Quando le tecniche arabe di sopravvivenza diventano modellizzanti
Daniela De Dominicis
Sarà perché la desertificazione in atto procede senza sosta, con il Sahara che avanza di 800 metri ogni anno mettendo a rischio la fascia semi arida del Sahel e la savana del Sudan, sarà che un quarto della popolazione mondiale, secondo i dati dell’Unicef (1), non ha accesso all’ acqua potabile e l’ emergenza idrica non risparmia nessun angolo del pianeta, sta di fatto che gli insediamenti e le tecniche di sopravvivenza nei territori aridi, ad opera delle popolazioni che storicamente vi hanno abitato, sono attualmente oggetto di attento studio. Le tecniche naturali di raffrescamento degli ambienti, l’attenzione nella raccolta e lo sfruttamento dell’acqua piovana, le tecniche di irrigazione con canali che orientano misurate risorse idriche senza disperderle, … tutto ciò è guardato con interesse via via crescente. La Biennale di Architettura di Venezia, non a caso, ha premiato nel 2025 il Padiglione del Regno del Bahrain per la versione altamente tecnologica delle antiche torri del vento, la modalità storicamente usata nelle case persiane e arabe per mitigare le elevate temperature con espedienti costruttivi senza alcun consumo energetico. Si tratta di alti camini in muratura che pescano l’aria fresca in alto e la canalizzano all’interno degli edifici che registrano così un abbassamento della temperatura di diversi gradi.
In realtà le tecniche costruttive degli insediamenti arabi sono emerse nel dibattito architettonico italiano negli anni Trenta quando l’occupazione coloniale del territorio libico era ormai ventennale, segnando una netta differenza con quanto sperimentato in Africa orientale.
Gli insediamenti tradizionalisti delle colonie italiane nel Corno d’Africa
Le esperienze del Regno d’Italia in Eritrea, Somalia ed Etiopia (2), avevano visto infatti un’acritica esportazione di modelli urbanistici e architettonici europei. Per esempio, l’insediamento eritreo di Asmara, capitale della prima colonia italiana – piccolo villaggio rurale nel 1890 e città di 100 mila abitanti nel 1936 con assi viari ortogonali e radiali secondo i progetti di Odoardo Cavagnari (1913), di Guido Ferrazza (1937) e di Vittorio Cafiero (1939) – è costellato di edifici realizzati con materiali, tecniche e stili del tutto estranei alla tradizione locale (3). Nel suo centro storico si possono trovare infatti edifici ispirati alla cultura romanico lombarda come la cattedrale (4), costruzioni in stile rinascimentale come il teatro dell’opera (5) con le scale esterne a curve contrapposte come la villa medicea di Poggio a Caiano, i complessi art déco come il palazzo delle poste, i numerosi cinema(6), bar, pasticcerie, esempi di sperimentazione futurista come la famosa stazione di servizio Fiat Tagliero (7), caseggiati e alberghi razionalisti (8), … il tutto costruito con materiali – anche marmi preziosi – provenienti dall’Italia via mare attraverso il canale di Suez.
La peculiarità di questo insediamento africano, tutt’oggi ben conservato, ha fatto scattare l’operazione di tutela da parte dell’UNESCO che nel 2016 ha dichiarato la città di Asmara patrimonio dell’umanità. Questo ha permesso di tutelare l’esistente e facilitare l’accesso a finanziamenti di restauro impedendo il ripetersi dell’esperienza etiope con la demolizione dei quartieri di marca coloniale come forma di damnatio memoriae oppure il totale degrado di analoghe costruzioni in Somalia, Paese dilaniato da feroci conflitti interni che non sembrano trovare soluzione. Sul tema caldo dell’eredità storica è innegabile tuttavia la possibilità di leggere nel recupero di tali preesistenze più che un mezzo di riappropriazione culturale da parte della popolazione locale, una forma di nuovo colonialismo economico, questa volta di marca turistica. Nell’ambito di tale dibattito va segnalata l’attività degli architetti del collettivo DAAR-Decolonizing Architecture Art Research (9) già vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Architettura nel 2023 e presente con un focus sugli insediamenti italiani in Libia (Italian Ghosts) nella Biennale di Venezia di Rem Koolhaas del 2014.
Gli studi sull’architettura araba: Libia anni Trenta
La Libia – definizione entrata in uso solo nel 1934 con l’unificazione di Tripolitania, Cirenaica e la regione interna del Fezzan – è l’impresa coloniale promossa dal Governo Giolitti nel 1911.
