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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Domenico Scudero
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Il discorso sul cibo nell'arte ha origini molto antiche e prassi fortemente diversificate. Impiegare un'immagine reale del cibo, spesso in riferimenti decorativi, era particolarmente sentito in ambito antico, come spesso lo si rileva anche negli affreschi pompeiani, lo è stato anche in ambito rinascimentale e poi nel Barocco a partire dall'esemplare natura morta di Caravaggio. Nella più recente contemporaneità il tema del cibo è diventato materiale ostensivo di un ready made naturale nella traduzione realista di Spoerri e come elemento relazionale e appropriativo di cui possiamo segnalare la ben nota mostra Untitled 1992 (free) alla 303 Gallery di Tiravanija e gli eventi Imbissy (2016) di John Arnold per Manifesta 11 a Zurigo. Allo stesso modo abbiamo visto crescere l'interesse per un'ecologia del cibo, intendendone un rapporto più corretto fra ambiente e produzione, sostenibilità e simbiosi fra azione umana e agricoltura, come negli eventi realizzati a Torino da Piero Gilardi presso il Parco Arte Vivente (2008), il lavoro di gruppo coordinato da Mark Dion Systema Naturae (2006-2007), gli innesti mutanti di Leone Contini mostrati al Parco Botanico di Palermo (2018) in occasione di Manifesta 12 (1).
Tuttavia sebbene sulla commistione fra alimenti e happenings, fra somministrazione di piatti cucinati e performatività si siano viste numerose varianti esiste anche una nuova connotazione di indagine sul cibo. Questa nuova traiettoria prevede che si indaghi sul cibo attraverso una pratica investigativa che si concentri sulle possibili interazioni fra contesto socio politico e produzione industriale, sui costi e sull'impatto ambientale e sulla possibilità che nel nostro tempo storico si possa coesistere in armonia fra natura e cultura anche attraverso un cibo sano. Con questo si vuole sensibilizzare l'opinione pubblica attraverso la pratica artistica su alcuni fatti rilevanti e non limitabili ad alcune abitudini che si ritengono, a torto, ecologicamente corrette. La prassi oramai consolidata nelle tecniche di comunicazione pubblicitaria di porre in evidenza la supposta integrità biologica degli alimenti o anche la preoccupata attenzione rivolta al packaging e al ridotto impatto ambientale della produzione e della movimentazione delle derrate alimentari solo recentemente è stata più attentamente osservata dagli organismi competenti in materia nelle politiche europee. Il 22 marzo del 2023 la Commissione EU ha pubblicato una proposta di Direttiva sui Green Claims atta a limitare la possibilità che i prodotti in commercio rivendichino false attestazioni di positivo impatto ambientale, risultato questo di fatto quasi impossibile all'interno delle normali prassi produttive e distributive anche delle merci deteriorabili e commestibili (2). L'uso indiscriminato e spesso del tutto arbitrario di etichettature e dizioni ambigue riguardo i prodotti alimentari e il loro confezionamento, spesso manifestamente falsificatorie e ipocritamente millantate come palesi buone intenzioni, nascondono ben altre verità. La consuetudine è ratificata da un martellante quanto inconsistente sbandierare i termini di "bio", "green", "ecologicamente testato", "basso impatto ambientale" anche lì dove, nel migliore dei casi, ad essere a basso impatto ambientale siano solo alcuni elementi dell'insieme.
Di queste tematiche si sono occupati da una quindicina di anni honey & bunny, duo artistico viennese di Sonja Stummerer e Martin Hablesreiter, focalizzandosi su sostenibilità e sistema di produzione del cibo in relazione al consumo, ai costi e alla distribuzione. I risultati delle loro ricerche, che hanno coinvolto numerosi specialisti nel settore, enti istituzionali e Consiglio europeo, sono poi stati pubblicati in un documento rilasciato in forma di catalogo testimoniale (3).
