La 19.Mostra Internazionale di Architettura – Venezia 2025
Daniela De Dominicis
Come sostiene Carlo Ratti, curatore della diciannovesima edizione della Biennale, la mostra si può visitare con quattro diverse modalità: in 5 minuti come i protagonisti di Bande à Part il film di Jean Luc Godard che, correndo attraverso tutte le sale del Louvre, ne escono in meno di 10 e in tal caso della rassegna veneziana si arriverà a trattenere soltanto il titolo; in 50 limitandosi a mettere a fuoco una manciata di progetti; in 5 ore con cui si possono cogliere le linee essenziali dell’esposizione; oppure in 5 giorni attraverso i quali acquisire una conoscenza sufficientemente approfondita di tutte le tematiche affrontate.
Qualsiasi sia però il modo prescelto, l’idea di fondo che se ne evince è sostanzialmente una: l’architettura, così come l’abbiamo conosciuta finora, non esiste più, si è trasformata in qualcos’altro. Strumento primigenio di cui l’uomo si è dotato per sopravvivere nel mondo alla ricerca di riparo e protezione, l’architettura ha visto in tempi recenti il suo campo di indagine estendersi a dismisura ad includere discipline diverse, e ha finito per perdere i suoi confini disciplinari e le sue finalità. Anche il Leone d’oro alla Carriera sottolinea questo cambiamento di coordinate visto che è stato attribuito alla filosofa statunitense Donna Haraway (1) proprio per l’approccio multidisciplinare con cui indaga il superamento dell’antropocentrismo e prevede l’avvento di una nuova epoca caratterizzata dalla mescolanza e dall’interrelazione tra l’uomo e tutte le altre forme di vita che condividono il pianeta.
La Biennale 2025 affronta gli urgenti problemi della terra in una sorta di brain storming con 750 partecipanti dalle formazioni totalmente diverse. Gli architetti sono solo una minima parte delle presenze, vi si registra per lo più il contributo di matematici, scienziati, filosofi, artisti, agricoltori, cuochi, stilisti, …: 300 i focus tematici cui si aggiunge il contributo di 66 padiglioni nazionali, due in più rispetto all’edizione precedente (2).
Il titolo scelto dal curatore è Intelligens: Natural. Artificial. Collective. Il termine Intelligens è un neologismo che nel suffisso – evidenziato da una sottolineatura – fa riferimento alla gens latina intesa come gruppo umano coeso da un legame di sangue e di destino, ma la parola nella sua interezza evoca il suono del termine inglese intelligence (intelligenza) che però si scrive diversamente, un’intelligenza variamente declinata come si evince dai tre aggettivi che seguono. Dopo una breve introduzione, ad ognuno di essi corrisponde in sequenza una sezione della mostra cui si aggiunge l’ultimo segmento, Out/Fuori, che presenta ricerche oltre la terra, quelle relative agli oceani, ad altri pianeti, al cosmo.
La modalità curatoriale ha voluto sperimentare un’ organizzazione aperta, preceduta da Space for Ideas, una piattaforma intergenerazionale di confronto senza confini e senza gerarchie, affiancata dalla pubblicazione di un manifesto sull’architettura (3) per proseguire, durante la mostra, con un programma pubblico di seminari e conferenze (Gens); l’idea è quella di creare un confronto su larga scala dando voce a coloro che, attraverso sperimentazioni, intuizioni, indagini, possono indicare possibili percorsi di adattamento all’ambiente e di gestione della realtà che ci troviamo a vivere. In effetti la parola d’ordine della diciannovesima Biennale è adattamento, un concetto che intende superare quello di mitigazione ovvero il tentativo fin qui messo in atto di contenere e contrastare i danni ecologici attesi, l’emergenza non è più temuta, è in corso, ed è perciò necessario individuare strategie per conviverci.
La rassegna prende avvio alle Corderie dell’Arsenale, quest’anno sede unica della mostra internazionale visto che il padiglione centrale ai Giardini è chiuso per restauri.
Intro
Quattro lavori svolgono il ruolo di ouverture a delineare motivi che poi riemergeranno nell’esposizione. Nell’atrio il film Architecton (4) di Victor Kossakovsky (2024) ci introduce alla vita dei materiali da costruzione: la fase estrattiva, quella di trasformazione, fino al loro diventare per le ragioni più diverse (terremoti, bombardamenti, dismissioni) dei rifiuti, dolente tema del contemporaneo. Una poetica riflessione sulla permanenza e la dissoluzione delle azioni umane sulla terra e sulla sostenibilità di questo agire.