Anche a Tripoli nel secondo e terzo decennio del ‘900 gli interventi sulla città hanno riproposto impianti urbanistici ortogonali e radiali di marca europea, affiancati da edifici eclettici talvolta arricchiti da citazioni arabeggianti. Il primo nucleo di architetti impegnati sul territorio d’oltremare – C. Bazzani, A. Brasini, O. Cabiati, G. Ferrazza, A. Alpago Novello, F. Di Fausto, A. Limongelli – tutti nati negli ultimi decenni del secolo precedente, propongono interventi ispirati ai modelli accademici o a un classicismo moderato stile “Novecento”, che ben rispondono ad esigenze di rappresentanza dello Stato Italiano anche nella declinazione fascista. Ma con la nuova generazioni di progettisti – C.E. Rava, L. Piccinato, G. Pellegrini – nati allo scadere del secolo o nel primo decennio del successivo, vengono introdotti inediti elementi di riflessione nel dibattito architettonico. Si tratta di giovani formatisi sulla lezione del razionalismo d’oltralpe – quello di Gropius e di Le Corbusier – che tuttavia non vogliono recidere i ponti con la propria tradizione e dimostrano altresì interesse per le tecniche costruttive e i materiali del luogo. Gli insediamenti rurali promossi in Libia da Italo Baldo a partire dal ’34, dopo la violenta repressione della resistenza interna, sono numerosi. La cosiddetta “quarta sponda” diventa la terra promessa, destinata ad una intensiva produzione agricola; nel ’38 vi vengono trasferiti 20mila coloni con l’idea di replicare l’operazione negli anni successivi e l’obiettivo evidente di una colonizzazione fondiaria e demografica. I borghi e i villaggi rurali lungo la fascia costiera, si presentano tutti con le stesse caratteristiche: piazza centrale circondata da municipio, chiesa, scuola, posta, mercato, casa littoria e, tutt’intorno, fattorie e poderi irrorati con l’acqua pescata a 400 metri di profondità grazie alle pompe elettriche.
È in questo ambito che prende le mosse un nutrito confronto sulle scelte architettoniche più adatte al contesto con indagini sulle antiche tecniche locali. I Congressi (10) e le riviste specializzate (Domus, Architettura, Rassegna di Architettura tra le più attive) ne amplificano il dibattito e nel ’36 Giovanni Pellegrini pubblica il Manifesto dell’Architettura Coloniale. Si studia l’organizzazione della casa araba la cui disposizione parte dal centro – in genere una corte ombreggiata dove il calore non arriva e i muri sono risparmiati dall’irraggiamento solare – con i diversi ambienti che si articolano poi tutt’intorno protetti da logge e avancorpi che impediscono l’abbagliamento della luce, con griglie frangisole (mashrabiyye), le aperture per l’areazione e il raffrescamento delle stanze. Parte di queste soluzioni sono introdotte in alcuni degli insediamenti rurali promossi da Baldo (per esempio il villaggio Baracca di Giovanni Pellegrini o il Crispi ancora di Pellegrini e Umberto Di Segni (11) e vengono guardate oggi con attenzione crescente soprattutto circa i sistemi di irrigazione e di raccolta idrica.
Il censimento dei pozzi del deserto
Nell’ambito degli studi sulle possibilità di vita in latitudini calde, di particolare interesse è il lavoro degli architetti del Bled El Abar Collective (fondato da Vanessa Lacaille, Mounir Ayoub e Hamed Kriouane) dal 2013 di stanza a Ginevra e attivo sia in Europa che in Africa. Il gruppo è già noto in Italia per aver esposto alla Biennale di Venezia in due occasioni: nel 2021 quando è stato invitato a rappresentare la Svizzera con il lavoro Oræ – Experiences on the Boder, e nel 2023 per la mostra della curatrice, Lesley Lokko, con Welcome in Nomadland (12). È in quest’ultima circostanza che l’interesse del gruppo si è concentrato sulle popolazioni nomadiche del Sahara, ridotte forzosamente ad una presenza del tutto marginale. In Algeria e in Tunisia infatti la dominazione francese prima e i governi successivi poi hanno combattuto ferocemente il nomadismo sia per avere un controllo totale delle aree desertiche sia per sopperire alla mancanza di manodopera nelle città minerarie e più recentemente nel turismo, imponendo così la sedentarizzazione. Le aree desertiche del nord Africa, fino alla metà dell’Ottocento percorse regolarmente da gruppi umani e animali, si sono via via spopolate perdendo in tal modo le proprie funzioni vitali. I punti di reperimento dell’acqua dei percorsi carovanieri, non più utilizzati e manutenuti, sono scomparsi perché – come amano sottolineare gli architetti del gruppo Bled El Abar – il venir meno del nomadismo ha fatto scomparire l’acqua e non il contrario.