L'origine dell'indagine parte dalla constatazione che si siano perduti i nessi naturali fra cicli naturali e l'immagine del cibo così come normalmente siamo abituati a fruirne; il lavoro di honey & bunny si definisce infatti anche come food design ma il termine più che manifestare una proposta formale di perfezione andrebbe inteso nel significato etimologico di "disegno" in quanto progetto adeguato ad una funzione specifica e originaria il cui segno sia equivalente alla necessità d'essere. In ciò ricordiamo che sulla questione estetica della trasformazione della "cosa in sé" in metafisica soggettiva, non ragionata, aveva trattato Heidegger nelle sue lezioni. L'origine metafisica dell'essente altro da sé era nella perdita del legame fra esser cosa della cosa in sé e la sua traduzione in segno da leggere, quindi in immagine; il leggere, diceva Heidegger, è la capacità di cogliere, ovvero il raccogliere, la cui accezione etimologica risiede nel cogliere e acquisire del contadino che coltiva la terra (4). Attraversando lo spazio commerciale dei grandi distributori noi non raccogliamo, come faceva il contadino, i frutti della terra, ma li osserviamo come immagini. D'altra parte, aggiungiamo, sempre con Heidegger, siamo nell'epoca dell'immagine del mondo. "La 'terra' del contadino heideggeriano è diametricalmente opposta al digitale", scrive Byung-Chul Han; "La 'terra' si sottrae a ogni trasparenza: la sua impenetrabilità è fondamentalmente estranea all'informazione". Se la trasparenza è l'essenza dell'informazione non può nascondere alcuna verità poiché la verità ama celarsi, è velata, e alla sua velatezza deve essere sottratta; "In essa, direbbe Heidegger, non batte alcun cuore. Una pura positività, una pura esteriorità contraddistinguono l'informazione" (5). Questo il lessico heideggeriano "contadino", di cui Sloterdijk cerca di valutare l'attualità nel tratteggiarlo in una sua contemporaneità meccanica; ne sottolinea il cinico evidenziare, a posteriori, di quel ritratto del noi "adesso" celato dietro il "si" heideggeriano, ovvero quel noi "si dice che" che "va cullandosi nell'opinione di condurre una vita piena e autentica mentre si getta senza remore nell'attività mondana"; quel "si" che è una ritorsione e un corrompimento del "sé", un essere impersonale nel quale noi stessi ci ritroviamo mortiferi e cooperiamo, nostro malgrado, con l'industria della mercificazione (6). Milan Kundera aggiungerebbe: siamo gli allegri alleati dei nostri nemici. Il senso esplicito della "distribuzione" cibo partorita dagli anfratti oscuri dell'empireo tossicologico dell'industrializzazione iperliberista è negli inferi, gli spazi non luoghi dei grandi supermercati, camuffati da riluccicanti icone pop; al cui interno noi valutiamo i prodotti "mimando" una consapevole scelta a passi circospetti, ovvero mimetizzandoci, come alienati all'interno di un museo egotico da cui felicemente poter raccattare paccottiglia normografata con allusivi stemmi disciplinatamente ordinati per ampliarne il consumo. La falsificazione del cibo, oltre che alimentare leggende metropolitane che ne attribuiscono tutti i mali e i benefici del mondo, sul luogo comune che "siamo ciò che mangiamo", non ammette rilasci di raziocinio nel domandarsi se e come un cibo sia "bio" e faccia "bene" al pianeta. La risposta palesata da honey & bunny ci può tranquillizzare mentre indaghiamo frastornati fra le etichette di un ipermercato, impegnati a verificare la nostra accondiscendenza all'imperitura narcisistica domanda se siamo o meno ecologicamente corretti; poiché di certo non lo siamo e adesso non lo potremmo essere anche se lo volessimo. Poiché "fabbricare" cibaglie per dieci miliardi di bocche affamate senza usare addittivi, chimica, tecniche, industrie, navi e quanto altro che possa servire per sostenere il fabbisogno giornaliero e trasportarlo impacchettato da una parte all'altra del pianeta non è possibile farlo ecologicamente. I dati parlano chiaro, per chi creda ai dati.
Ma vediamo nel dettaglio i risultati della ricerca sul cibo svolta da honey & bunny.
