Quando gli immobili diventano dinamici
Daniela De Dominicis
È stato lo studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro (1)– universalmente famoso dopo il recupero dell’High Line di New York nel 2009 – a curare la mostra Restless Architetcture presso il museo MAXXI di Roma (2). Il titolo della rassegna, tradotto in italiano con Architettura instabile, potrebbe suggerire qualcosa di precario e di squilibrato, concetti che non sembrano appartenere alla definizione inglese di restless dalla quale emerge invece un’allusione al movimento, al dinamismo, alla trasformazione vitale.
In effetti, poiché il duo Diller Scofidio ha sempre concepito la propria produzione come qualcosa dai contorni indefiniti, aperti all’esterno e alla socialità (3), un focus sull’architettura dinamica è perfettamente in linea con i loro interessi. E la prima domanda che si pongono i curatori è perché in un mondo in cui tutto si trasforma continuamente, l’architettura dovrebbe restare ferma. Un’idea, questa, che mina alla base il principio primo del trattato vitruviano fondativo del costruire: la firmitas ovvero la stabilità, la capacità che un edificio ha di resistere nel tempo.
Motivata dalla volontà di “liberarsi dalle catene della stasi” l’architettura qui presa in esame viene organizzata in quattro sezioni: Mobile, Adattiva, Azionabile ed Ecodinamica, con 26 progetti analizzati. Per rendere scenografica e articolata la galleria KME del museo che ospita la rassegna, coerentemente con il tema preso in esame, gli architetti hanno introdotto delle tende che si azionano autonomamente ad isolare, quando necessario, le aree di proiezione di filmati storico documentari.
Mobile
Il primo lavoro che si incontra è Instant City (1970) del giovane Peter Cook del collettivo Archigram.
L’operare di questi architetti britannici si colloca negli anni dei grandi insediamenti residenziali, quelli teorizzati dal Team X del 1954 (4). Fabbricati enormi realizzati in cemento armato, figli dell’urgenza abitativa post bellica che trovano sponda nelle ultime teorie di Le Corbusier, quelle delle unité d’habitation e del béton brut. Complessi teoricamente autosufficienti, edificati velocemente grazie alle modalità costruttive fatte di economici pannelli prefabbricati. Fino alla fine degli anni Settanta ne sono sorti ovunque (5), ma l’alta concentrazione umana fatta di una compagine sociale disagiata, spesso non sostenuta né da basilari servizi né da adeguati collegamenti, ha fatto sì che questi complessi si siano trasformati rapidamente in ghetti invivibili tant’è che in qualche caso le amministrazioni urbane hanno preferito demolirli. Fa ancora discutere la scomparsa a Londra dell’insediamento popolare del Robin Hood Gardens (6) progettato da Alison e Peter Smithson, così come, in tempi più recenti, l’abbattimento tutt’ora in corso delle Vele (7), gli alloggi sociali a forma triangolare di Franz Di Salvo nella zona Est di Napoli. Secondo recenti studi (8) il 10% delle architetture brutaliste è a rischio demolizione e forse è a causa di questo che ha preso vita parallelamente un movimento internazionale per promuoverne la valorizzazione e il mantenimento in essere.
È pur vero che, in epoca di esplosione demografica preoccupante, di diffusa consapevolezza circa la necessità di ottimizzare le risorse energetiche e spaziali, di attenzione per l’uso di materiali sostenibili e reversibili (9), l’architettura brutalista, caratterizzata da massicce murature di cemento armato, sembra confliggere con le attuali sensibilità, presentandosi come una sorta di ingombrante pachiderma da mantenere in vita solo perché parte della nostra storia recente. Ma negli anni Sessanta questo era l’orientamento architettonico dominante ed è in totale controtendenza dunque che gli Archigram hanno ipotizzato alloggi e insediamenti urbani temporanei, città mobili, strumentazioni portatili… Non è un caso dunque che la mostra li presenti come un precedente fondativo. Ed in effetti il concetto di architettura effimera ha inizio con loro, i sei ragazzi (10) visionari che nel 1961 – in un’età compresa tra i 24 e i 34 anni – danno vita a Londra al più innovativo e prolifico gruppo sperimentale di ricerca architettonica, gli Archigram appunto (11). Le loro visioni futuristiche, utopiche e immaginifiche, recepite dalla critica coeva come un esercizio di pura fantasia, hanno finito in alcuni casi per trovare corrispondenza in innovazioni successive nel campo del design, dell’urbanistica, dell’abitare… Nel corso del tempo le loro proposte sono state quindi rilette in modo diverso, non più come irrealizzabili chimere bensì sorprendenti anticipazioni di esigenze future. Ogni epoca finisce per scoprire il suo Archigram in funzione delle corrispondenze con l’attualità che si riescono a individuare nei diversi progetti del gruppo.
