Parte I. Brasilia
Michele Espinoza
Introduzione
La programmazione urbanistica come prospettiva intellettualistica raramente è stata una soluzione ai problemi delle metropoli. Essa è inevitabilmente viziata di utopismo e dimentica la natura concreta e le interazioni nelle città reali. Ma cosa accade se ci si trova a programmare un’intera città, magari addirittura una futura capitale, dal nulla? Sono passati ormai oltre sei decenni dalla sua rapida costruzione e inaugurazione, e sembra ancora che Brasilia resti “sempre uno scenario kafkiano a matrice autoritaria: dai nuclei satelliti i "peones" vengono a lavorare nella capitale, ma non possono abitarvi. Domina senza concorrenti la burocrazia il cui potere è difeso dall’esercito e dalla polizia. Si comprende perché il numero dei suicidi sia altissimo, e così quello dei divorzi. Perché non si può essere felici a Brasilia?” (1) .
L’intento di questo articolo è restituire una Brasilia che si presenti allo sguardo come panorama di rovine di un’utopia, come monumento al modello progettuale astratto; si vogliono sondare gli echi della città come grumo pulsante delle attività cultural-statali moderniste, lo scenario che resta della “Città Radiante”. Brasilia può essere vista, si potrebbe sintetizzare, in ultima istanza, come un esempio plastico, incredibile per dimensioni e portata, di ciò che risulta dalla adozione della ideologia costruttiva come principio ordinatore in sede di pianificazione. Come apparato visuale ci serviremo di alcuni frame di A machine to live in (2020). Il film documenta i frutti della pianificazione modernista brasiliana e restituisce uno scenario efficace dell’abitare oggi in questa Capitale. A machine to live in riesce, cioè, a evidenziare le suggestioni delle sue architetture e delle sue piazze, tra echi futuristi, brutalismo, iconologie egiziane e immaginari lunari da film fantascientifici.
[Fig1]
Avanguardie, premesse paradossali.
Ciò che si realizza a Brasilia ha carattere radicale. Raccoglie insieme ciò che nel mondo si trova a piccole dosi o comunque in forma frammentata. James Holston ha condotto uno studio illuminante partendo da questa prospettiva. Il punto iniziale della ricerca parte proprio dal nesso tra la Capitale brasiliana e il modernismo, in particolare per i suoi contenuti utopici problematici, e in The modernist city (1989) ha realizzato una densa analisi antropologica attraverso l’architettura e urbanistica. “When I began fieldwork in Brasilia in 1980, one of my objectives was to link ethnographic activity with the set of critical attitudes known as modernism” (2) - riflette Holston. Se le avanguardie sono state un movimento di disincanto dalle consuetudini capitaliste occidentali e oppositrici alla società borghese, accomunate dall’intento di distruggerne l’immaginario e sfidare ciò che essa considerava naturale e scontato circa normative e significati sociali; nei campi architettonico-urbanistici, tuttavia, il loro potenziale critico ha, spesso, rafforzato esattamente ciò che sfidano. Le tecniche di shock e le sperimentazioni messe in campo dalle avanguardie nelle opere - frammentazione, giustapposizione, montaggio inatteso - puntavano verso la stimolazione di un pensiero critico, oltre le aspettative razionali “mezzo-fine” della cultura ordinaria. Intendevano così rivolgere l’attenzione verso i principi di costruzione dei significati e, quindi, verso la possibilità di cambiarli. La questione del rapporto causa-effetto per la progettazione di Brasilia risulta declinata piuttosto come una semplice inversione. Nel rapporto tra città e società, ciò che prima era considerato l’elemento passivo, ora è l’agente attivo: se nel loro sviluppo storico le città sono viste come il prodotto delle abitudini delle diverse organizzazioni sociali, in Brasilia è la società a essere pensata nel ruolo passivo rispetto alle sue architetture: “the modernist idea is of an exemplar, or enclave, or beachhead, or blueprint of radiating change with creates a new society on the basis of the value that motivate its design”(3). Ne consegue la convinzione che in sede di pianificazione sia possibile esercitare il controllo dello sviluppo sociale nella città interessata. Se poi questa città è la capitale, allora le sue istanze hanno la pretesa di investire l’intera nazione. I punti cruciali della critica antropologico-architettonica di Holston indicano gli esiti fallimentari di queste errate premesse innanzitutto epistemologiche. “If modernism and anthropology share certain critical intentions to shake the values of Western civilization, what makes their linking problematic is that both types of subversive are largely failures - or at least unfulfilled promises. That modernist architecture and city planning not only failed in their subversive aims, but often strengthened what they challenged will be demonstrated in the case study of Brasilia” (4).