La corsa alla biogenetica per creare migliori prodotti commestibili genera una drastica diminuzione delle specie e con questa una maggiore esposizione alle infestazioni di quelle selezionate a nostro consumo. La trasformazione delle colture in prodotto industriale genera la necessità di iperproduzioni impossibili da realizzare attraverso piccoli impianti gestiti da piccoli gruppi di persone. L'iperproduzione specialistica conduce inesorabilmente ai necessari spostamenti delle derrate e di conseguenza ai contenitori, siano essi navi o bottiglie in plastica. Maggiore trasporto significa anche massimo rischio di perdite per avarie, danni, costi, e di conseguenza maggior impatto ambientale. Il cibo è il primo e il più importante prodotto industriale, gestito spesso con tecniche all'avanguardia, ma comunque sempre attraverso un'ottica di profitto al minor costo. Per mantenere in vita questa industria globale si consumano bassamente, e senza valutarne le implicazioni, le risorse naturali: i giacimenti acquiferi del pianeta, quelli situati nelle profondità del territorio si avviano all'esaurimento, a causa delle industrie agroalimentari intensive, in particolare nei paesi in cui l'industria agroalimentare è fortemente tecnologica.
Smascherare le false attestazioni bio e green non semplifica le cose poiché ci sarebbe ben poco da fare per risolvere un problema che oggi rimane insolubile; per farlo bisognerebbe rivoluzionare alla base tutto l'impianto produttivo. Così andiamo a comperare le carni nascoste dietro asettici vasetti da collezione e non valutiamo che stiamo pagando per ciò che getteremo via, i contenitori, mentre il cibo, poiché sfruttamento di risorse di tutti, non viene pagato per ciò che effettivamente dovrebbe valere e costare. Ciò determina l'iperconsumo nei paesi ricchi; circa il quaranta per cento di ciò che viene messo in vendita viene sprecato, gettato nei rifiuti e in buona parte con l'indifferenziata, inquinandone la possibilità del suo riuso. Il cibo quindi, secondo honey & bunny deve essere considerato come materia politica e non bene di consumo; materia politica perché il sistema del consumo liberista sposta il peso della scelta al singolo individuo che spesso è condizionato dal costo e dalle aggressioni pubblicitarie che trascendono le problematiche inerenti la produzione e ne affidano la responsabilità etica al consumatore. Anche su ciò è necessaria una trasformazione; aver collocato il cibo nell'orbita del "prodotto" industriale ne ha sottratto l'originaria necessità esistenziale, sollevando l'individuo dall'etica delle scelte originarie e riposizionandolo invece nell'orbita del consumatore edotto dal suo status di cui il cibo è quindi elemento sostanziale. Tuttavia in questo meccanismo anche la produzione di cibo impreziosito da etichette ingannevoli non può prescindere dall'essere situata all'interno di una macchina industriale. Interessante su questo campo la valutazione reale dei costi effettivi per poter avviare una produzione effettivamente sostenibile; in questo termine "sostenibile" rimane chiaro che anche il lavoro deve essere adeguatamente remunerato e di conseguenza il costo della produzione sarà estremamente più alto; il suo valore di scambio sarebbe infatti determinato dalla bassa resa, dal forte impegno necessario e dalla alternanza stagionale. Produrre cibo "bio" non vuol dire che sia realmente "sostenibile". Costruire un immenso campo di serre per una produzione biologica che produca a ciclo continuo tutto l'anno è per il suo impatto ambientale superiore ad una distesa di cemento. Non esiste "bio" industriale, è un controsenso. O un cibo è prodotto industriale o è frutto biologico naturale, sostenibile.
Di fatto trasformare l'industria del cibo in una fattoria espansa, capillare, proiettata verso colture affini al clima e alle risorse del luogo non è affatto impossibile. Richiede però una consapevolezza diffusa, in particolare una nuova disciplina della dieta da cui, compito peraltro non difficile, depennare i cibi maggiormente inquinati e inquinanti; le carni e i prodotti confezionati. Vivere il cibo come materia etica non è un compito estraneo alle facoltà umane. Essere consapevoli e chiedere che si ponga fine all'uso di pesticidi, allo sfruttamento delle risorse naturali, alle colture intensive significa quindi essere informati e non pavidi consumatori. Inseguire il mito del cibo "stellato" confezionato badando alla sua apparenza, colorato artificialmente, condito con miscele chimiche e servito come aulica preziosità è l'antitesi di ciò che possiamo definire biologico. E questo vale anche per la ristorazione pubblica.