Instant City viene pensata come un aggregato mobile che – utilizzando camion, palloni aerostatici, dirigibili… – plana in un piccolo insediamento qualsiasi con la ricchezza delle sue strumentazioni, informazioni, spettacoli, materiali, risorse… e lo trasforma temporaneamente in una vivace e animata città: una sorta di società iperconnessa ante litteram. Le proposte del gruppo oscillano dai macro progetti come Instant e Plug City (una megastruttura fissa quest’ultima, alla quale agganciare unità d’abitazione mobili) alle micro cellule abitative contenibili in uno zaino e gonfiabili all’occorrenza (living pod, capsule e cushicle). L’ingegnoso Homeless Vehicle (1988) di Krzystof Wodiczko – spartano ma funzionale carrello abitabile (12) per i senzatetto, qui presente in prototipo – non è altro che la concretizzazione meno tecnologica della cushicle (1966) di Michael Webb.
In questa prima sezione dedicata alla mobilità viene proposta una riflessione sugli alloggi di emergenza per ragioni di guerra o climatiche ma si affrontano anche casi in cui si è reso necessario spostare edifici per sopraggiunte necessità. Interessante il filmato che documenta le migliaia di abitazioni demolite o trasferite con avanzate tecniche ingegneristiche per lasciar posto alle autostrade californiane oppure il filmato che ripropone la straordinaria impresa per salvare i due templi nubiani di Abu Simbel (1960-66) che la diga Nasser avrebbe sommerso.
Adattiva e Azionabile
Tra le regole che hanno guidato l’architettura moderna vi è quella del binomio indissolubile di forma e funzione che secondo i curatori ha finito per rivelarsi in realtà un limite, impedendo alle costruzioni di adattarsi a successive diverse esigenze. Uno degli emblemi del modernismo, la Nakagin Capsule Tower (1970) a Tokyo di Kisho Kurokawa, con le sue 140 cellule abitative di scarsi 10mq ciascuna, ha visto declinare nell’arco di cinquant’anni la sua funzionalità e nel 2022 è stata smantellata proprio perché riconvertirla era impraticabile.
Affrancarsi dai vincoli della progettazione iniziale è possibile solo prevedendo una intercambiabilità delle parti per contenerne l’usura e riconfigurarne le modalità d’uso. Tra gli esempi proposti vi è The Shed, il centro d’arte polivalente (teatro, sala concerti, spazi espositivi, ambienti per eventi e performance…) che i curatori della rassegna hanno firmato nel 2019 ad Hudson Yards a Manhattan, con ambienti flessibili e un guscio telescopico a coprire la piazza antistante e ricompattabile all’occorrenza. Sempre in questa sezione, di grande fascino è l’idea del nipponico Gary Chang di una Suitcase House, in cui 32 mq di casa possono generare ben 24 diversi ambienti grazie a pannelli scorrevoli, ripiegabili, comprimibili: una possibile risposta ai superaffollati insediamenti giapponesi.
Ecodinamica
Le novità tecnologiche – qui raggruppate nell’ultimo segmento della mostra, quello sulle costruzioni ecodinamiche – aprono di volta in volta prospettive inedite per l’architettura; ma se la villa Girasole realizzata nel 1935 da Angelo Invernizzi (Marcellise, Verona), che ruota su sé stessa a rincorrere la luce, appare oggi un marchingegno farraginoso non duplicabile, le soluzioni di alta ingegneria messe in atto per la piazza di Medina in Arabia Saudita hanno reso vivibili aree dalle condizioni climatiche difficili. Battuta per la maggior parte dell’anno da una temperatura che supera i 40 gradi, la piazza del profeta è oggi tranquillamente accessibile dopo l’installazione di 250 “ombrelli” nel 2010. Realizzati dallo studio tedesco SL Rasch GmbH Special & Light weight Structures fondato nel 1991 a Stoccarda e specializzato nelle costruzioni leggere, il gruppo prende le mosse dalle ricerche di Frei Otto, il padre delle tensostrutture, presso il quale il fondatore Mahmoud Bodo Rasch si è formato. Ogni ombrello è alto 20 metri, pesa 45 tonnellate e copre una superficie di 625 mq sufficiente a riparare 800 fedeli. Una membrana di teflon protegge dal sole e resiste al vento di oltre 150 km/h mentre un sistema centralizzato ne controlla la climatizzazione nonché l’apertura e la chiusura con sofisticati meccanismi.