Teniamo però presente che “il termine modernismo sta dilagando sulla scena dell’arte contemporanea globale, auto-citandosi in concetti come modernist utopias oppure come failure of modernism” (5). Da una parte “Il fallimento delle utopie moderniste (...) rischia di diventare un adagio di convenienza che non chiarisce né quale sia il fallimento al quale ci si appella né a quanti tipi di utopia si possa fare opportuno riferimento"(6). Dall’ altra rischiamo di non cogliere le specificità che hanno contraddistinto il contesto brasiliano. “In Brasile (...), il primo approccio modernista può essere visto come la fede nell’unione tra moralità, tecnica ed estetica. L’impulso utopico del modernismo consistette nella convinzione che l’arte e l’architettura fossero attività politiche in grado di migliorare le forme del quotidiano nella popolazione, educandola e riformandola ad un nuovo stile di vita” (7). In definitiva, durante il corso della prima metà del Novecento, ecco che “lo stato delle aspirazioni nazionaliste sorto in seguito alla rivoluzione di Getulio Vargas nel 1930, e ratificato con la proclamazione dell’ Estado Novo nel 1937, trovò nell’architettura la risposta alle proprie esigenze rappresentative oltre che un veicolo straordinario di unificazione politica”(8). Il progetto di Brasilia rappresenta un momento apice, in particolare, del momento costruttivista nelle arti visive e nell’architettura. Tra gli anni ‘50 e i ‘60 si sposò con l’aspirazione del Paese in direzione di una propria “modernità”. In particolare è stato il retaggio costruttivista a segnare la linea di demarcazione. Una dialettica tra il costruire e il decostruire che nei risultati brasiliani sembra essersi condotto verso un ri-composto senso dell’ordine come propria declinazione di quella modernità e di quel Progresso anelato. Tuttavia, “Il senso dell’ordine, che così tanto ha contribuito all’emancipazione del paese, si è (...) dimostrato insufficiente ad affrontare le turbolenze della vita e dei valori che ci sorreggono oggi. Esaurite le utopie di chiarezza è rimasto, pertanto, il paradosso” (9). Ma dobbiamo rilevare che “è, però curioso notare, proprio in seno a questo passato costruttivista, nella coscienza dell’artista brasiliano i paradossi venivano già formandosi” (10).
L’idea dell’edificazione
L’idea di trasferire la Capitale dalla costa al centro, mai abitato, del Paese, si riscontra nei sogni utopici di numerosi visionari fin dal XVIII sec: “Their combined legacy to Brasilia is that of a New World mythology in which the construction of a capital city at the heart of the Central Plateau is the means of launching a great civilization to flourish in a paradise of plenty”(11). Tra questi visionari si inscrive anche Don Bosco, decenni prima della sua costruzione, cosicché la retorica della fondazione della capitale possa essere tinta di una esplicita componente messianica: “On 30 August 1883, the saint dreamed that he was traveling by train across the Andes to Rio de Janeiro in the company of a celestial guide” (12). Ma quella del sacerdote italiano è solo una delle varie profezie. Esse mettono in scena la stessa versione dello stesso tema: Brasilia come figura e come motore civilizzatore. La decisione formalizzata di edificare una nuova capitale al centro del neonato paese indipendente arriva pochi anni dopo: “The idea finally attained legal form in the first Republican Constitution of 1891. Its third article set aside an area of 14,400 square kilometers in the Central Plateau for installation of a future federal capital” (13). Le intenzioni espresse dal legislatore erano duplici: innanzitutto si rispondeva alla necessità di una capitale che non fosse così facilmente vulnerabile agli attacchi navali come lo era Rio, posizionata sulla costa. In secondo luogo