L’ambiente buio che segue, ci invita a misurarci invece con l’emergenza climatica ormai fuori controllo con temperature medie oltre l’obiettivo fissato dagli accordi di Parigi di 1,5°C. L’ installazione Terms and Conditions (del team Transsolar, Bilge Kobas, Daniel A. Barber, Sonia Seneviratne) propone infatti l’esperienza fisica di una zona buia e surriscaldata: grandi ventilatori emettono un’aria caldissima che in realtà è quella di risulta dal raffrescamento degli ambienti successivi; questo lavoro convive con le grandi vasche d’acqua che ripropongono la forma dell’abusato terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto (The Third Paradise Perspective, Fondazione Pistoletto Cittadellarte), installazione che qui, nel buio e con l’aria dei condizionatori ad incresparne la superficie, acquista la valenza inquietante di un mare ostile; il sollievo che si prova uscendo da quest’area è davvero notevole ed è chiaro quali siano i termini e le condizioni per usufruire dei nostri interni climatizzati. La sovrapposizione di blocchetti di tufo, The Other Side of the Hill (Beatriz Colomina, Roberto Kolter, Patricia Urquiola, Geoffrey West, Mark Wingley) organizzata in forma di collina che ci ostacola il percorso, intende visualizzare la crescita attesa della popolazione mondiale destinata, in qualche decennio, a raggiungere i 10 miliardi per poi forse, altrettanto rapidamente, diminuire. Sul verso della struttura l’attenzione si sposta sulle aggregazioni di microbi, qui riproposte come in un laboratorio, che analogamente devono misurarsi con risorse limitate a loro disposizione; le modalità collaborative con le quali questi ultimi risolvono la loro convivenza potrebbero costituire un interessante modello di riferimento anche per le comunità umane.
Natural. Artificial. Collective.
Da qui prende avvio, in coerenza con il titolo, la partitura in tre tempi della mostra internazionale che si articola con una densità espositiva senza precedenti. I lavori sono così ravvicinati che a volte si fa fatica a individuarne i rispettivi confini. In questo dovrebbero venire in aiuto i pannelli esplicativi che nella parte alta presentano, in sintesi grafica, la distribuzione planimetrica delle singole proposte ma anche per questi c’è mancanza di spazio e non sempre si trovano in prossimità dell’opera cui si riferiscono. Lunghi i testi delle didascalie, tra le 20 e le 30 righe, che l’IA è riuscita a compattare in una frase o due con impeccabile coerenza sintattica ma sovente concettualmente ermetici.
Mantenendo la spontaneità del dibattito aperto in tutte le direzioni, la mostra si presenta ricca di riflessioni eterogenee che rendono l’idea di un panorama vivace ma al contempo disorientante. Ampio spazio viene concesso all’uso per l’edilizia di materiali alternativi contro lo sfruttamento delle risorse: ecco dunque la sperimentazione di paglia (Soft Infrastructure (5)), conchiglie frantumate (Conq: Marine Biobased Building Materials (6)), micelio (MycoMuseum (7)), sterco di elefante (Elephant Chapel (8)), palma, sughero e lievito ingegnerizzato (Palm Onto-Intelligence (9)); ma c’è chi continua a promuovere l’uso del cemento foss’anche nella forma modulare e dunque riciclabile (From Liquid to Stone (10)) oppure nell’avanzatissimo 3D concrete che permette anche il riciclo degli scarti (11).
Alle ricerche che si avvalgono di sofisticate strumentazioni per controllare il calore del sottosuolo (Underground Climate Change (12)), oppure si cimentano in sperimentazioni robotiche dalle forme umanoidi (A Robot’s Dream (13)); AM I A STRANGE LOOP? (14)) si affiancano antiche realtà artigianali che arrivano addirittura alla replica della casa del tè Tai-an (15), presentata come esempio di resistenza culturale, oppure alle antiche Casas de Pensamiento (16), costruzione collettiva delle comunità indigene colombiane per lo scambio di idee e di informazioni. Non poteva non emergere il problema delle necessità abitative, stimate da Elemental (17), solo per le immediate necessità, in 22 miliardi di metri quadrati di edifici che se costruiti con i metodi tradizionali finirebbero per far collassare il pianeta. Ecco allora le molteplici indicazioni per l’adattamento di ciò che già esiste, senza dunque costruire ex novo, come i progetti HouseEurope!(18) e Great Together (19) per l’Europa o Akiya: Kazunori’s 8 (20) in Giappone oppure le indicazioni per prefabbricai ad emissioni zero come Belongings to Belonging dello stesso Elemental o, ancora, con Kengo Kuma, le forme strutturalmente stabili che utilizzano i prodotti di risulta dei disastri ambientali con il programma informatico Domino 3.0: Generated Living Structure, un omaggio all’omonimo sistema standardizzato di Le Corbusier.