La loro esposizione Land of Wells (La terra dei pozzi) ospitata recentemente presso il nuovo centro culturale 32bis a Tunisi (13), ha presentato infatti una precisa mappatura delle centinaia di punti d’acqua sparsi tra le dune del Sahara tunisino che, in due anni di attività sul campo, gli architetti sono riusciti ad individuare. Difficile stabilirne il numero esatto – forse seicento o settecento ipotizza Hamed Kriouane in catalogo – nonché conferire una datazione precisa a quelli rinvenuti. La finalità del progetto è recuperare la consapevolezza di un patrimonio ecologico e culturale di grande rilevanza e cercare fondi per ripristinarne il funzionamento. La presenza dei pozzi nel deserto è talvolta appena distinguibile, segnalata solo da un basso muro di mattoni con una sbarra orizzontale, una carrucola e un secchio. In alcuni si percepiscono ancora le tracce degli abbeveratoi e delle tettoie per gli animali ma spesso la sabbia ha finito per seppellire tutto. I pozzi più superficiali sono riempiti solo dall’acqua piovana, quelli scavati fino a 250 metri di profondità pescano invece nelle falde acquifere. A depauperare le risorse idriche sono subentrate in tempi recenti le monocolture dei palmeti artificiali che attingono all’acqua di falda con la potenza energetica fornita dai pannelli fotovoltaici. I prelievi diventano così intensivi, inutilmente superiori alle necessità, compromettendo in tal modo la sopravvivenza delle altre prese d’acqua. Il collettivo ritiene fondamentale una regolamentazione sullo sfruttamento idrico che possa permettere il recupero e la sopravvivenza del sistema dei pozzi che in realtà già esiste, va solo riportato alla memoria e all’uso. L’unica presa d’acqua finora restaurata, a cura del gruppo di architetti e degli abitanti del luogo, è quella di Bir Ettin, inattiva dagli anni ’90, che appena recuperata al funzionamento ha subito registrato il ritorno degli uccelli e dei cammelli selvatici nonché facilitato la vita dei pastori dei villaggi vicini.
Ecosistemi delicati e preziosi che vanno conosciuti e protetti dunque, come del resto quello delle oasi compromesso dalla massiccia antropizzazione e dal conseguente cambiamento climatico.
Questi micromondi, non più curiosità esotiche di civiltà lontane, diventano ora importanti modelli di convivenza con una realtà che si sta avviando ad una progressiva desertificazione.
Ottobre 2025
1) “un quarto della popolazione mondiale soffre di iniquità e fragilità fondamentali per l’accesso all’acqua da bere”, www.unicef.it/programmi/acqua-igiene/.
2) L’Eritrea nel 1890 è stata la prima colonia italiana cui segue la Somalia (già protettorato) nel 1908 e infine, dopo sette anni di guerra, l’Etiopia nel 1936.
3) Su questo argomento il MaXXI ha recentemente dedicato una mostra nella sede dell’Aquila: Architetture e città nel Corno d’Africa – Un patrimonio condiviso, mostra a cura del MaXXI Architettura con Andrea Mantovano, L’Aquila, 28 giugno-10 novembre 2024.
4) La cattedrale di Asmara dedicata alla Beata Vergine del Rosario è stata realizzata tra il 1921 e il 1923, progettata in stile neo romanico da Oreste Scanavini.
5) Il Teatro dell’opera di Asmara è stato inaugurato nel 1920 su progetto di Odoardo Cavagnari.
6) Il palazzo delle poste è stato progettato tra il 1935 e il ’37 da Guido Ferrazza; al 1937 risalgono diverse sale cinematografiche: Impero (progettista Mario Messina), Roma (Roberto Cappellano e Bruno Sclafani), Capitol (Ruppert Saviele), Odeon (Giuseppe Zacche).
7) La stazione di servizio di Fiat Tagliero, realizzata nel 1938 da Giuseppe Pettazzi, ha la forma dinamica di un aeroplano.
8) Per esempio Palazzo Falletta del 1938 (Carlo Marchi e Giuseppe Canè) e l’Hotel Asmara oggi Selam del 1937 (Vincenzo Pantano).
9) Il collettivo DAAR è stato fondato nel 2007 a Stoccolma da Sandi Hilal e Alessandro Petti.
10) Tra i più importanti: Congresso Nazionale degli Architetti Italiani, Napoli, 11-12 ottobre1936; 1° Congresso Nazionale di Urbanistica, Roma, 5-7 aprile1937; 3° Congresso di Studi Coloniali, Firenze-Roma, 12-17 aprile 1937; Prima Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare, Napoli, 9 maggio – 15 ottobre 1940.
11) Curioso notare come Florestano Di Fausto per il villaggio D’Annunzio abbia invece utilizzato degli incongruenti tetti a spiovente tipici delle aree nordiche.
12) Alla Biennale di Architettura del 2023 gli architetti Vanessa Lacaille e Mounir Ayoub si presentano come Le Laboratoire d’Architecture; assumono la denominazione di Bled El Abar Collective quando lavorano insieme allo studio Hamed Kriouane architecte.
13) Il centro deve il nome al numero civico della strada che lo ospita, il 32bis Rue Ben Gedhahem 1000 Tunisi. La mostra fotografica Land of Wells, inaugurata il 18 aprile, si è conclusa il 28 giugno 2025, catalogo Lalla Hadria Edition. Su questa esposizione cfr Lilia Blaise, “Un’esposizione per non dimenticare i pozzi”, 22-med, 19 maggio 2025 e Olivier Rachet, “Tunisia, gli architetti che contano i pozzi nel deserto”, Il Giornale dell’Arte, 17 luglio 2025.