l’intenzione era portare il motore dello sviluppo e la colonizzazione all’interno del paese. Solo diversi decenni più tardi, tuttavia, la dirigenza politica avrebbe preso la decisione di dare il via alle aspettative: “in 1955, the idea of Brasilia found full voice in the presidential campaign of Juscelino Kubitschek. He initiated his candidacy with a pledge to build the new capital” (14). Il governo insediato di Kubitschek del 1956 annuncia il via del progetto per la nuova capitale e fissa già la sua inaugurazione: il 21 aprile 1960. Le suggestioni da Nuova Roma dovevano realizzarsi innanzitutto a partire dalle sue forme, investite del compito di incarnare queste simbologie. Holston nota come il concorso nazionale per la selezione del progetto pilota - promosso su insistenza di Oscar Niemeyer, primo progettista scelto da Kubitschek stesso - dichiarasse espressamente che l’attenzione della giuria fosse rivolta in particolare alle forme architettoniche in relazione alla loro capacità di esprimere l’idea di grandezza e di sviluppo della nazione: “The program called for a competition of design ideas and not of organizational details, emphasizing the form most appropriate to express the city’s fundamental character as the Capital of Brazil, to express the greatness of a national wish”(15). Nel 1957 è il progetto di Lucio Costa ad essere scelto. Circa la distribuzione spaziale della città e la sua planimetria, la sua proposta presentava solo schizzi, e fu scelta dalla giuria per la chiarezza e l’eleganza sobria del suo tratto: “It receive highest praise from five of the six members of the jury for “its unity of artistic conception” and for clarity, elegance, and simplicity of his idea for a National Capital” (16) . Lo stile e la concezione di Lucio Costa si inserisce pienamente nello spirito del modernismo brasiliano come lo abbiamo precedentemente delineato. A colpire, evidentemente, fu la sua adesione alla poetica modernista brasiliana, anche se a discapito della serietà dei parametri tecnici e dei piani di fattibilità. Questo approccio è, d’altronde, dichiarato espressamente nel piano progettuale: “Costa begins his statement in epic fashion with an apology for his “unworthiness”. He acknowledges the “sketchy manner”of his presentation and then defends it, unexpectedly, by disclaiming any professional or even personal responsibility for the proposal”(17). Nel preambolo della proposta progettuale si può leggere ad esempio: “I am merely liberating my mind from a possible solution which sprang to it as a complete picture, but one which I had not sought” (18). Questa poetica di spontaneità e di ispirazione artistica minimalista non è solo una brillante dissimulazione di intenti. L’operazione più riuscita è infatti la “cancellazione” storica che così si compie. Ci si pone, cioè, il problema della fondazione della città come se essa non dovesse avere storia. Non collegandosi alla situazione storica del suo Paese, né, tantomeno, alla sua storia dell’architettura o della sua urbanistica, Il Master Plan si configura piuttosto come un mito di fondazione de-storicizzato e divinamente ispirato. La Brasilia presentata da Costa sembra così una Annunciazione. Il mito della fondazione che egli propone è chiaramente appena abbozzato e forse anche ingenuo, se vogliamo. Ma intende rappresentare una suggestione. L’obiettivo, ad ogni modo, è quello di suggerire che la fondazione di una capitale deve essere un evento civilizzatore, cosicché si può giustificare che la geografia che si appresta a civilizzatrice debba essere plasmata attraverso un atto di forza. Lo dichiara espressamente Costa, sempre nel preambolo della sua proposta progettuale: “For this is a deliberate act of possession, the gesture of a pioneers acting in the spirit of their colonial traditions”(19).
