853 e si proponeva come variante ancora più grande per dimensioni del padiglione di Londra per l’omonima manifestazione. La differenza era però che Manhattan era definita dalla griglia, per cui la massima estensione di un edificio non poteva superare il quadrato dell’isolato. Ecco allora che si impiegò l’elemento della cupola per compiere l’intersezione, di notevoli dimensioni, che collegava una struttura cruciforme tra isolati . Il Latting Observation consisteva invece in una struttura di ferro e legno. Con i suoi 100 metri di altezza può essere considerato il primo grattacielo al mondo. Sul basamento ospitava negozi e locali della fiera. Un ascensore a vapore portava i visitatori sui piani dove erano posti telescopi con cui, per la prima volta, i cittadini di New York potevano prendere visione dall’alto di tutta l’isola e quindi rendersi conto della vastità del loro “regno”.
Remoria, la città invertita
In Remoria (pubblicato nel 2019) Valerio Mattioli sperimenta la dimensione analitica di Koolhaas per un altra città: Roma. Le influenze di Delirious New York si colgono principalmente in due aspetti - anche se impiegate per sintetizzare qualcosa di differente - . Innanzitutto nella strategia di porre al centro la sensibilità verso gli aspetti architettonici al fine di aprirla ai contenuti inconsci che quegli spazi realizzano. Le influenze koolhaasiane si riscontrano poi nelle tinte surrealiste che attraversano tutto il testo, anche se in Remoria le atmosfere si fanno più cripto-religiose e oscure. Sebbene quello di Mattioli non sia un testo di critica architettonica ma riguardi piuttosto quella musicale e delle subculture metropolitane, le caratteristiche fisiche urbane e dell'architettura rimangono la base centrale da cui si fa derivare (e da cui si può interpretare) tutto il resto. Per la sezione “Studio bibliografico” del Macro di Roma, sperimentando una transizione dal mondo dell’editoria alla dimensione visiva, il progetto espositivo Remoria (da febbraio a maggio 2022) ha affrontato l’ aspetto specifico di critica architettonica contenuto nel testo di Mattioli, mettendo al centro del funzionamento espositivo uno pseudo-manifesto architettonico: “Delirious Centocelle”. Se in Delirious New York lo schema originario - la traccia rimossa - era la griglia di Manhattan, nel caso romano a svolgere qualcosa di simile è la circonferenza del GRA , l’autostrada che disegna un cerchio intorno alla parte centrale della città . “Il GRA è un immane ouroboros d’asfalto lungo sessantanove chilometri complessivi a quattro corsie per senso di marcia. È una delle autostrade più trafficate d’Europa, eppure le sue origini restano avvolte nella bruma dell’enigma e del simbolico, dell’occulto e dell’arcano. A dirla tutta, sono origini che appaiono del tutto inspiegabili. (...) Nel 1946 il traffico automobilistico in città era pressoché inesistente (...), c’era appena stata la guerra, il cibo scarseggiava, la disoccupazione dilaga e in giro era pieno di sfollati. (...) E l’Anas progettava sessantanove chilometri d’asfalto riservato al transito esclusivo di autoveicoli a motore? Sul serio: quale era il senso?”(8). L’apparente inutilità al momento della sua progettazione e dell’ inizio dei lavori, fa sembrare il Raccordo Anulare più che una infrastruttura, una specie di elemento totemico orizzontale. Mattioli nota poi come il fatto che l’ingegnere capo del progetto di chiamasse Eugenio Gra, dia all’opera una suggestione arcana, quasi fosse una enorme firma magica o un sigillo. Sprovvisto di una comunicazione esplicita circa la motivazione funzionale - e questa mancanza è ancor più significativa vista la dimensione e la portata dell’infrastruttura - , “per Nicolini (9), il GRA rappresentava un oggetto di immenso fascino (...). Più che un’opera di ingegneria infrastrutturale (...), un'espressione del tardo surrealismo che rimandava alle “macchine celibi” di Marcel Duchamp: un dispositivo definitivamente incompiuto (...), una sorta di giocattolino privo di scopo e, appunto, inutile” (10). Ogni macchina celibe produce però un desiderio, una qualità intensiva tra repulsione e attrazione, quindi tra il dentro e il fuori. Il rapporto che lega la metropoli al desiderio è, d’altronde, una questione problematica. “La metropoli si sforza di raggiungere uno stadio mitico nel quale il mondo sia completamente opera dell’uomo, facendolo coincidere perfettamente con i suoi desideri. La metropoli è una macchina che dà assuefazione, da cui non vi è scampo, a meno che non lo conceda lei stessa” (11). Il fatto è che la sua esistenza è talmente pervasiva e intensa che finisce per darsi per scontata al punto da essere quasi indescrivibile. Non riusciamo a discernere nel rapporto diretto con essa, ecco perché il ricorso alle strategie immaginative si fa necessario per dischiudere la psicodinamica dello spazio urbano, ovvero i suoi meccanismi e i suoi processi sottesi.