Ma veniamo ai dati in dettaglio: l'agricoltura causa il 30% delle emissioni di CO2 e assorbe ben il 70% dell'acqua consumata ogni anno; il 70% delle specie perdute in questi anni sono state causate dalle colture intensive, o per la riconversione di territori, introduzione di specie esogene, inquinamento e desertificazione; circa il 70% delle specie di pesci sono a rischio d'estinzione, a causa della pesca intensiva; in seguito alla continua selezione non naturale negli ultimi cento anni la diversità delle piantagioni coltivate è diminuita del 75% e questo determina una maggiore fragilità agli attacchi parassitari. Come effetto della globalizzazione, inoltre, l'uso indiscriminato di cibo proveniente da paesi esteri causa maggior impatto su territori già impoveriti; ogni cittadino dei paesi ricchi, in pratica, lascia la sua traccia impoverendo quelli più poveri. L'uso dei pesticidi inquina le falde acquifere e nei paesi dove è ancora possibile usarli alcuni prodotti velenosi incidono sulla biodiversità animale; lo spreco alimenta inquinamento e consumo di risorse; in massima parte lo spreco dipende dalla percentuale in spese domestiche, più è basso il coefficiente di spesa per il cibo rispetto al reddito, maggiore è il suo inutilizzo. Nel caso di conduzioni familiari si arriva sino al 42% di quanto comprato; maggiore industrializzazione e distribuzione interregionale conducono ad un ulteriore spreco.
Non va dimenticato anche il lato economico salariale; i lavoratori nel campo agroalimentare sono quelli maggiormente sfruttati, sottoposti a condizioni lavorative a volte inumane, sottopagati e privi di elementari condizioni sanitarie; la delocalizzazione produttiva delle materie prime ha influenzato questi processi ampliandoli. D'altra parte la qualità del cibo a basso costo, prodotto con sistemi industriali e privi di controllo determina nei ceti più poveri malattie, obesità e una aspettativa di vita inferiore alla media. Nei paesi fortemente industrializzati, inoltre, per mantenere in vita alcuni settori dell'agroalimentare colpiti dalla feroce concorrenza e dai prezzi bassi, i governi intervengono con forti sovvenzioni alterando così il mercato, creando assuefazione alle abitudini dei consumatori e dopando la produzione.
Su questo crinale va anche osservato il tratto terminale della catena produttiva, ovvero quello della commercializzazione attraverso i grossi supermercati. Il sistema di mercificazione è costruito attraverso regole di sanificazione, imbellettatura, sterilizzazione, che allo stesso modo allontanano il consumatore dall'origine naturale, lo rendono cliente amorfo all'interno di un sistema di segni in cui il gusto e la sensazione del cibo spariscono fra immagine e suono dietro i vetri di enormi frigoriferi smaglianti come bacheche museali. Sebbene possa apparire il contrario, al supermercato non si trova tutto quello che si cerca; manca esattamente quello che ci serve, la giusta quantità e il giusto prodotto di quel giorno, possiamo però avere il salmone pescato nei mari del nord imbustato in un contenitore che pesa il doppio di ciò che contiene; o il casco di banane avvolto nella plastica che è costata più di quanto siano stati pagati i frutti che offre.
L'indagine si chiude con due apparati, uno sui vantaggi della sostenibilità del cibo e un altro sulle criticità e le avversioni. Produrre una cultura del cibo sostenibile, sostiene natura, salute, dignità e maggiore democrazia. Si dice che il cibo biologico e sostenibile sia più caro, lo è, ma se non ci fossero le sovvenzioni, se calcolassimo le malattie conseguenti alla cattiva alimentazione, ai danni prodotti dal cibo industriale e dalle coltivazioni intensive, siamo sicuri che sarebbe così? Inoltre le strategie di mercato dei grandi distributori colpiscono direttamente le vendite al dettaglio delle piccole produzioni con manovre scorrette come la vendita sottocosto mirata a desertificare la concorrenza; raggiunto questo obiettivo anche i prezzi della grande distribuzione aumentano sotto spinte speculative.