[Fig2]
Culture di sfruttamento
Lo slancio della spartizione del terreno “vuoto”, investito della missione civilizzatrice, attraverso il gesto simbolico del solco sul terreno - accennato anche da Costa, come sopra citato -, si inserisce nella tradizione della civiltà occidentale e affiora in vesti rivisitate nel continente americano durante l’età moderna. Può essere interessante rintracciare archetipi e tendenze antiche, ma anche riconoscere le discordanze. Il principale riferimento se si parla di città definite dall’alto - attraverso cioè un progetto sancito una volta per tutte in sede di progettazione circa la futura organizzazione urbana - è New York. Dopo la fase “preistorica” in cui New York è ancora una New Amsterdam, “nel 1807 Simeon deWitt, Gouverneur Morris e John Rutherford ricevono l’incarico di progettare il modello che regolerà l’occupazione “finale e definitiva” di Manhattan. (...) Con questo semplice atto essi definiscono una città di 13 x 156 = 2028 isolati (esclusi intralci topografici)” (20). Rem Koolhaas in Delirious New York riflette come, sia dal punto di vista architettonico-urbanistico sia da quello socio-culturale, la Griglia di Manhattan possa essere considerata, da questo punto di vista, il “più coraggioso atto profetico della civiltà occidentale: la terra che spartisce è vuota; la popolazione che descrive, ipotetica; gli edifici che individua, fantasmi; le attività che concepisce, inesistenti” (21). La Griglia di Manhattan realizza un completo annullamento della natura preesistente sull’isola; inoltre, ha cancellato ogni traccia rimanente degli insediamenti delle popolazioni aborigene, all’epoca ancora presenti. Il solco sul terreno - in questo caso a scacchiera - può essere considerato un'autentica ambizione di assoggettamento del progetto-geometrico sul concreto-esistente. In questo senso “la Griglia è soprattutto una speculazione concettuale. A dispetto della sua neutralità apparente, essa sottende un programma intellettuale per l’isola: nella propria indifferenza alla topografia, a quanto esiste, rivendica la superiorità della costruzione mentale sulla realtà” (22).
Interessante a questo punto considerare anche le differenze tra la città nordamericana e quella sudamericana. Se la Griglia è concepita per assicurare il massimo sfruttamento del proprio suolo - Koolhaas definisce questa tendenza Cultura della congestione -, e, da questo punto di vista, “Manhattan è una polemica utilitaristica”(23), al contrario, allora, Brasilia è un manifesto ideologico. Marco Biraghi, in riferimento a Delirious New York, considera l’elemento profondamente materialista della cultura statunitense stabilendo un rapporto tra la Roma Antica e la New York nell’ottica di Koolhaas: “Manhattan dunque, dietro la facciata di una nuova Amsterdam coloniale, oltre la chimera di una vecchia Venezia modernizzata, mostra la propria realtà di colonia romana modernizzata: Romanum Imperium fuori le colonne d’Ercole e fuori tempo massimo. (...) La cultura romana dell’oggetto - (...) secondo la magistrale lettura che Michel Serres ne ha fornito in Rome, le livre des fondations - è, portata alle estreme conseguenze, la cultura americana, manhattaniana. (...) Gli Americani sono Romani al cubo - e i Manhattaniani all’ennesima potenza” (24).
Se gli statunitensi sono i materialisti dell’astratto, Brasilia sembra essere il manifesto dell’ astrattismo del cemento. Se entrambe si sono investite della missione civilizzatrice, Manhattan è il teatro del Progresso e di una nuova era, Brasilia ha pretese a raggio più limitato: è il motore della modernizzazione e di una nuova epoca nazionale.
Per il caso nordamericano, inoltre, si è messa in atto una mitizzazione del passato a servizio del futuro (25), la capitale brasiliana, invece, sembra essere piuttosto una città de-storicizzata. La sua ricerca estetica dà un senso di sospensione del tempo - tratto che emerge chiaramente dalle inquadrature di A Machine to live in -.