Questo procedere in ordine sparso, in mancanza di indicazioni stringenti, si trova anche in tutte le proposte nazionali.
Partecipazioni nazionali
Anche qui le riflessioni suggerite dai diversi commissari sono molteplici e contrapposte: dalle serre per coltivare in contesti particolarmente avversi (Emirati Arabi Uniti), al controllo del microclima domestico grazie all’intelligenza naturale delle piante (Belgio (21)); dalla sperimentazione di un nuovo modello di architettura sportiva coinvolgente e ospitale (Paesi Bassi), ai simboli grafici della sicurezza domestica, nuove divinità protettrici di coloro che vi abitano (Polonia) …
Alcuni padiglioni sono poi in ristrutturazione: la Francia che ha scelto di trasformare le impalcature esterne del cantiere – con un’operazione un po’ debole a dire il vero – in una carrellata espositiva di architetture contemporanee; e la Danimarca che mette in mostra proprio i lavori in corso con l’analisi dettagliata dei materiali presenti e la loro riconversione.
Del tutto fuori registro invece sono apparse le analisi storiche degli Stati Uniti e della Grecia. Il primo con un focus sui “porticati”, elementi che fin dalle origini hanno caratterizzato le unità abitative americane, il secondo con un progetto di recupero degli Arsenali cinquecenteschi nell’isola di Creta. Per quanto la consapevolezza storica venga proposta come una forma di intelligenza, entrambe le operazioni, pur interessanti, appaiono concettualmente inadeguate.
Tra i Padiglioni degni di nota si registrano i lavori proposti dal Cile e dal Regno del Bahrain, entrambi in assoluta sintonia con la tematica generale. Il primo pone l’attenzione sulla consistenza delle infrastrutture digitali presenti sul proprio territorio (il Cile è uno dei più importanti hub per data center e svolge quindi un ruolo strategico nello sviluppo dell’AI) con il conseguente consumo di superficie, di acqua, di minerali e gli inevitabili conflitti sociali che ne derivano; il secondo è il più semplice dei padiglioni presenti in laguna, fatto solo di un ambiente di terra battuta circondato da cuscini sui quali poter sostare mentre le torri del vento, un sistema di areazione passivo della tradizione araba, abbassa di diversi gradi la temperatura rispetto all’esterno. Il Leone d’oro assegnato a quest’ultimo dalla giuria per aver saputo offrire soluzioni concrete all’impennata delle temperature conciliando rispetto ambientale e sostenibilità, è indubbiamente più che meritato.
È opportuno menzionare inoltre il padiglione della Gran Bretagna (22) che si presenta in collaborazione con il Kenya nel Geology of Britannic Repair, un focus sulla Great Rift Valley, la faglia di 6mila km che dalla Siria arriva al Mozambico. L’architettura perde qui i suoi storici connotati per diventare un diverso modo di relazionarsi con il territorio, con le tecniche estrattive delle risorse, per impostare nuove relazioni sociali, per rovesciare lo sfruttamento coloniale sul territorio africano e assumere il ruolo di una pratica riparatoria di ciò che è stato.
Alcune considerazioni sul Padiglione Italia – Terræ Aquæ. L’Italia e l’intelligenza del mare – a cura di Guendalina Salimei che ci introduce ad un tema a lei caro, quello delle coste italiane e della cultura del mare.
Dal 2006 il Padiglione Italia si trova alle Tese delle Vergini, costituito di due ambienti per un totale di 1200 mq. Uno spazio enorme che spesso genera nei curatori la sindrome dell’horror vacui per cui si tende a saturare le due Tese oltre la misura a scapito della chiarezza e della comunicazione. In questo caso si è scelto di procedere, come recita il comunicato stampa, con una Call for Visions and Projects, lanciata a gennaio e aperta fino a marzo, che ha raccolto 600 progettualità, vagliate poi in appena due mesi. Un tempo certo insufficiente per una selezione di qualità (quali siano poi le ragioni di questo perenne lavorare sul filo di lana non è dato sapere) per cui si è finito per accogliere praticamente tutto, organizzando le presenze in tre capitoli: Censimento sul Presente (progetti realizzati o in corso d’opera), Quadreria (progetti futuri, riflessioni sul tema), Laboratorio di ricerca (studi e approfondimenti).
Le Tese sono completamente buie per rendere visibili i numerosi filmati ma penalizzando al contempo la lettura delle didascalie e dei pannelli presenti. La superficie espositiva è moltiplicata da rampe e piani soprelevati sostenuti da una selva di tubi innocenti, numerosi i tavoli con monitor interattivi per visionare gli studi e i progetti relativi agli 8 mila km di coste del Paese.