Sul piano più strettamente critico la questione posta in essere da honey & bunny ci pone di fronte ad un dilemma sistemico. Poiché infatti il duo viennese produce un'operazione ma questa rimane vincolata ad un agire e non si riconfigura esclusivamente come immagine, ma come forma di una prassi. Si dirà che la possibilità di un'arte che sia immagine è ampiamente superata nel contesto attuale; non è così per quanto riguarda il concetto di forma. Senza forma non c'è azione; non a caso alle origini della rappresentazione è il senso mimetico del mimo, la movenza. L'azione è una forma in divenire ma confinata nella sua esplicita identità. Quella di huney & bunny, è la "forma" del processo d'indagine? Un'azione che si conclude nella sua documentazione, in questo caso la pubblicazione delle loro ricerche? Non solo, poiché honey & bunny si fanno anche ritrarre in abiti di scena da Ulrike Koeb e Daisuke Akita, fotografi coi quali condividono da quindici anni un percorso d'immagine che non li vede solamente co-autori ma interpreti di foto grottesche. Poiché honey & bunny hanno costruito tutta la loro azione di ricerca artistica in opposizione ad un'idea di immagine, non contro l'immagine, osteggiando piuttosto quella circonvenzione della raffigurazione che la vuole idealizzata come strumento di alta cultura, sia essa in veste antica di quadro, o pure in quella più contemporanea come documento d'azione e comportamento. La prassi di honey & bunny è quindi più opportunamente pragmatica, alla ricerca di un risultato pratico, quindi una teoria che vive la sua conflittualità alla ricerca della conferma in una prassi condivisa. Così li vediamo come marziani esibire grotteschi vassoi di cibaglie tossiche imbavagliate dentro pesanti custodie metalliche, o in abiti da sera brindare elegiacamente sopra le paglie di una stalla, oppure trasformati in astronauti dentro le sterili scaffalature di un supermercato; si tratta di una contro immagine ridondante e aliena dall'essere opera finale, mentre la pratica artistica in questione è riscrivibile all'interno delle azioni di una ecoestetica che va al di là del concetto di arte (7).

Aprile 2023

1) Cfr. Gaia Bindi, Arte, ambiente, ecologia, Postmedia, Milano, 2019.
2) Official Website of European Union, Proposal for a Directive on Green Claims,
(consultato 14/04/2023). Le strategie pubblicitarie del nostro contemporaneo sollecitano costantemente il consumatore sulle proprietà ecologiche dei prodotti attraverso la reiterazione di frasi come "aiuta il pianeta", o "fa bene alla natura" ma attualmente non ci sono limitazioni certificate atte a delimitare l'uso indiscriminato di simili diciture o le attestazioni che nascondano l'intero iter produttivo rilevandone la supposta ecologia di singole parti.
3) Sonja Stummerer e Martin Hablesreiter, Food futures. Sustainable food systems, Joint Research Centre / European Commission, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2022. Pdf della pubblicazione: https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/handle/JRC130870
4) Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, ed. it. Ugo Mursia Editore, Milano, 2014 (ed. or. Einführung in die Metaphysik, 1935), pag. 133.
5) Byuong-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, trad. it. Nottetempo, Milano, 2015 (ed. or. Im Schwarm. Ansichten des Digitalen, MSB Matthes & Seitz, Berlin, 2013), pagg. 55-56.
6) Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, trad. it. Raffaello Cortina editore, Milano, 2013 (I ed. it. Garzanti, Milano, 1992) (ed. it. Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp Verlag, Berlin, 1983), pagg 123 - 135.
7) Cfr. Rasheed Araeen, Ecoaesthetics: Art beyond Art, Third Text, London, 2010.