Fissazioni di ruoli, le parti urbane
Il Master Plan è quindi un evento ordinatore che agisce in primo luogo attraverso una geometrizzazione dello spazio. La piana di Brasilia si configurerà come una gerarchizzazione estetizzata delle sue parti. Per organizzare la spazialità urbana Brasilia differenzia le sue componenti in base alle funzioni sociali che esse devono rivestire. La pretesa è delineare l’ordine urbano stabilendo una omologia tra le forme architettonico-spaziali e l’organizzazione socio-funzionale. La struttura della città deriva da un disegno a croce, che poi diventa un aeroplano (o un uccello). Le assi lunghe della croce si incurvano per dare la forma tipica che contraddistingue Brasilia. Nell’ idea di Costa il solcare il terreno a formare una croce rappresenterebbe il segno di appropriazione e l’atto di fondazione di una città in ogni civiltà: “In the first article of the Master Plan, Costa uses the sign of Cross to signify the primordial act of founding not only Brasilia but any cit: the plan “was born of that initial gesture which anyone would make when pointing to a given place, or taking possession of it: the drawing of two axes crossing each other at right angles, in the sign of Cross” (26). L’intenzione è dare legittimità attraverso il potere di simboli sacri. D’altro canto, il richiamo alle topografie antiche non è certo passato inosservato. “Secoli orsono le città nascevano dove gli uomini decidono di fermarsi. Oggi è l’uomo a decidere dove vuole edificare. Recitava un opuscolo governativo stampato in onore della Capitale, nel 1960. Brasilia, fin dai primi attimi della sua fondazione, (...) è il risultato di un’utopia conclusiva, capace di esprimere l’essenza a-storica di un' epopea dai risvolti monumentali. A Brasilia le forme peculiari dell’innovazione tecnologica modernista, e anche quel che motiva la ricerca dell’innovazione, restano (...) creazioni ideologiche” (27).
La questione della fissazione in sede progettuale tra organizzazione urbana e le funzioni delle sue parti vale anche per la progettazione degli edifici principali, il cui compito spetta a Niemeyer. A differenza di Costa, le sue posizioni sono maggiormente esplicite e evitano di eludere i presupposti. I suoi scritti sono spesso illuminanti: “Nel palazzo del Congresso Nazionale mi sono proposto lo scopo di fissare gli elementi plastici secondo le diverse funzioni, dandovi l'importanza relativa richiesta, e trattandole nell’insieme come forme pure ed equilibrate. Quindi una immensa spianata, in contrasto con i due isolati destinati all’amministrazione e agli uffici dei membri, segna la linea orizzontale della composizione, mentre spiccano su di essa gli elementi plastici, che insieme creano con gli altri quel giuoco di forme che costituisce l’essenza stessa dell’architettura e che, (nelle sue “avvertenze agli architetti” delle pagine dell’Esprit Nouveau) Le Corbusier definisce così bene: L’architecture est le jeu savant, correct et magnifique des volumes assemblés sous la Lumière” (28). E ancora, riguardo il Palazzo del Congresso: “Il mio lavoro a Brasilia fu difesa della libertà plastica, della forma libera e creativa, della levità e dell'invenzione architettonica. Nel Palazzo del Congresso m’adeguai alla problematicità della gerarchia funzionale che Le Corbusier apprezzava tanto. E separai con due cupole le aule del Senato e della Camera. Sono gli elementi principali: è là che devono essere risolti i problemi di questo paese. E localizzai la copertura che le supporta a livello della strada, per consentire allo sguardo di chi giunge di scorrere oltre a essa, tra le cupole, sino alla Piazza dei Tre Poteri” (29).
Tornando alla struttura della città ad aeroplano, la “fusoliera” (o la testa dell’uccello) è l' “Asse monumentale” che corrisponde nelle funzioni allo spazio dirigenziale: qui si trovano gli organi governativi federali (tra cui i Palazzo del Congresso sopracitato e i ministeri), ma anche un’ enorme torre televisiva alta 230 metri. Le ali sono invece gli spazi residenziali per i dipendenti statali e dei vari organi burocratici. Si tratta del ceto medio-alto della popolazione e consistente architettonicamente da “super-isolati” pensati per essere idealmente autosufficienti. In essi si trovano infatti i negozi di necessità e aree di sosta.
[Fig3]
Il mito dell’automobile
Brasilia è frutto del mito dell'automobile nel suo periodo apicale. Intende ricercare “la morte della strada” e si impegna per garantire un flusso del traffico che sia il meno interrotto possibile. “That Brasilia’s design derives from CIAM [Congrès Internationaux d’ Architecture Modern] proposals is easily demonstrated. Its most significant manifesto, The Athens Charter, defines the objectives of city planning in terms of four function: “the keys to city planning are to be found in the four functions: housing, work, recreation (during leisure) and traffic” (30). L’idea era quindi quella di una città senza semafori, a scorrimento continuo. Questo suo flusso ininterrotto di automobili avrebbe permesso di eclissare, inoltre, le aggregazioni informali sui marciapiedi. “A circulation cross of speedways determines the organization and shape of the city exactly al Le Corbusier: (...) running north and south, and eat and west, and forming the two great axes of the city, there would be great arterial roads for fast one-way traffic” (31).