Le sfide lanciate da queste condizioni estreme, la necessità di far fronte ai terremoti, agli uragani, alle alluvioni, impegnano le ricerche architettoniche sul versante della flessibilità e della sostenibilità. Tra le indicazioni più interessanti emerse recentemente, anche nella prospettiva del cambiamento climatico, vi è lo sfruttamento della superficie marina guardata ormai come area edificabile. Tra gli esempi paradigmatici, presente in mostra, c’è la scuola galleggiante creata a Lagos nel 2013. Si tratta della Makoko Floating School (MFS I) ideata dallo studio Nlé con base a Rotterdam fondato dall’architetto nigeriano Kunlé Adeyemi. In questi ambienti galleggianti, fatti di moduli prefabbricati in legno e bambù dalla semplice forma a doppia falda come le capanne primitive, studiano ogni giorno cento studenti sottratti al degrado del quartiere Makoko, la baraccopoli costruita sull’acqua alla periferia di Lagos. Un prototipo, questo della scuola galleggiante, che ha trovato subito amplificazione alla Biennale di Venezia nel 2016 (con MFS II) e nella piattaforma Cosmopolis lanciata nello stesso anno dal Centre Pompidou per la condivisione delle sperimentazioni architettoniche. Altre comunità acquatiche ne hanno duplicato l’esperimento: Bruges con MFS III e Chengdu sulle acque del lago Jincheng in Cina con MFS IIIx3 (2018). In quest’ultimo complesso, oltre le aule della scuola, con la stessa tecnica sono stati realizzati una sala da concerto e un centro informativo.
Le costruzioni pensate da Adeyemi si alzano e si abbassato al ritmo delle maree e allora torna in mente la domanda di Elizabeth Diller: perché in un mondo dove tutto si muove, l’architettura dovrebbe rimanere ferma? Forse è proprio nell’assecondare il ritmo della natura che si può trovare la direzione per vivere in armonia con il pianeta.
Aprile 2025
1) Elizabeth Diller (1954) e Ricardo Scofidio (1935-2025) hanno fondato l’omonimo studio di architettura a New York nel 1981. Charles Renfro (1964) vi si è associato nel 2004.
2) Diller Scofidio + Renfro (a cura di), Architettura instabile/Restless Architecture, MaXXI, Roma, 25 ottobre 2024 – 16 marzo 2025.
3) L’intervento che esemplifica in modo più eclatante ed estremo la poetica dello studio Diller Scofidio è Blur Building, il padiglione svizzero all’Expo del 2002 sul lago di Neuchâtel costituito unicamente di una densa nebbia ottenuta nebulizzando l’acqua del lago.
4) Gli architetti del Team X – George Candilis, Jacob Bakema, Aldo Van Eyck, Alison e Peter Smithson cui si aggiungono Jerzy Soltan, Josep Antoni Coderch, Giancarlo De Carlo – sono i fondatori della tendenza brutalista che ha preso vita nell’ambito dei congressi del CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) nel 1954 e ne costituisce il suo superamento. Teorico del brutalismo è Reyner Banham che scrive “The New Brutalism”, The Architectural Review, n. 118, dicembre 1955; The New Brutalism: Ethic or Aesthetic?, Architectural Press, 1966.
5) Roma (Vigne Nuove, Laurentino 38, Corviale), Napoli (Le Vele), Germania Est (le famose plattenbauten), Londra (Barbican, Robin Hood Gardens), Unione Sovietica (le ubiquitarie chruščëcke), Parigi (gli insediamenti intensivi delle banlieu), Stati uniti (Pruitt Igoe a Saint Louis).
6) Robin Hood Gardens era un complesso di abitazioni sociali costruito a Londra tra il 1968 e il 1972 dagli architetti Alison e Peter Smithson nel quartiere di Poplar, nell’East End. Nel 2008 la Greater London Authority ne ha deciso la demolizione iniziata nove anni dopo, nel 2017.
7) Le Vele sono un complesso abitativo realizzato a Napoli tra il 1962 e il ’75 su progetto di Franz Di Salvo. Dei sette blocchi edificati, quattro sono stati abbattuti.
8) Dopo il convegno Brutalism World svoltosi a Berlino nel 2012, le più accurate ricerche su questa corrente architettonica sono condotte dalla Wüstenrot Foundation di Berlino e dal DAM di Francoforte.
9) Solo L’ENSA Eco (l’Ecole nationale supérieure d’architecture) in Francia ha 200 insegnamenti dedicati alla transizione ecologica.
10) Si tratta di Peter Cook, Warren Chalk, Ron Herron, Michael Webb, David Greene e Dennis Crompton.
11) Il nome del gruppo Archigram deriva dalla crasi di architettura e telegramma, poiché la loro omonima rivista introduce una modalità comunicativa veloce ispirata a quelle dei telegrammi.
12) L’Homeless Vehicle (1988) di Krzystof Wodiczko, è fatto di alluminio, acciaio e tela impermeabile. Finanziato dalla comunità dei senzatetto di Lower Manhattan è pensato per sensibilizzare l’opinione pubblica al problema della povertà.