In Remoria il GRA viene immaginato come il simbolo che torna a galla dell'eterno rimosso della città: una (non-)città parallela che sarebbe stata se, nel mito della fondazione dell’Urbe, fosse stata fondata da Remo e non da Romolo. Il solco a cerchio del GRA sovverte quello della “città quadrata” di Romolo, ovvero la città ufficiale. Ma il risultato è che “non è tanto una città tonda, quanto una città invertita” (12). Il personaggio di Remo appartiene alla mitologia classica, rimane però figura non approfondita e oscura. La sua ipotetica città appartiene quindi ai what if delle storie alternative ma, come tutte le possibilità, preme per tornare in superficie, come nella vita quotidiana ciò che è rimosso alla coscienza influenza e viene sublimato nelle apparenze. Lo spazio urbano viene allora scoperto mediante un rovesciamento al fine di far emergere il "mondo di sotto” o, da un’altra prospettiva, il ciò-che-sta-fuori: la periferia rispetto al centro. Si investe così lo spazio di una mitologia assolutamente calzante per il caso specifico di Roma; Inoltre questo sviluppo discorsivo riesce a cucire eventi e fenomeni dando sostanza alla materia che tratta. Si colma cioè il vuoto concettuale e storico di cui soffre l’ecosistema periferico, relegato in una percezione solamente all’insegna della problematicità, quindi ad uno stato di crisi economica e socio-culturale più o meno alto. La centralizzazione del margine, tuttavia, non può che essere un atto sovversivo e il suo risultato è appunto una città “invertita” il cui spazio si visualizza esattamente nel negativo di quella ufficiale e esplicita.
Nel progetto realizzato al Macro si sceglie in particolare il quartiere romano di Centocelle, affinché faccia da metafora per tutti gli altri spazi nati con la natura di essere margine, ma anche perché, nonostante il suo essere più o meno margine, rappresenta d'altro canto anche un perno attrattivo ed esercita una certa forza di gravità.
“In gergo tecnico, il surreal-abusivismo è frutto di quella che viene chiamata “ edilizia spontanea”: case costruite senza permesso e senza rispondere ad alcun piano regolatore, spesso dalle stesse persone che poi vi andranno ad abitare. È insomma un tipico caso di edilizia fai-da-te, che si traduce in architetture contorte e perennemente incompiute, sempre aperte all’eventualità di una possibile aggiunta o superfetazione. Le palazzine surreal-abusiviste sembrano davvero cresciute sul nulla dal nulla, come guidate da una mano invisibile che tratteggia nell’aria disegni di forme poco plausibili, refrattarie a qualsiasi principio funzionale” (13). Partendo dall'osservazione del dato architettonico formale - quindi dall’immagine della fisicità dello spazio in questione - si intende riconoscere la sua logica non espressa, appunto la sua mano invisibile autrice di questa dimensione. La sua logica, vedendo il suo risultato formale e topografico, sembra essere una logica delirante: senza funzionalità logica, senza linee guida razionali. Praticamente il contrario di Manhattan, con la griglia che nel 1807 anticipa l’edificazione delle città. Nel caso della città intorno al GRA invece “la pianta degli edifici è un labirinto insensato di stanze giustapposte le une accanto alle altre senza tener conto di alcun disegno d’insieme e i piani si accavallano indifferenti a qualsiasi criterio seriale, ciascuno seguendo il proprio istinto e come rispondendo ad una logica aberrante (cioè ad una non-logica). Se l’ architettura odierna è razionale e quindi utile, nel surreal-abusivismo a dominare è un’apoteosi dell’inutilità che rimanda direttamente alla non-quantificabilità e all’improduttività sgorgante del pozzo nero del subconscio urbano” (14). La sintomatologia di New York che ci restituisce Koolhaas è un delirio di grandezza, l’essersi innalzata a teatro del progresso, messa in scena del progetto moderno carico di significato teleologico. Quella che si cerca di rendere in Delirious Centocelle assume invece delle tinte più oscure e diaboliche fini a se stesse in cui il disagio è dato dal non riuscire a comprendere i motivi della illogicità con cui si è venuta a sviluppare. Quale forza gravitazionale deforma le sue linee e concentra una sull’altra i suoi corpi? Le forme architettoniche e la loro organizzazione nello spazio sono la fonte primaria di innesco delle emozioni, quando entriamo in questi spazi e ci immergiamo in essi - nella dimensione che vuole creare Remoria - perdiamo il senso dell’orientamento. Poiché il perdersi è anche un abbandonarsi, l’invito conclusivo è consegnarci alla volontà di un organismo che apre a qualcosa di fantastico che domina sotterraneamente, piuttosto che la repulsione di tutto quell’ecosistema metropolitano sorto in maniera informale - e spesso anche sconsiderata - verso i margini, ma che d'altra parte rappresenta la maggior parte del territorio delle città e che ospita la maggioranza dei loro abitanti, rappresentandone quindi l’humus culturale e immaginativo fondamentale.
Gennaio 2023
1) Giacomo Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri editore, 2013, Torino, p. 448.
2) Rem Koolhaas, Delirious New York, Electa edizioni, 2021, Milano, p. 8.
3) Ivi, p. 7
4) Ivi, p. 8.
5) Ivi, p. 292.
6) Ivi, p. 295.
7) Ivi, pp. 23 - 24.
8) Valerio Mattioli, Remoria. La città invertita, Edizioni Minimum fax, Roma, 2019, p.15
9) Renato Nicolini era figlio di uno dei principali architetti che pianificarono la “borgata ufficiale” romana del Quarticciolo. Anch’egli architetto, nel 1976 è anche stato assessore alla cultura nella giunta comunale. Ha dato il suo contributo per la realizzazione del film-documentario Sacro GRA, diretto da Gianfranco Rosi, vincitore nel 2013 del Festival del Cinema di Venezia.
10) Valerio Mattioli, op. cit., p. 18.
11) Rem Koolhaas, op. cit., p. 274.
12) Valerio Mattioli, op. cit., p. 23.
13) Valerio Mattioli (realizzato con), Remoria, Delirious Centocelle, Macro, Roma, 2022.
14) Ibidem.
14) Ibidem.