“Una città per macchine”, ma, alla fine, Brasilia, che macchina è? - Ho posto questa domanda a Sebastian Alvarez, produttore e co-sceneggiatore di A machine to live in. Di seguito la sua riflessione -. “C’è un momento chiave nel film, quasi a metà della sua durata. È la scena della stazione degli autobus. In quella scena si dice che Brasilia respira la sua classe operaia. Quel centro è come un cuore, la stazione dei bus respira e poi inala la classe operaia. Buona parte dei lavoratori oggi vivono nelle periferie. A vivere nel centro di Brasilia (la parte disegnata nel progetto di Costa) sono rimasti solo i dipendenti degli organi statali e i suoi funzionari. Koolhaas ha sviluppato il concetto per cui la città può essere considerata e sembra un corpo, con le autostrade che fungono da arterie. Ma c’è anche un’altra immagine-metafora, esplicativa in questo senso: l’aereo. Brasile da sopra, se la si vede sorvolandola, si fa essa stessa un aeroplano: è la sagoma che disegna la sua pianta. La parte del pilota, sono le sedi di comando (qui si trovano le strutture governative); nelle assi laterali risiedono invece i dipendenti della burocrazia. Anche dalla sua pianta la città si presenta come una macchina, un sistema di trasporto e di funzionamento. Il Presidente Kubitschek ha visto per la prima volta l'area che poi stabilirono come il sito in cui sarebbe stata innalzata la “sua” capitale sorvolandola. In questo senso è forte la suggestione di immaginarci come l’ombra stessa dell’aereo del Presidente sia divenuta poi Brasilia. Pensiamo poi al fatto che nella sua prima fase, come prevedeva il suo progetto originale, Brasilia era senza semafori, affinchè si potesse guidare continuamente fino alla propria destinazione. I semafori sono stati installati in un secondo momento, quando Brasilia è cresciuta e si è alterato il candore del piano iniziale. Ma la questione di mettere al centro della preoccupazione progettuale l’automobile è un'influenza diretta di Le Corbusier. Niemeyer era vicinissimo a Le Corbusier. L'architettura di Brasilia è piena degli echi delle opere di Le Corbusier. Egli diceva che la casa è una macchina per abitare, “Home is a machine to live in”, suo celebre slogan. Nel film abbiamo posto molta attenzione per rendere questi aspetti e ci siamo soffermati sulle strutture riconducibili a questa ideologia costruttiva. Inizialmente avevamo un altro titolo per il film, volevamo dare risalto all’aspetto “ultraterrestre”, “spaziale”, dell’architettura modernista di Brasilia, desertica e “lunare”, per rendere gli effetti e le sensazioni metropolitane. A machine to live in vuole rimandare anche a queste visioni. Sorge a questo punto un’altra riflessione: quale sarebbe poi la differenza tra Brasilia e una città come, ad esempio, Roma? Chiaramente non dal punto di vista fisico-urbanistico, ma da quello concettuale la questione è interessante. La differenza sta nel concetto di porosità. Il centro in una città come Roma ha una forte forza gravitazionale: è un perno che attrae. Brasilia, il suo centro, è invece pensato per essere respingente. È progettato per smistare traffico. Ti butta fuori. Funziona per disperdere. Non sei portato a fermarti, ma solo a raggiungere il tuo punto di arrivo. Sia perché le strade sono a scorrimento veloce, quindi risulta spesso proprio difficile, sia perché comunque, ti troveresti in spazi amplissimi e desertici”(32).
[Fig4]
Semplificazioni dall’alto, la questione cartografica.