Ovunque ci accompagna l’installazione eco-acustica con i rumori del mare di David Monacchi e ben presto si finisce per sentirsi sommersi tra le infinite immagini e gli onnipresenti suoni senza trovare possibili appigli di orientamento.
I tempi in cui le Biennali di Architettura intendevano segnare un’indicazione progettuale foss’anche solo mettendo a fuoco le competenze della propria disciplina, sembrano lontanissimi. Già nella precedente edizione (2023) la curatrice Lesley Lokko aveva voluto praticare lo sconfinamento in altri settori e Carlo Ratti ha proseguito in questa direzione. La sua Biennale ci parla di tanti aspetti, se ne esce oltremodo confusi e frastornati ma un messaggio arriva forte e chiaro: in un mondo “ormai alterato” e in continua trasformazione l’uomo deve ripensare sé stesso e il suo costruire, solo nell’adattamento e nella metamorfosi è data la possibilità di sopravvivere.
Luglio 2025
1) Donna Haraway (Denver 1944), zoologa, biologa e filosofa statunitense, è docente emerita presso l’Università di Santa Cruz in California. A lei si deve il concetto di cyborg e l’idea dell’avvento di una nuova era che chiama Chthulucene come superamento di quella attuale fortemente caratterizzata dall’attività umana, l’Antropocene. La sua filosofia ha influenzato il pensiero femminista e gli studi sulla diversità di genere. Il Leone d’Oro Speciale alla Memoria è invece andato all’architetto Italo Rota (1953-2024) che ha fatto della natura la sua linea guida. Il suo ultimo libro è stato Solo diventare natura ci salverà, Milano, Libri Scheiwiller, 2023.
2) Partecipano quest’anno per la prima volta la Repubblica dell’Azerbaijan, il Sultanato dell’Oman, il Qatar e il Togo. Assenti la Russia e Israele.
3) Il 24 aprile 2025 è stato reso pubblico il manifesto Intelligens: Towards a New Architecture of Adaptation firmato da architetti, scienziati, politici e intellettuali.
4) Architecton di Victor Kossakovsky, è un film documentario presentato alla 74a edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino nel 2024.
5) Soft Infrastructure di jaakko Heikkilä e Emil Lyytikkä.
6) Conq: Marine Biobased Building Materials di Angie Dub e Heidi jalkh.
7) MycoMuseum di Bhakti Loonawat e Suyash Sawant (Anomalia).
8) Elephant Chapel di Boonsem Premthada.
9) Palm Onto-Intelligence di Maria Paz Gutierrez e Donald Gensler.
10) From Liquid to Stone di Inge Donovan, jenna Schnitzler, Caitlin Mueller, Keith J Lee e Pitipat Wongsittikan.
11) Traditional Meets Innovation:Evolving Stoneworks Trought 3D Concrete Printing di Marco Galasso, Roberto Cognoli, Giovanni Marinelli, Ernesto Cesario e Daniele Bertini.
12) Underground Climate Change, Subsurface Opportunities and Innovations Laboratory Northwestern University, Geoeg Enerdrape.
13) A Robot’s Dream di Gramazio Kohler Research, ETH Zurich, MESH, Studio Armin Linke.
14) AM I A STRANGE LOOP? di Takashi Ikegami e Luc Steels.
15) T-An, The Art of Utsushi di Tomohisa Miyauchi, Naoko Tamura, Kunimitsu Hata, Atsuko Mochida, Simone Shu-Yeng Chung.
16) Vessels for Liminal Dialogues di Fundación Organizmo, Alice Grandoit-Sutka.
17) Elemental è lo studio di architettura fondato da Alejandro Aravena a Santiago del Chile.
18) HouseEurope!, s+ (station.plus, D-ARCH.ETH Zurich), b + Prototypen, CCA-Canadian Center for Architecture.
19) Great Together di Rocio Carzado, Jasper Meurer, Docar films
20) Akiya: Kazunori’s case di Lucia Filippini, Andrea Terceros Barron, Linshiro Ono, Kazunori Hamana.
21) Il Padiglione Belga presenta Building Biospheres curata dal neurobiologo Stefano Mancuso e l’architetto Bas Smets. Quest’ultimo, noto paesaggista, ha già realizzato a Roma un intervento nei giardini di Villa Medici e si appresta a firmare parte del MaXXI Green, un parco urbano di 7200 mq, nonché i giardini di Notre-Dame a Parigi.
22) Il Padiglione della Gran Bretagna è curato da Owen Hopkins, Kabage Karanja, Stella Mutegi, Kathryn Yusoff, questi ultimi del gruppo di Cave_bureau con sede a Nairobi.