Le ideologie, anche se nate in risposta a grandi esigenze negate in un certo contesto, non solo non sopravvivono alla realtà, ma finiscono per tramutare in istanze repressive, in particolar modo, se imposte in maniera antidemocratica. Il fallimento nasce per il fatto che l'ideazione e la progettazione calate dall’alto - e Brasilia è esattamente questo - non sono compatibili rispetto ai processi di riflessione e di identificazione collettiva, ovvero rispetto alla complessità delle pratiche sociali. James Scott ha compiuto diverse pubblicazioni circa le criticità delle pianificazioni centralizzate di grandi insediamenti umani. Non si tratta di aderire ad un approccio progettuale piuttosto che ad un altro. Il problema originario rimarrebbe, in primo luogo, la scarsità e l'insufficienza degli strumenti interpretativi cui tali approcci progettuali dimostrano nei confronti della realtà. Le idee non riescono a digerire la realtà. D'altronde è molto più facile cambiare le forme che le prassi sociali. Facciamo però un passo indietro. Storicamente, lo stato pre-moderno era ancora semi-cieco: non aveva una mappa dettagliata del suo regno e delle sue risorse. La mappa pre-moderna sembrava piuttosto un affresco. Si è poi passato ad un controllo praticamente totale del territorio e delle sue risorse. Come è stato possibile questo passaggio? Scott argomenta che questo sviluppo è stato un processo di semplificazione. “Nella prima età moderna buona parte dell’arte di governo europea appare altrettanto concentrata alla razionalizzazione e standardizzazione di un geroglifico sociale, così da imporre un formato leggibile e di una sua più agevole gestione” (33). L’incremento esponenziale nella leggibilità si lega a quello del potere centrale e dimostra una dinamica che procede per mezzo della riduzione “cartografica” della realtà. Le cartografie moderne non illustrano la complessità sociale nello spazio, al contrario ricercano la semplicità e la riduzione: la mappa a questo punto funziona rappresentando solo pochi aspetti di cui ha interesse l’osservatore. Non si tratta quindi di uno strumento neutro, al contrario, le mappe trasformano la realtà che osservano, finiscono per plasmare la società e l’ambiente. Una mappa catastale - con cui si indicano gli immobili tassati - non si limita a descrivere un sistema di proprietà, ma lo crea, dando così forza di legge alle proprie categorie. Il fatto è che le visioni sul territorio e sulla società che ne scaturiscono non sono particolarmente originali ed è anche per questo che i progetti di sviluppo “da zero”, in aree che prima non erano sfruttate, difficilmente possono avere esiti che non siano fallimentari, finanche disastrosi: “Il grande balzo in avanti in Cina, la collettivizzazione in Russia, la villaggizzazione forzata in Tanzania, Mozambico ed Etiopia si classificano tra le più grandi tragedie umane del ventesimo secolo”(34). A livello certamente meno drammatico, abbiamo assistito a progetti tanto enormi quanto comunque fallimentari per la fondazione di nuove città dal nulla: Brasilia e Chandigarh hanno tradito le ambizioni e le speranze dei loro abitanti. Qual’è allora la logica che sta dietro i grandi fallimenti degli (utopici) progetti di ingegneria sociale?
J. C. Scott sintetizza la questione indicando quattro gruppi di cause:
1. l’ordinamento della natura e della società in criteri amministrativi. Si tratta della “semplificazione cartografica” sopra considerata.
2. l’Ideologia “ultra-modernista” - come la definisce Scott -: “quella versione forte, persino muscolare, di fiducia nel progresso scientifico e tecnologico, nell’espansione produttiva, nel crescente soddisfacimento dei bisogni umani, nel dominio esercitato sulla natura (compresa quella umana) e, soprattutto, nella progettazione razionale di un ordine sociale commisurato alla comprensione scientifica delle leggi naturali” (35). Il concetto di ultra-modernismo - così delineato - non è da confondersi con la prassi scientifica ma, ed è in questo senso ideologia, come fede acritica verso il Progresso. In quanto fede acritica e non scettica, a ben vedere, è in realtà una posizione a-scientifica. L’ordine razionale si accompagna quasi automaticamente ad un’idea altrettanto forte di pulizia e si traduce in termini innanzitutto estetici e visivi. Si riflette quindi nell’aspetto tipicamente irrigimentato delle città e - si crede - funzionale. Oltre a queste motivazioni culturali-ideologiche si inseriscono le istanze dei capitali privati. Si prediligono grandi forme delle strutture e dei progetti poiché meglio combaciano con i grandi investimenti e i grandi ordini di grandezza nei profitti.
3. Usare i momenti di crisi per realizzare grandi progetti. Le condizioni emergenziali permettono da una parte la delega delle normative favorendo un incremento del potere verso gli organi esecutivi, dall’altra favoriscono con facilità una delegittimazione del modello pre-esistente da sostituire nei confronti dell’opinione pubblica.
4. Una società civile incapace di opporsi ai suoi piani. Momenti di crisi, di conflittualità o depressione economica rendono molto recettiva la società alle nuove configurazioni da impiantare. Nuove configurazioni che altrimenti, in periodi di favorevole benessere e stabilità, non sarebbero accettate. La formula può essersi avviata in tempi precedenti al periodo di crisi, così da avere il terreno già preparato e velocizzare il processo di indirizzo. La logica può altresì essere sintetizzata come segue: l’ideologia ultra-modernista installa prima il desiderio, il potere centrale offre poi gli strumenti per perseguire.
Con queste premesse si tenderà sempre al fallimento. Pianificare un ordine sociale è un atto schematico e si rivela sempre inadeguato a dar vita ad un nuovo ordine sociale. Tende ad ignorare la realtà con tutte le sue pratiche informali che, a ben considerare, sono la maggior parte della vita quotidiana. Questi progetti ingegneristici sono basati su semplificazioni e secondo logiche di esclusione-inclusione. Lo spazio “amministrato” non potrà mai essere quello reale. La sua governabilità si attua solo attraverso la semplificazione. Conoscenza e controllo sono possibili solamente attraverso il restringimento del campo visivo. Si utilizza una visione a tunnel per mettere a fuoco alcuni aspetti tramite l’esclusione di tutti gli altri. L’occhio dei “misuratori” rimane opaco rispetto al sistema sociale su cui si vuole esercitare il governo. Al contrario nelle città antiche “ogni agglomerato, distretto, quartiere rappresenta un caso unico e si configura come un vettore storico di una sommatoria di milioni di progetti e attività. Senz’ altro la loro forma e funzione rispondono a una logica, ma quella logica non deriva da un piano unitario e complessivo” (36).
[Fig5 ]
Aprile 2023
1) AA. VV., L’architettura. Cronache e storia, anno 32, n. 3, Gruppo editoriale Fabbri, 1983, Milano, p. 165.
2) James Holston, The modernist City. An anthropological critique of Brasilia, The University of Chicago Press, Chicago, 1989, p. 5.
3) Ivi, p. 77.
4) Ivi, p. 7.
5) AA. VV. After utopia. A view on brazilian contemporary art, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2010 p. 53.
6) Ibidem.
7) Ibidem.
8) Ibidem.
9) Ivi. p. 67.
10) Ibidem.
11) James Holston, The Modernist City. An Anthropological critique of Brasilia, The University Chicago Press, 1989, Chicago, p. 16.
12) Ibidem.
13) Ivi, p. 17.
14) Ivi, p. 18.
15) Ivi, p. 62.
16) Ivi, p. 63.
17) Ivi p. 64.
18) Ibidem.
19) Ivi, p. 68.
20) Rem Koolhaas, Delirious New York, Electa, 2021, Milano, p. 16.
21) Ibidem.
22) Ivi, p. 17.
23) Ivi, p. 16.
24) Ivi, p. 295.
25) Citiamo in tal senso il testo: E. Porter Belden, New York: Past, Present and Future, Putnam, New York, 1849.
26) James Holston, The modernist City. An anthropological critique of Brasilia, The University of Chicago Press, Chicago, 1989, p. 70.
27) AA. VV. After utopia. A view on brazilian contemporary art, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2010 p. p. 55.
28) Marina Cirinei, Roma - Brasilia. Città sacre tra la fantasia e la ragione, Edilstampa, Roma, 1989, pp. 9 - 10.
29) Ivi, p. 10.
30) James Holston, The modernist City. An anthropological critique of Brasilia, The University of Chicago Press, Chicago, 1989, p. 31.
31) Ivi, p. 32.
32) Intervista mia, realizzata a gennaio 2023.
33) James C. Scott, Lo sguardo dello stato, Elèuthera Editore, Milano, 2019, p. 22.
34) Ivi, p. 23.
35) Ivi, p. 24.
36) Ivi, p. 206.